giovedì 26 dicembre 2013

Perché tutto rimanga come è

Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si radeva dinanzi allo specchietto «E come li chiamano? – si domandava – Pilett? Ginett? Ah no! Gillette.», e scoteva il capo, scettico di tanta modernità. A lui, allo Zio, i rasoi piacevano solidi, bel manico di corno, lama affilata di almeno dieci centimetri, come quello che con allenata perizia gli carezzava delicatamente la guancia destra e poi, ancora più delicatamente, con maestria e attenzione superiori, la pericolosa e delicata curva tra collo e mascella. Abbassò la mano, contemplò il risultato allo specchio, e mentre si confermava che per persone come lui, provviste di tanta e maschia barba, quel giocattolino, quel Pippett, proprio non servirebbe, vide riflesso, accanto al suo, il volto ben più giovanile, nascosto da occhialoni a goccia, di suo nipote Vittorio, quel nipote la cui vista gli stringeva il cuore perché così somigliante a sua madre, e così simile a quel desiderato figlio che avrebbe avuto se la Madonna, con la complicità di sua moglie – sospettava sfidando ogni logica scientifica - , non gli avesse concesso che tre figlie femmine.
«Vittorio, cosa hai combinato questa volta?». « Buongiorno, Zio. Cosa ho combinato? Sono stato in giro. , Amici, incontri, affari importanti. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state la sera intera in salotto al cospetto della tivvù.». « E chi erano queste conoscenze, si può sapere?». «Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi ieri a sera passando qui dabbasso mentre mi recavo da una certa persona.».
Era davvero troppo insolente. Credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. «Non guardavo la tivvù, avevo da controllare i conti delle campagne , le olive, il vino, l’olio.». «Le campagne, l’olio. Ma zione, non sono più tempi di campagne, questi.». Lo Zio si sentì offeso. Non fosse somigliato così a sua madre, quel giovinotto avrebbe avuto di che pentirsi di tanta insolenza; solo l’affetto che provava lo portò a cambiare discorso «Ma perché sei vestito così? Cosa c'è? Un funerale questa mattina?». Il nipote era diventato serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. «Parto, zione, parto fra un'ora. Sono venuto a dirti addio.» Il povero Zio si sentì stringere il cuore. «Fuggi? Ti cercano?» e già si vedeva, come in passato, il nipote rinchiuso all’Ucciardone per anni. «No zione, non fuggo. Vado a Milano». «A Milano? E da chi?». «Uno di su, un costruttore, è Marcello nostro che ce lo raccomanda». «Ma che ci vai fare lassù a Milano?». «Affari, zione. Finanza, il bisinéss del futuro: ci fa guadagnare in un mese quanto le vostre campagne in dieci anni».
Lo Zio ebbe una delle sue solite visioni improvvise: una scena crudele, il suo Vittorio milanese, perso nella nebbia, dimentico di casa, a friggere calamari nel burro. «Sei pazzo, figlio mio. Andare a mettersi con quella gente. Sono tutti imbroglioni. Un Mangano dev'essere con noi, per la famiglia, in Sicilia.». Gli occhi ripresero a sorridere. «Per la famiglia, certo, ma per quale famiglia?» Il ragazzo ebbe uno di quei suoi accessi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. «Se non ci siamo anche noi, quelli scendono coi piccioli, ci comprano la Sicilia e ci mettono un comunista a Sindaco. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?». Abbracciò lo Zio un po’ commosso. «Arrivederci a presto. Ritornerò col panettone.».
Leggi tutto

lunedì 18 novembre 2013

Teste responsabili

Riprovò ancora, davanti allo specchio. Sguardo intenso, volto serio ma non funereo, espressione di una virile preoccupazione e non certo di un’adolescenziale disperazione. «Penso che il popolo italiano abbia dimostrato in questi anni una grande maturità» e annuì, come per affermare una profonda verità. Si guardò ancora nello specchio e sentì le mascelle contrarsi. Strinse i denti e con indice e pollice finse di massaggiarsi le tempie (cosa che comunque non bisognerebbe fare: mai nascondere il proprio volto, può venir percepito come segno di insincerità), si schiarì la voce, tossì, simulò un bruscolino all’occhio, poi un accesso di tosse, un attacco asmatico una polmonite fulminante una Tbc istantanea una congiuntivite una paresi forse sintomo di chissà cosa, ma alla fine capitolò. La risata gli scappò. Nemmeno questa volta c’era riuscito, era un passo molto difficile.
«Teste di minchia» : avrebbe voluto dire. Altro che grande maturità, grande saggezza, grande responsabilità, ma quale!: teste di minchia ecco cosa siete. Ma come minchia avete fatto, voi deficienti di italiani, a votare quel delinquente, quel depravato quel malfattore finto come una moneta da tre euro? Come minchia faceste? E ora, ora che stiamo nella merda cosa pretendete? Che non sia colpa vostra? Che sia colpa della casta, della Merkel, della zanzara tigre, dell’Euro, dell’anticiclone delle Azzorre? Di chiunque, ma non vostra? Teste di minchia siete e teste di minchia resterete.
Il guaio, però, era che  definire teste di minchia gli elettori nel corso dell’ultimo appello prima delle votazioni non viene considerata, in genere,  una tattica vincente. Doveva riprovare, mantenersi serio. Crederci. Sì, crederci: quello è il segreto.
Ancora davanti allo specchio, aggiustatina alla cravatta. Schiarimento di voce. «Penso che il popolo italiano abbia dimostrato in questi anni una grande maturità». Ci credeva: era vero. Il popolo italiano è maturo e responsabile. Saggio, è il termine giusto. Controllò la sua espressione allo specchio: seria, assertiva. Credibile. Ottimo, passiamo oltre.
«Penso che solo il grande spirito di sacrificio dei padri e dei nonni abbia permesso la sopravvivenza di tanti giovani senza lavoro…» Seeh, ‘sta minchia. Prima i nonni e i padri si sono pappati tutto, poi danno qualche briciola ai propri figli e pretendono la medaglia d’oro al valore. Senso di responsabilità? Ma quale? Hanno distrutto le coste di un paese per costruirci le loro villettine abusive. Si rovina il paesaggio? E cosa me ne fotte? Mica è mio il paesaggio! Le tasse sono alte, il debito esplode? Ma chi se ne frega, tanto io evado. Responsabile? Popolo responsabile? Ma quale? Quello danese, forse.
No, così non andava. La sua espressione tradiva un certo disgusto, e tutti concordano sul fatto che non sia opportuno schifare i propri potenziali elettori.
Si ricomincia. Aggiustatina alla cravatta, respiro profondo, sguardo intenso.  «Penso che il popolo italiano…».
Leggi tutto

giovedì 27 giugno 2013

Treno a errata velocità

«Certo, certo, non dobbiamo perdere il treno. A che ora arriva a Milano?»
«Nel pomeriggio, verso le tre.»
«Bene. Sarà una giornata importante per la storia della sinistra.»
Si accomodò quindi nella poltrona a lui riservata, posò la pesante e voluminosa mazzetta di giornali sul vuoto sedile accanto al suo, inforcò gli occhiali da lettura, sfilò Rinascita e si accinse a riprendere una fondamentale analisi sui conflitti di classe nell’India nord orientale, progredì di otto o nove righe rispetto all’ultima lettura, dodici righe, della sera precedente, ripose la Rinascita nella mazzetta, sfilò la Settimana Enigmistica, prese la penna dal taschino e puntò ai solutori più che abili.
Assorto nel cruciverba non fece caso alle fermate successive, ma proprio quando, in orizzontale, si chiedeva di un Comune del cosentino (Amantea, per i curiosi) si sovvenne della geografia italiana e dell’insolita presenza di Campello sul Clitunno lungo la linea Roma Milano.
Infatti: stava viaggiando sulla Roma Falconara.
Frenetico conciliabolo con il capotreno, tra gli sguardi interessati degli altri viaggiatori che, in epoca precedente a tablet e portatili, avevano trovato qualcosa per combattere la noia e, alla fine, si determina di arrivare a Falconara e da lì prendere il Bari Milano. Ritardo totale: tre ore o poco più.
Raggiunta Falconara, da una cabina a gettone avvisò i compagni di Milano. Appuntamento con la storia alle sette, e non più alle quattro.
Attese il treno camminando nervosamente su e giù per la banchina quando, finalmente, arrivò. Ancora una comoda poltrona, altre tre righe di conflitti di classe in India e lesto ritorno alla Settimana Enigmistica.
Fu dopo un paio d’ore, superata agevolmente una mezza dozzina di verticali agguerriti, che si rese conto non solo della bellezza del mare (l’aveva notato quasi subito), non solo di quanto fosse calmo e azzurro (anche questo già precedentemente apprezzato) ma, anche, di come si trovasse tragicamente a sinistra .
«Ma è il treno di Milano, questo, vero?» chiese con un filo di voce ad un compagno di scompartimento.
«Certo…».
«Ah, meno male…».
«… è il treno partito da Milano alle undici e che arriverà a Bari tra un paio d’ore».
Frenetica ricerca del capotreno, concisa, ma esauriente,  esposizione delle ragioni della storia, si perviene all’idea di non aspettare il Bari Milano di ritorno ma, piuttosto, salire su un Bari Napoli che arriverebbe a Napoli Centrale in tempo per un vagon letto che, verso le dieci della mattina dopo, giungerebbe a Milano Centrale.
Sceso fremente a Bari, cambiò duemila lire in gettoni e avvisò Milano. Alle dieci della mattina, sicuro. Appuntamento, svolta storica, giornata cruciale.
Nemmeno il tempo di una sfogliatella a Napoli e salì sul vagon letto. Stanco e distrutto si distese sullo scomodo letto e sprofondò in un sonno pesante.
Ma gli eventi della giornata l’avevano segnato tant’è che gli sembrò di rivivere le ore appena passate e, in particolare, quell’orizzontale che non quadrava. Gli pareva, nel sogno, che una voce evocasse “Amantea, Amantea” per poi disperdersi nel nulla.
Al risveglio, calcolò che doveva trovarsi nei pressi di Piacenza. Si stupì un poco, quindi, nell’alzare la tendina e vedere il mare, dai più considerato elemento non peculiare del paesaggio padano. Per qualche momento lottò per convincersi che trattavasi del Po che, in effetti, a Piacenza è bello largo. Ma quando vide, sullo sfondo, una petroliera, si arrese.
Ormai rassegnato, non si stupì oltremodo quando, arrivato il treno in stazione, sentì annunciare “Lamezia Terme, cambio con Catanzaro Sala”.
Altri gettoni, ma, a Milano, le cose erano mutate. In peggio.  Delusi e disillusi i compagni avevano ridato le tessere giurando di dedicarsi ad altre attività. Il giardinaggio, l’acquariofilia e l’enogastronomia tra le preferite. Anche un po’ di sesso fetish.
Arrivò a Roma in serata. Nessuno ad attenderlo, la giornata storica per la sinistra era trascorsa.
Leggi tutto

mercoledì 15 maggio 2013

Il recupero del tempo perduto


Gli insetti, per esempio. Leggi qua, un interessantissimo resoconto della Società italiana delle Scienze del 1853 :”È innegabile la somma affinità della Thoreyella coi Rafigastri. Le particolarità delle antenne dello scutello e delle ale superiori sono differenze di poco momento e non escono dalle file de caratteri meramente specifici. Ma non così quelle della struttura del capo. Il notevole avvanzamento delle gene al di là della fronte è sufficiente a dimostrare l’ impossibilità dell’ innalzamento del primo articolo della mascella al di sopra dell’ asse longitudinale del corpo durante l’atto della manducazione, impossibilità che non sarebbe manifesta nei casi frequenti in cui l’origine della mascella è attigua all’ apertura della bocca e in cui l’apertura della bocca è all’ estremità anteriore della testa.”. Decisivo, chissà perché mi era sfuggito sino ad ora…
Non solo: mi rendo conto di aver trascurato, e molto, anche la mineralogia. Illuminante questo ricordo di Pini del 1832, strano che non l’abbia letto prima: “I feldspati trovati dal Pini sul S Gottardo erano generalmente o bianchi, o lattei, e tra questi secondi alcuni pochi avevano una tinta verdiccia; non crepitavano al fuoco, sebbene cristallizzati, il che, come nota il N.A., è un eccezione al principio asserito da Kirvan, il quale sembra perciò non avere conosciuti i feldspati del S Gottardo: la maggior parte, spezzati, esalano un odore quasi simile a quello della pietra suilla, indizio dello sviluppamento di qualche sostanza volatile combinata con qualche acido”. Ma cosa è questo fracasso? Ah, la televisione dei vicini a tutto volume. Il telegiornale: voto di fiducia al Governo, Berlusconi e il partito di Prodi votano insieme.
“Analizzando poi scrupolosamente e coll’ appoggio di apposite figure la struttura lamellare di questi feldspati trova il Pini ch’essa è ben diversa da quella, che il signor De Saussure ha riconosciuta in altre pietre di tale natura, e che il signor De l’Isle non solo riguarda come generale ai feldspati, ma assume anche come un principio per ispiegare le diverse cristallizzazioni de medesimi.” Quanto tempo ho sprecato… Perché, in tutti questi anni, non ho letto queste pagine? Cosa mi ha distratto? E la bellezza della matematica? Perché non l’ho coltivata? Senti, senti: “Dunque: il seno iperbolico è la lunghezza della perpendicolare calata dall’estremità dell’arco iperbolico corrispondente ad un dato settore, sul prolungamento dell’asse principale che passa pel vertice della iperbole equilatera.  La lunghezza CP dicesi coseno iperbolico. Dunque: il coseno iperbolico è quella distanza che corre tra il centro della iperbole equilatera ed il piede del seno. “ Ancora la televisione dei vicini. Le notti passate ad aspettare i risultati elettorali. Chilometri di girotondi, marce,  manifestazioni contro Berlusconi.  Ma non distraiamoci ”La retta AT dicesi tangente iperbolica del settore ACM onde :
La tangente iperbolica è quella porzione della tangente al vertice della iperbole equilatera limitata da quella retta che partendo dal centro va all’estremità dell arco corrispondente al settore.
La retta CT dicesi secante iperbolica onde:” Applausi in aula. Deputati del PD stringono la mano ai berlusconiani. Quanto tempo buttato…
La seconda iperbolica è quella porzione della retta, la quale dal centro della iperbole equilatera andando al punto estremo dell’ arco corrispondente al settore…
Leggi tutto

giovedì 4 aprile 2013

Protocollo di Democrazia 3.12

I like erano arrivati al 65%, un buon numero ma non ancora sufficiente: per quel tipo di risoluzioni erano necessari i due terzi di pareri favorevoli. La discussione, piuttosto calma nel forum principale s’infervorava nei sub forum che ancora non avevano espresso la loro preferenza. Era lì che bisognava intervenire, e mancava solo un’ora.
Eva contattò Adam, un suo conoscente attivo in quel  meetup dell’Alaska che ancora doveva esprimere il suo like. L’ultimo protocollo di Democrazia, il 3.12, infatti, aveva adottato uno schema di votazione che ricordava quello dei vecchi caucus delle presidenziali americane: ogni meetup locale esprimeva un solo voto, e questo era  determinato dalle votazioni dei suoi iscritti. Non era il sistema ottimale, anzi, ma aveva il pregio di rivitalizzare le località che, in caso di un’unica votazione generale, avrebbero perso la loro identità. Si era arrivati al 3.12 dopo le cattive esperienze delle versioni 2.XX che, prevedendo il principio tot capita tot sententiae, di fatto scatenavano un referendum globale sulla rete con forum impossibili da gestire . Le versioni 3.0 e seguenti, riprendendo il meccanismo dei caucus avevano dato un grande sviluppo ai gruppi locali e avevano permesso una maggiore partecipazione. Eva continuava a preferire, però, i sistemi 2.XX: con i 3.XX una posizione minoritaria nel meetup locale finiva per non contare nulla a livello globale. E, inoltre, il sistema di votazione  era diventato pachidermico, a tutto svantaggio della velocità di risoluzione. Per ogni votazione, infatti bisognava prevedere l’apertura simultanea di un forum globale e di miriadi di forum locali, ciascuno dei quali si prendeva  il suo tempo per discutere ed esprimere il suo voto. Lungaggini, a volte infinite.
«Adam, come vanno le cose lì in Alaska?»
«Ce la faremo».
«Mi raccomando».
«Inutile che tu me lo dica: l’abolizione di questa legge è lo scopo della mia vita»
«E’ importante. Mancano ancora pochi like per i due terzi»
«Lo so, ce la faremo,  sarà una nuova era per l’Umanità»
Si aprì una finestrella in basso a destra sullo schermo: Tasmania, Bengala e Senegal avevano posto il like. Immediatamente dopo seguì il dislike del Galles, ma fu sovrastato da altri like provenienti da ogni parte del mondo. 67%, e il numero dei subforum che non avevano espresso il voto si assottigliava.
«Adam, se Alaska pone il like siamo alla maggioranza matematica, indipendentemente da quello che votano gli altri»
«Vedo. Ormai ci siamo»
Infatti, contemporaneamente apparve, nella solita finestrella, l’avviso del like dell’Alaska e poco dopo i forum si oscurarono e comparve la schermata di fine votazioni. Votazione conclusa – si  annunciava. Raggiunta la maggioranza dei due terzi. E poi, in grandi caratteri stampatello,
LA PROPOSTA E’ STATA ACCOLTA.
LA LEGGE DI GRAVITAZIONE E’ ABOLITA.
Ad Eva, distante migliaia di chilometri , parve quasi di sentire l’urlo di gioia di Adam. Il quale, infatti, appena conosciuto l’esito del voto volle finalmente coronare il sogno della sua vita e corse verso la finestra, l’aprì e, con foga, scavalcò il davanzale.
I suoi informi resti biologici, spalmati sull’asfalto, dieci piani più in basso, furono poi ritirati dalle squadre di raccolta biologica e conferiti al compost comunale. Da quel concime, poi, sarebbero  nati molti alberi, per un pianeta più green.

Leggi tutto

venerdì 22 febbraio 2013

Sensi di colpa

Di tanto in tanto veniva colto da sensi di colpa. Talvolta la mattina, appena svegliato, quando il sole dei tropici premeva contro la tendina della finestra. Oppure poco dopo, scendendo le scale del bungalow, diretto al patio per consumare la sua colazione circondato dalla spiaggia bianchissima, bagnata dal turchese dell’Oceano. A volte, invece, quel senso di colpa lo coglieva nel corso della giornata, magari mentre nuotava nella laguna del suo atollo verso la barriera corallina, in cima alla quale si appostava per ore perdendosi a guardare i pesci angelo che volteggiavano sui coralli oppure a scorgere, nel blu, le ombre veloci dei delfini che passavano. Persino in certe sere poteva provare quel disagio, un’ombra sulle sue cene in compagnia della donna più bella che avesse mai conosciuto e corteggiato. Non era stato facile vincere le sue resistenze, all’inizio, ma poi era riuscito a convincerla, allettandola con la prospettiva di vivere lì, in quel paradiso in terra, la maggior parte del tempo. Erano passati già due anni, volati come una sola settimana, da quando si erano trasferiti. Avevano a disposizione, solo per loro, un villaggio intero di bungalow e capanne mentre il personale di servizio, discretamente, abitava fuori dagli sguardi, nascosto dal fitto dei palmeti.
In fondo non era del tutto scontento di quel senso di colpa, era un’ulteriore prova del suo animo gentile. La sua vita era quella di un privilegiato, non poteva certo negarlo: per fortuna, abilità, intelligenza, a lui era concesso ciò che gli altri potevano solo sognare. …Gli altri, quel resto di umanità che popolava affollati dormitori, se non baracche di favelas, che si alzava la mattina per andare a sprecare la giornata in occupazioni noiose e alienanti al solo scopo di guadagnare quel minimo di sostentamento per un’ulteriore giornata sprecata. E così per tutti i giorni e tutti i mesi e tutti gli anni, senza speranza di un cambiamento e col solo conforto di un’oretta di collegamento in realtà virtuale la mattina o la sera, sempre che le forze lo permettessero. Quell’ora di realtà virtuale, che concedeva il sogno e l’illusione di essere l’imperatore del mondo o un grande sportivo o un acclamato divo era l’unico conforto ad una povera esistenza.
Proprio pensando al resto dell’umanità, di tanto in tanto, veniva colto dai sensi di colpa, magari quando, come ora, ammirava la spuma bianca delle onde cavalcare le acque cobalto. Anche se, a guardar bene, quel blu tendeva a scolorirsi mentre una nebbia sembrava calare sul mare, densa, che annullava la differenza dei colori coprendo tutto di grigio. Il mormorio della risacca, un lieve sussurro poco prima, cresceva di intensità, copriva la brezza tra le palme e ad aumentava, ancora, sino a diventare un rumore, un frastuono, stridente, insopportabile, acuto, un urlo, quasi, una sirena.
Le sette. L’ora di realtà virtuale era terminata; aveva dieci minuti, non di più, per prepararsi, correre alla lurida metropolitana e precipitarsi nel suo cubicolo dove avrebbe sprecato le prossime ore affannandosi per nulla. Dodici ore, doveva resistere dodici ore prima di tornare alla sua isola, nel suo atollo, tra i suoi pesci angelo che guizzano tra i coralli.
Leggi tutto