domenica 31 ottobre 2010

D'Arcore il Nullocrinito

Cantami o Diva del nullocrinito d’ Arcore la triste sorte che infiniti guai agl’Itali causò sin da quando, giovinetto, s’accorse che ciò che toccava, per burla degli dei, in merda si mutava. Suoi amici libri d’eroi leggevan, e d’avventure, ma non lui, ché subito acre odor di fogna prendea la carta, in mani sue tosto resasi igienica, e usata anche; calciavan quelli il pallone, ma al cimento uno scarabeo egli parea, che in sua vita sferici sterchi spinge per li campi; l’altri bimbi traevan diletto dal costruir castelli per fate e cavalieri, ma a lui nulla riusciva, se non cloache e densi letamai. Il denaro solo, allo sfiorar di dita, medesimo restava poiché, mi sien testimoni poeti e savi antichi, del demonio è sterco, e mutar non si puote in quel che già si è.

Solingo e scansato, nello strame e nel denaro immerso sino al mento, ormai divenuto adulto, s’avvide che television guardar potea, senza toccare. E una ne acquistò, e poi un’altra, e poi due, e cento e cento ad ingrassar magion sua. E quando poi ne fu sazia e spazio più non v’era, principiò a comprar antenne, e poi studi, e poi canali ché la moneta, come ben sappiamo, proprio non difettava. E prima ancora alle costruzioni dedicato s’era, non certo di man sua, ché nessuno, eccetto lui, desìa l’abitar cloaca, ma architetti pagò e ingegneri e muratori e città intere edificò. Libri non potea leggere, né interesse avea nel farlo, ma editori comprò, e giornali e riviste e persin del calcio s’appagò, non nel giuocarlo, ché gl’era divieto, ma nel collezionar giuocatori e squadre.

Tatto suo fecale non cangiava sol oggetti o cose, oh no: se persona, per accidente o caso, da lui venia toccata, s’anche l’aspetto non mutava, l’animo n’era perturbato e torto. Virginal fanciulla da lui lambita, tosto femmina lussuriosa assai pareva, e a’ vizi assuefatta e usa: vita sua perdeva e null’altro doman era a lei dischiuso se non lo divenir ministra. Uomo onesto, di leggi e tasse rispettoso, in amen divenia, al tocco suo, a tutti gli inganni rotto e cupidigie, di null’altro voglioso se non d’impilar sterco su sterco, sibben dimoniaco, piegando a sue brame leggi e decreti, regolamenti e sentenze, homini e caporali.

Di tal regno era l’imperator supremo, da’ suoi olezzanti sudditi in excelsis elevato, da sue televisioni circondato, quando, per sorte, una finestra s’aprì che dava in su la campagna. Un vento gentile, che pria carezzato avea dolci gigli de’ campi e verdi fronde dei monti e chiari e freschi ruscelli alpestri, irruppe in la merdosa reggia il tanfo spazzando e la fecal corte prostrando. S’avvide allor l’imperator supremo che, fuor di cloaca sua, un Paese v’era, se non lindo, almen pulito e se non profumato, di certo non fetente. Intuir ciò e ragionar di come farlo fogna per intiero fu tutt’uno. Presidente dovea diventar, e Presidente diventò e per lunghi e lunghi anni s’intraprese, il toccabile toccando. Le genti mutarono e se avante, non tutte oneste, ma almen compite erano, sfacciate divennero, e il paese cangiò e se pria del “bel” si fregiava, al suo passaggio condonata discarica divenne, sì da schifar anco lo sterminator Vesevo. Leggi avea il Paese, non tutte giuste, ma almen garbate. Qual tempesta distruttrice abbattesi su gracil capanna, sì egli tastò e manipolò norme e Costituzioni che, in breve, sua immagine e odoranza divennero. Tutto egli toccò, e tutto il Paese cangiò.

Anni passarono e un dì, alfin, riaperse quella finestra che tanti lutti provocò. Non più d’alpestri fronde, non di fresche acque di gentil rivi, ma di sozza concimaia sapeva l’aere.

Pago e sazio fu allora come mai in vita sua, ché simil tra simili ormai era, e, alfin, tanfo nel tanfo.

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Mamma
n. 92 di U'Cuntu Leggi tutto

lunedì 4 ottobre 2010

Al mio vero amore

Mia cara Anna, sono certo che il piccolo Matteo non abbia nulla di serio: nei bambini è normale accusare, ai cambi di stagione, dei piccoli malanni. Il nostro caro amico, il Dr. Alberti ti ha già confortato: non c’è nulla da temere. E come si potrebbe mai temere qualcosa con una Mamma premurosa e amorevole come te? Tesoro mio, maledico la lontananza, non perché nutra chissà quale preoccupazione per la salute di Matteo, ma per non poterti essere vicino a rincuorarti e rassicurarti. Indovino, anche se nelle tue lettere non ne fai menzione, notti insonni accanto al lettino del nostro piccolo. Vedo, come se fossi lì, il tuo volto sussultare ad ogni suo colpo di tosse, ad ogni starnuto. Tesoro, già molte volte l’ho detto, ma lasciamelo ripetere ancora: sei la moglie migliore che mai potessi sognare. Non mi sbagliavo, quella sera di dieci anni fa quando, scorgendo il tuo volto nella moltitudine di ragazze presenti a quella festa, trovai il coraggio, vincendo la tua dolce timidezza e suscitando quel rossore sul tuo viso che mi fece subito innamorare di te, di invitarti a prendere un gelato e poi di lasciarti il mio numero di telefono. Tesoro, presto sarò lì con te e rideremo insieme di queste piccole preoccupazioni.

Dolce Rebecca, i tuoi versi appena giunti mi hanno commosso come non mi capitava da tempo o, forse, non è mai capitato nella mia vita. Mi chiedo quale uomo possa definirsi fortunato se non io, destinatario modesto se non indegno della tua arte e, ciò che conta maggiormente, del tuo amore. La stima e l’ammirazione che provo per te cedono il passo solo alla gioia di saperti mia per sempre. Il mio cuore è tuo, dolce Rebecca. Non potrò mai ricambiare come vorrei la tua poesia con pari moneta ma, di certo, posso rassicurarti che il mio amore per te non teme, e non temerà mai, modestie e tentennamenti. Resto in trepida attesa del tuo nuovo poema a me dedicato del quale mi hai accennato nella tua ultima. Conto i giorni, mi dicesti che sarebbe pronto entro la settimana: mi sarà meno penoso trattenere il respiro che sopportare l’attesa. A presto, mia Cara, a prestissimo. Tuo per sempre.

Adorata Carmen, ripenso a ieri sera e mi chiedo come possa attendere ancora una settimana senza morire, senza impazzire. Rivivo il tuo profumo, i tuoi occhi che si socchiudono mentre le tue labbra si avvicinano alle mie, le tue mani che mi accarezzano, e le mie che ricercano affamate i preziosi tesori che mi riserbi; la passione sfrenata segue la tenerezza, come il temporale che, fragoroso, segue le prime goccioline di pioggia. E, consumata la notte, l’arcobaleno del mattino, la luce e la serenità dei sentimenti dopo la tempesta degli abbracci. Ti amo, mia adorata. Morirò, sì, morirò! prima di mercoledì. Ma per quest’oggi, che io possa ancora pensare ai tuoi capelli e ai tuoi occhi…

L’acqua gli lambiva i piedi. Era già il tramonto, la marea tornava ancora a salire e di lì a poco avrebbe cancellato i nuovi amori, nati quel giorno e narrati con uno stecchetto sulla sabbia appena umida. Da quando era naufragato, vent’anni prima, su quell’isolotto sperduto nel Pacifico, unico superstite di una bagnarola al suo ultimo viaggio, aveva via via esaurito la carta, e le penne e anche le bottiglie.
Rimaneva lo stecchetto, e la sabbia, un’immensa lavagna che, al ritmo delle onde, ogni sera dimenticava, e ogni mattina immaginava.



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e sul numero 88 di Ucuntu Leggi tutto