martedì 18 maggio 2010

Viva V.E.R.D.I.

L’ultimo usciere aveva spento l’ultima luce e l’oscurità era finalmente calata sul lungo corridoio del Palazzo. S’erano chiuse le pesanti massellate e istoriate porte, le dorate serrature erano scattate e la pace regnava ora sovrana, come è giusto che sia in un palazzo un tempo di Re.
Un sussurro, un bisbiglio, una volta accertata la duratura quiete, si levò da uno degli angoli e, per quanto fosse appena intellegibile, suonava però imperioso, autoritario. E anche un po’ seccato.
«Non furono, quest’anno, celebrazioni grandiose, nevvero? Ne convenite anche voi?».
«Senza meno.».
«Deludenti, invero.»
«Invero sì.»
«Mi chiedo qual sia la causa. Forse il vedermi accumunato a persone di lega, in verità, non sempre nobile può avermi arrecato un certo qual nocumento?».
E qui il silenzio si fece spesso, perché palese era l’allusione ai presenti.
«Temo non sia solo questo, Maestà. Ancor periglia, in questi dì, l’Unità della Nazione.».
«Cosa dite mai, Benso? L’Austria ancor minaccia il Lombardo Veneto e l’integrità della Patria?».
«Non propriamente, Maestà, è il Lombardo Veneto che minaccia l’Unità, e sanza che si periti l’Austria di profferir verbo»
«Ohibò e perché mai?».
«Perché l’Italia nacque sotto cattiva stella – si unì allora una terza voce – stella d’oppressione e tirannide, stella monarchica, stella del (pausa minacciosa e un po’ disgustata) Savoia. Non sorprende che il Popolo non provi affezione per la cara Madre.».
«Oh, ma il Mazzini è ancor là? Benso, non s’era decretata la dannasiun memoriae (damnatio, Maestà, damnatio) per quel becchino repubblicano?».
«E’ la vostra presenza, Savoia, che in vero sorprende, giacché L’Italia ora è Una e repubblicana.»
«E ben si vede che fine ha fatto la vostra Italia Una e repubblicana. Ricusavate la Maestà e ora v’inginocchiate a Pirlasconi (Berlusconi, Maestà). E taccio di rammentare di certe suddite (Oui! Meglio tacere, Maestà!)... Benso! Ma la mi dovete sempre correggere? Son pur sempre la Vostra Maestà, neh! Volevate la Repubblica? E ora l’avete, congratulassiun, tenetevi il Baracconi.».
«Sotto il tallone della tirannide il popolo divien plebe e spregia la libertà medesima. Savoia, v’accuso! Nel far vostra l’Italia, avete fatto gl’ italiani servi! ».
«Benso! Ma ancora mi cogliona quel Mazzini? Ma che ci fa qui? Ma non lo si era condannato? Non era riparato in Isvizzera o in Inghilterra? Caro il mio Mazzini, non ci fossimo resoluti noi, la vostra Italia non l’avreste mai veduta, non da vivo, non da morto non da statua. Mercé chi, di grazia, la si voleva unire? Con quali armi? Col vostro Pisagatti? Coi vostri 300 giovanissimi e fortissimi che son però mortissimi?».
Un colpetto di tosse, uno schiarirsi la voce «Giammai l’Italia sarebbe Una, non fusse pei miei 1000. Quando lor signori si baloccavano di astruserie diplomatiche, o quando taluno si perdeva in vaneggiamenti mistici e oppiacei o in atti tanto velleitari quanto inutili, fu solo in grazia dell’azione da noi intrapresa che si sciolse il gordiano nodo che avviluppata tenea la Penisola. Voi cianciavate, noi si seminava, voi discettavate d’Italia Una, noi la si faceva.».
«Peut-être - ripose freddo Benso - Ma le scienze agricole, che mi capitò di frequentare, spiegano come merito precipuo del cultivatore sia l’assistere la crescita del raccolto più che lo sparger semenza. Forse Voi, Garibaldi, seminaste, ma noi curammo e noi impedimmo che la pianta deperisse anzitempo, fato ineluttabile s’avessimo lasciato a voi l’iniziative.».
«E’ merito dei 1000, caro il mio Benso, se il vostro Re lo divenne di Napoli e Roma e non lo rimase di Pinerolo e Mondovì.».
«Benso! Ma come osa quel villanzone?».
«Nulla è ciò ch’egli dice, Savoia. Divenir l’Italia Regno, quella fu la jattura. Oh, foste restato a Mondovì!».
«Ancora quel Mazzini? Ce l’ha ora la sua repubblica, ne sia felice, con Trafficoni Presidente e Pesciaroli Ministro. Oh sì, bell’affare, bell’affare veramente!».
«Un Presidente iniquo e vizioso lo si può deporre, in Repubblica. Sub monarchia avremmo patito, sanza nulla speme, le ingiurie de’ vostri debosciati nipoti.».
«Alludete, Mazzini?».
«Alludo, Savoia.»
«Colpa vostra: se i miei nipoti fossero vissuti a Corte e non nelle mollezze di un esilio repubblicano avrebbero certamente mostrato miglior riuscita. Benso, che ne dite voi?»
«Dico, Maestà, e lor signori, che sarebbe il caso di por fine a tali querimonie e rammentarsi dell’imminente comune periglio.».
«E sarebbe quale, il periglio?»
«Udii voci, Maestà e lor Signori: pare vi sia l’intenzione di trasferirci in altro locale.».
«Non istaremo ancor in questo largo corridoio? E dove ci menerebbero, di grazia? Forse nel salone panoramico dal quale si godrebbe mirabil vista?».
«Parmi , Maestà, che l’intenzioni sien altre.».
«Potrebbe darsi nello studiolo, ché la nostra figura possa suggerire alte e nobili scelte pel destino della Patria?».
«Mi duole, Mazzini, ma non raccolsi tali propositi.».
«Che sia nella balconata affacciata sulla piazza d’Arme, in guisa che noi si possa ispirar le giovini reclute della Patria?».
«Mai più, Garibaldi. Maestà, Signori, il parlottio cennava ad un sottoscala.».
«Un sottoscala? Come osano! Ah, non fossi qui in effigie di busto e m’avessero almen serbato braccia e sciabola farei vedere io, farei vedere! Non basterebbero tutta la milizia e tutti i Prefetti del Ministro Coglioni!».
«Maroni, Maestà.».
«E va bin, sono pur sempre cose che si rompono. Ma quando avverrebbe, poi, questo trasferimento?».
«Presto, dimane, di buon’ora.».
«Ma perché mai, questa transumanza?».
«Non compresi appieno. Cavi, nuova sala stampa . Ammodernamento. Di più ignoro.»
Fu una notte greve quella che precedette l’arrivo dei traslocatori. Con molta dignità, senza lasciar trasparire emozione alcuna, gli augusti Padri della Patria si fecero imbracare, sollevare e portar giù. Solo Garibaldi, combattivo, oppose una strenua resistenza e si abbarbicò al suo piedistallo con tutte le forze che gli erano concesse. Tanto resistette che gli altri tre, ormai giunti al fondo del Palazzo, udirono un frastuono, uno schianto, che si propagò per tutti i saloni e tutti i corridoi.
«Garibaldi fu fracassato.».
«Meschino. In fondo l’era un bravo figliuolo. Idee un po’ balzane, ma non cattivo. Benso, pensate che sia questa la nostra nuova magione?».
«Ritengo di sì, Maestà».
«Non mi pare molto luminosa, nevvero?».
«No di certo, Maestà.».
«E neanche molto spaziosa, mi sembra.».
«Oserei dire angusta, Maestà.»
«Infatti avverto la vostra vicinanza, Benso. Visto che siete così prossimo, di grazia, potreste dirmi perché m’han posto questa veletta sul volto?».
«Maestà, temo si tratti di una ragnatela.».
«Ne siete sicuro, Benso?».
«Temo di sì, Maestà.».
«Ah.».

«Benso?».
«Maestà.»
«In finale, per i prossimi 50 anni si deve solo riposare, nevvero? e un locale quieto e silenzioso (molto silenzioso) può avere i suoi vantaggi. Ne convenite? Ora dobbiam solo attendere d’esser nuovamente destati.».
«Bien sûr, Maestà, purché qualcheduno ancor ci desti.».


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Numero 76 di Ucuntu
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domenica 2 maggio 2010

Scorie / Le cronache del tempo che verrà

Era in ospedale, questo l’aveva capito. Nel corso delle ultime ore (o erano giorni?), nei brevi periodi desti di un lungo dormiveglia se n’era reso conto: l’ambiente asettico, i camici bianchi chini su di lui, il lento sgocciolo delle sacche di medicinali in soluzione. Era in ospedale, ma non ricordava perché fosse lì. Ancora sonnolenza, ancora le palpebre che si chiudono artificialmente.
Poi, dopo un periodo che non poteva misurare, un risveglio meno effimero, la stessa stanza, ma qualcuno accanto. Uno sconosciuto, non la moglie o uno dei sui cari, un uomo che vestiva abiti formali ma che si capiva fosse più a suo agio in mimetica.
«Ben svegliato», lo salutò lo sconosciuto.
«Do… dove sono?».
«In una clinica privata. Ha subito qualche intervento, ma le assicuro che non è nulla di grave. Presto uscirà da qui in forma come prima. Ha idea del perché si trovi qui?».
Alla memoria, allora, ritornarono, vivide, le immagini prima dimenticate. Il deposito di scorie radioattive, di cui era uno dei custodi, notte, l’allarme che squilla, un’effrazione?, la corsa all’armeria e poi al settore Nord, dei lampi, degli spari e… e cosa? Nulla, nulla più. L’ospedale, lo sconosciuto…
«Ricordo un allarme, al deposito…».
«Bene. E’ meglio che non ricordi altro, anzi, che dimentichi anche questo.».
«Ma lei chi è?».
«A lei è lecito domandare, a me non è concesso rispondere».
«Ma cosa volete da me?».
«Vogliamo che dimentichi.» e nel dirlo si alzò e si diresse verso la porta.
«Ma poi, l’effrazione… Ha avuto luogo? Hanno rubato qualcosa?».
Lo sconosciuto, sul punto di uscire dalla stanza, voltò il capo, solo il capo «A lei è lecito domandare, a me non è concesso rispondere. Ma, e questo lo ricordi, a lei è lecito domandare solo a me. Non ponga queste domande a nessun altro, lo verremmo a sapere. E ci incontreremmo ancora, in quel caso. Per l’ultima volta.».

Passò del tempo, qualche mese, qualche anno, forse, e in una notte torrida d’estate, il vicecommissario sfogliava l’incartamento dell’assassina filippina mentre, in sottofondo, il canale news aggiornava le vuote stanze sugli ultimi avvenimenti. La fine della Guerra dei Distretti in Cina, una guerra che aveva provocato, secondo stime ufficiose, almeno dieci milioni di morti, l’inaugurazione di una nuova centrale nucleare sulla costa pugliese. L’Amministratore delegato della società elettrica rispondeva competente alle domande della giornalista, magnificava la potenza e l’assenza di significativi impatti ambientali…
«Commissario…». lo interruppe l’Agente
«Sono un Vice, sì?».
«Una chiamata, una signora vuole denunciare il marito che cerca di entrare in casa.».
«Il marito? Non lo fa entrare a casa sua?».
«E’una lunga storia, sostiene. La casa è sua, gliel’ha lasciata il padre… Il marito s’è rovinato in Borsa, non vuole farlo entrare perché non vuole che i suoi beni vengano presi dai creditori del marito, ha chiesto la separazione…».
«Ma chi è questa?».
«Ho il nome di là… Sara, Sara qualcosa…».
«Capito. Mandate qualcuno prima che sveglino il quartiere. Consigliate un albergo al marito e un avvocato per tutti e due domattina» e ritornò al suo fascicolo mentre l’Amministratore delegato ricordava come, grazie al nucleare, si fossero abbattute le emissioni di CO2,che ormai superava i 500ppm, e ricordava come non si fosse verificato un solo incidente negli ultimi 30 anni, almeno dal 2020. Il nucleare faceva bene all’ambiente, e dato che le energie alternative si erano tutte risolte in una bolla di sapone, rimaneva anche l’unica. Ma allora perché gli ambientalisti erano contro? chiedeva l’intervistatrice. E qui l’Amministratore sorrideva, e suggeriva come le lobbies del petrolio fossero potenti, e potessero manipolare…
«Commissario..» questa volta l’Agente era trafelato, e preoccupato.
«Vice, sì?»
«Piazza Colonna. Kamikaze imbottito di esplosivo.»
«Ancora? Chiama i cecchini, gli artificieri, andiamo… Fate sgombrare, intanto, cordoni…»
«Commissario… Vice… Non ha solo esplosivo. Dice che è pieno di materiale radioattivo.»

Era in mezzo alla piazza, seduto alla base della Colonna. Stringeva un pulsante tra le mani, qualcosa collegato al detonatore, per provocare un’esplosione qualora un cecchino l’avesse ucciso. Gridava di allontanarsi, di allontanarsi tutti, almeno di 50 metri, gridava che mancavano cinque minuti, poi sarebbe esploso.
«Che dicono i contatori?» – chiese il vice commissario ad un camice bianco.
«Non rilevano radioattività».
« Sarà un bluff?».
«Non ci giurerei, Commissario – non fu ricordato che era solo un vice, non era il momento – Vomita, diarrea. Sintomi di malattia da radiazioni.».
«Ma chi è?».
«Stiamo controllando le foto in archivio».
Il sito delle news aveva intanto trovato qualcosa di più eccitante di una pace in Cina e la notizia del kamikaze radioattivo aveva monopolizzato la rete.
«Maschere» ordinò il Commissario e tutti gli agenti le calarono sul volto.
«Trovato! –era l’Agente che consultava l’archivio – Paretti, Giorgio Paretti. Anarchici combattenti. ».
«Che altro?».
«Vari arresti, ma niente di veramente grave. Sparito dalla scena nell’ultimo anno… Aspetti, c’è un file sanitario».
Frattanto, da un sito era sparita la giornalista e, al suo posto, era comparso un cappuccio nero da cui spuntavano due occhi febbrili ed eccitati. Un anarchico combattente, diceva. Leggeva un comunicato, si erano intrusi nel sito delle news. Lotta al sistema. Annunciava l’esplosione entro pochi minuti. Se ci si teneva lontani nessuno si sarebbe fatto male, l’esplosivo era in quantità modesta. Ma le scorie radioattive avrebbero reso invivibili isolati interi di centro città per anni. O, almeno, vivibili solo con le maschere. Le attività economiche e politiche ne avrebbero ricevuto un danno irreparabile. E si vedeva, attraverso le strette fessure del cappuccio, che i suoi occhi erano veramente divertiti e compiaciuti.
«Cancro, Commissario. Nell’ultimo anno è entrato e uscito dal Policlinico. Stomaco, molto avanzato».
Vomitava, ai suoi piedi una chiazza scura. Tremava, volto emaciato, sguardo febbrile. Sudava nello sforzo di tenere premuto il pulsante del detonatore. E guardava l’orologio.
«E’ un bluff – ribadì il vicecommissario – non è malattia da radiazioni. E’ un poveraccio condannato comunque a morire»
Un minuto, ribadì il cappuccio nero.
Allontanarsi! Di più! Maschere!
I teleobiettivi dei siti news erano puntati sul kamikaze anarchico. Scandiva i secondi, quaranta, trentacinque, il suo capodanno, l’inizio di una nuova storia, la fine della sua storia. Tre, due, uno, e un’esplosione sparse per la piazza carne e sangue e vomito e merda e imbrattò la colonna Antonina, e mai i massacri dei germani, lì rappresentati, erano sembrati più realistici e vivi.
E una nuvoletta si sollevò allora, bianca e leggera, una nevicata estiva che non scendeva dal cielo, ma saliva da un cadavere, o da ciò che ne era rimasto.
«Maschere! – gridò ancora il vicecommissario – Contatori! Rilevatori!».
«Niente radioattività, commissario, niente!».
«E quella polvere?».
Un camice bianco s’era avvicinato, aveva raccolto dei fiocchi. «Sembra talco, Commissario».
«Talco?».
«Sì, Commissario! Il kamikaze era imbottito di borotalco!».
Una risata catartica si propagò allora come un’onda tra gli agenti dei cordoni, partendo da quelli più vicini e arrivando, mano a mano che il passa parola portava la notizia, ai più lontani. Così che, mentre i primi già si rallegravano, gli ultimi erano ancora preoccupati e timorosi e quando questi, infine, cominciarono a ridere, i primi s’erano già levati le maschere e si davano pacche l’un l’altro e sghignazzavano, e barcollavano in precario equilibrio per le risate e per il viscido del sangue sull’asfalto. Qualcuno alla fine lo perse, l’equilibrio, e, senza che gli schiamazzi, ancora più sguaiati, cessassero, cadde sulle umane scorie festeggiando lo scampato pericolo.
Il Vicecommissario annunciò la buona novella ai giornalisti oltre i cordoni. Bluff! ripeteva, era un bluff! Talco, Borotalco!
«Missione compiuta », annunciò nel frattempo il cappuccio nero.
Non è vero! Non è vero niente! Si sbracciava il vicecommissario. Era borotalco! Solo borotalco.
«Missione compiuta – ribadì – A Milano. Quello di Roma era solo un diversivo» e la sua immagine sparì, e ritornò il canale news. Scorrevano in basso le ultime notizie di agenzia: “Esplosione a Milano, via Vittor Pisani, deserta, per l’ora. Non si segnalano feriti. Da prime indiscrezioni si registrano elevati livelli di radioattività.”

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gli Italiani
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