domenica 23 ottobre 1994

Le mirabolanti avventure del Prof. Chisciotta

per voi narrate da Jack Daniel

PROLOGO

Spinto da quell'amore di verità che sempre anima i miei pensieri e le mie azioni, mi son risoluto a scriver e narrar per esteso le mirabolanti gesta del grande professor Chisciotta e del suo fedele bidello Nando Pansa.
O Lenin, se tu avesti Reed come cronista, possa tu, Professor Chisciotta, essere eternato da questi miei scritti, e possa tu, nobile lettore, trar giovamento e divertimento da questi racconti. Che cominciano, com'è doveroso che sia, da quella sera in cui il professor Chisciotta, ascoltando il disco di Jeff Buckley, comprese di essere un grande rivoluzionario.


CAPITOLO I
Ove si narra di come il Professor Chisciotta diede inizio alla sua rivoluzione.

In un quartiere di Roma di cui non ricordo il nome, viveva sino a poco tempo fa un professore con la casa piena di libri, qualche quadro astratto e impolverato alle pareti e una sorella assai triste e zitella. Non era una vita brillante quella che conduceva il professor Chisciotta, ché questo era il suo nome, anzi, a ben vedere poteva apparire modesta, se non grama: pochi o nulli divertimenti, scarse le uscite serali se non nei giorni comandati del compleanno suo o della sorella, tranquille vacanze nel paese meridionale donde, vent'anni prima, giunse alla Capitale carico di quei sogni e di quelle speranze che i tanti autunni successivi avrebbero avvizzito e rinsecchito. Giornate sempre uguali l'una all'altra: la scuola la mattina, il pomeriggio i pacchi di compiti da correggere (insegnava matematica alle medie) e, la sera, disdegnata la televisione, lunghe ore di lettura e di ascolto.
Vari e molteplici erano infatti gli interessi culturali del professore, in specie se connessi ad una qualsivoglia rivoluzione.


Per lunghi anni ne aveva studiate tante e di tutte le epoche. Ovviamente la russa, la cinese e la francese, che costituivano per lui la summa filosofica. Ma non disdegnava incursioni tra i barbudos o gli ironsides, si commuoveva al leggere di Spartaco e fremeva di sdegno nell'udire il nome dei Gracchi. Familiarizzava, inoltre, con Bolivar e Zapata, sarebbe stato in grado di fornire preziosi suggerimenti a George Washington, disquisiva sulle contraddizioni dei Ciompi e apprezzava, seppur con riserva, l'opera di Muntzer. E se di costoro si sentiva ormai intimo, quando, di tanto in tanto, gli capitava di aprire un giornale, scorreva i titoli con cipiglio disgustato e, invariabilmente, lo chiudeva imprecando contro i tempi banali e assai poco favorevoli ai grandi sommovimenti sociali.
Così procedette per molti anni, ma una sera fredda e piovosa, con i quaranta già passati da un pezzo e i cinquanta ormai all'orizzonte, e un ventre prominente cresciuto col tempo da contrappeso agli ideali giovanili sfumati, la sorella, che dormiva davanti al televisione nella stanza accanto, sentì un gran fragore. Superati i primi attimi di sbalordimento dovuti al dormiveglia, la povera donna dovette rassegnarsi all'idea che l'epicentro era proprio situato nello studiolo del professore suo fratello. Da lì, infatti, provenivano i violenti scrosci di scaffali rovesciati, fogli spiegazzati e libri strappati, frammisti ad una musica assai dolce e tenue che s'alzava dal sintoampli Technics del '79. Si trattava, ma lei non poteva saperlo, delle canzoni di Jeff Buckley, il figlio del grande Tim Buckley. Temendo un improvviso malessere, la sorella aprì trafelata la porta, e uno spettacolo inquietante le si presentò agli occhi: non solo la stanza versava nel più disfatto disordine, visione per lei inusitata, ma, qualora tutto ciò non fosse sufficiente, il fratello si aggirava dimenandosi scompostamente tra quei mucchi di carte ripetendo di continuo che in quella fase si rendeva ormai ineluttabile il suo intervento.
«Sono le due passate, non pensi che sia tardi?» domandò ella cercando così di ammansirlo.
«Tardi? - rispose veemente Chisciotta - Tu non sai di cosa parli, sorella mia! La fase suprema è ormai giunta! Le contraddizioni sono mature, come le mele di Newton (autore non disprezzabile, sorella, te lo consiglio). Per trenta lunghi anni ho studiato, ho approfondito, ho sviscerato. Ecco il momento è giunto! E' giunta l'ora di passare dalla teoria (copiosa) alla pratica (qua e là lacunosa, in vero)» e, cortesemente ma fermamente, l'accompagnò alla porta richiudendola poi a chiave. Dopodiché alzò ancora il volume e ritornò ai suoi piani.
Per tutta la notte elaborò tattiche astute che, componendosi in raffinate e ponderose strategie, erano, a suo avviso, destinate a scientifica, e per ciò stesso ineluttabile, realizzazione. E quando giunse l'alba, preparato alla rinfusa uno zaino, il professore uscì di casa, con l'intenzione di scrivere una nuova pagina della storia dell'Umanità, e si diresse verso un palazzone di periferia che ben conosceva.
Or qui il cortese lettore sarà lieto di apprendere che nella scuola ove insegnava era bidello un tal Nando Pansa, uomo di scarsa istruzione e nulla cultura, a cui Chisciotta, di tanto in tanto, concedeva le sue più intime confidenze.
«Vedi caro Nando - gli disse un giorno - sarebbe equo che un bidello potesse diventare, un giorno, sottosegretario...».
«Sottosegretario, dice? E' forse una specie di preside?».
«Di più ancora: quasi un ministro».
«E come può essere, signor mio? Lei vede chi governa oggi? Industriali ricchi, avvocati famosi, possiedono barche, Ferrari, mogli bionde e belle. E io? forse che potrei mai governare con la mia Uno e la mia Teresa (che però è una brava donna)? E taciamo delle barche, la prego, io che solo una volta ho preso il pattino a Fregene. Lei scherza, Professore...».
«Nando Pansa! - annunciò Chisciotta al citofono quella mattina fatale - Vengo ad offrirti un sottosegretariato!».
«A me?».
Tralascio quello che seguì nelle ore successive e che, del resto, è facilmente immaginabile: le resistenze della moglie Teresa, le raccomandazioni perché si torni presto e non si prenda freddo (all'uopo infilò due mutandone di lana nella borsa), le suppliche al professore, l'ammonizione a che «non si facciano sciocchezze», l'eterno invito «a riguardarsi» e a non «ficcarsi nei pasticci». E finalmente, ultimati i preparativi, nel primo pomeriggio, presero posto nella bidellesca Uno. Ma prima che Nando Pansa girasse con decisione la chiavetta dell'accensione «Fermo! - l'arrestò Chisciotta - Dobbiamo esser ben consci del Momento».
«Sono le due e mezza» azzardò Nando Pansa guardando l'orologio.
«Non intendevo questo» mormorò Chisciotta immerso in profonde meditazioni sulla Lunga marcia, il treno di Lenin, il Tea Party e su tutti i Grandi Inizi. E quando si sentì sufficientemente ispirato: «Adelante, Nando! Partiamo!» esclamò.
Ma la Uno non partì e, dopo qualche secondo, «Forse le candele...» si giustificò Nando Pansa.
«Hai messo la benzina? Sarebbe inopportuno che la rivoluzione si fermasse per mancanza di carburante».
«Ma certo! Ora riparte di sicuro» mormorò il bidello scrutando preoccupato il cruscotto.
«Bene! Adelante Nando!».
Ma dopo qualche momento «Temo si sia ingolfata».
«E allora?».
«Forse con una spintarella...».
«Nando, non mi pare di aver mai letto di rivoluzioni iniziate così».
«Ma forse basteranno pochi metri...».
«Pochi metri?».
«Forse».
«E sia».
Orbene, nonostante i ripetuti appelli della Giunta Comunale, è ancora usanza diffusa portare a spasso i propri cani per l'espletamento di ogni sorta di sozzo bisogno sulla pubblica via e, poco prima, era di lì passato un alano arlecchino che, a fianco del
marciapiede s'era sgravato di un bisogno vecchio ormai di due giorni.
«Via!» ruggì il professore iniziando la spinta. Che non durò pochi metri, ma molti, e quando infine la Uno si decise a camminare sua sponte, tanta era la fatica che non solo il professore non poté gridare «Adelante!» come s'era prefisso ma, anzi, perdendo la presa, scivolò rovinosamente a terra, proprio là dove era passato l'alano.


CAPITOLO II
Ove si narra di come il Professor Chisciotta conquistò masse ingenti e tifose alla Causa Rivoluzionaria
«Sono mortificato» si scusò dopo molti minuti di penoso silenzio Nando Pansa.
«Non ci badare, compagno, la rivoluzione non è un pranzo di gala» rispose altero il professore con la voce resa nasale dal disperato tentativo di non respirare col naso.
Nel frattempo, girando senza meta, erano arrivati nei pressi dello stadio, e mancava poco all'inizio della partita.
«Fermati!» comandò imperioso Chisciotta. Nando Pansa accostò di lato e con agile balzo il professore uscì dalla macchina, si portò una mano alla fronte e scrutò lontano, verso la folla dei tifosi.
«Masse! - esclamò poi - Masse che attendono una linea. Andiamo, Nando!».
E, riavviata che fu la fedele Uno «L'avresti mai creduto, caro Nando? - rifletté lusingato il professore mentre si recavano nei pressi dell'entrata dello stadio - Non son passsate nemmeno due ore da quando decidemmo di darci alla rivoluzione che, ecco, masse ingenti e numerose già si sono riunite in nostra attesa».
«Professore illustrissimo, non vorrei contraddirla - ribatté Nando Pansa timidamente - ma pare a me che tutte quelle persone siano là per attendere l'inizio della partita, e non tanto quello del suo discorso».
Il professor Chisciotta proruppe allora in un lungo sospiro carico di commiserazione e comprensione.
«Caro Nando, vedo bene che molte son le cose che dovrai apprendere nei prossimi mesi prima che tu possa districarti con sufficiente sicurezza e padronanza all'interno dei movimenti dialettici. Ebbene, caro Nando, sappi che il Sistema tende a distorcere a suo esclusivo vantaggio ogni informazione o notizia e, come se non bastasse, opera sulle coscienze di molti (mi duole, ma parrebbe anche della tua) un sistematico condizionamento culturale e financo psicologico che porta ad una grave distorsione della realtà. Orbene tu vedi là solo folla in attesa di entrare allo stadio quando, a chiunque non avesse subito quei condizionamenti di cui sei stato vittima (dovrò parlarti di Vance Packard, un giorno, rammentamelo), apparirebbe lampante come altro non sia che il principio di un impetuoso movimento ribelle che attende solo una guida illuminata (la mia, per esempio) per diventare un processo rivoluzionario che farà parlare di sé le generazioni future. E se poi questi miei discorsi ti paiono astrusi, ti basti guardare a quello sterminato tappeto di drappi e bandiere rosse per convincerti del tuo errore».
«Ahimè, signor mio! Quelle sono bandiere giallorosse, e non rosse e basta. E ciò perché, come dicevo poc'anzi, oggi gioca la Roma (sebbene non ricordi contro chi)».
«Mi pare doveroso e consequente che siano giallorosse, caro Nando. Con quale altro colore vorresti rappresentare la falce ed il martello sulle bandiere rosse? Orsù, Nando, accosta, siamo arrivati».
E nel dir ciò il professore accarezzò affettuosamente la pila di libri che troneggiava sul sedile posteriore. Grandi classici di ogni rivoluzione, tomi impegnativi e sudati dai quali sperava di espungere la citazione appropriata, ma tra i quali, però, faceva anche capolino qualche buona cassetta musicale. Tra esse notavasi in particolare quella dell'ultimo lavoro di Paul Roland: un personaggio importante, in quanto si tratta di uno dei migliori cantautori oggi viventi.
La Uno si fermò nei pressi del marciapiede, proprio all'entrata del Foro Italico. Dal Lungotevere e dal ponte s'avvicinavano intanto decine di macchine cariche di tifosi che sventolavano bandiere, suonavano trombe e intonavano cori a perdifiato.
«Lodo tutto ciò - commentava compiaciuto Chisciotta - Lodo quest'ardore rivoluzionario. In fede mia, il movimento è sì pregno d'entusiasmo che basteranno pochi concetti ben esposti per muovere alla conquista di qualche Palazzo. Peraltro siamo in ottobre, mese notoriamente proprizio alle rivoluzioni».
Parendodogli quindi opportuno tenere il suo primo comizio in un posto elevato, il professor Chisciotta, a costo di lunghe fatiche, riuscì a salire sul tetto della Uno, tra le mille raccomandazioni di Nando Pansa che temeva ammaccature.
«Ecco - gli diceva - Venga qui sul bordo, Professore, la prego. E no, per amor di Dio, non strisci quel tacco: potrebbe lasciare i segni».
Finalmente, pur rimpiangendo la mancanza di un vagone, il professore si trovò ad ammirare dall'alto la folla. «Compagni!» esordì con voce calda e stentorea.
Ma dopo svariati minuti di indifferenza, il professore cominciò a reputare più produttivo un contatto diretto con le masse. E quindi, ridisceso a terra, si parò, braccia levate, ad interrompere la marcia di un plotone di alcune dozzine di ultrà che marciavano compatti.
«Compagni!».
«Desidera?».
«La rivoluzione è di là» e la mano del professore indicò la direzione del Centro e dei Palazzi.
«Ci scusi, non capiamo: la partita è lì» ribatterono gli ultrà indicando proprio la direzione alle spalle del Professore.
«Vi ingannate! Sono sicuro di aver letto ovunque che le rivoluzioni si fanno muovendo dalla periferia verso il Centro, e non viceversa. Fate rapida autocritica e voltatevi, vi prego!».
«Ma, nobil Signore, il fermo proposito che ci spinse a venir qui ad assistere alla partita è proprio quello che, dalla periferia opposta ci ha condotto sin qui proprio attraverso il Centro».
«Ma cosa dite? Il Sistema vi inganna! Non perdete così il vostro tempo. Voltatevi, e ponete mente alla dialettica».
«Perdere il nostro tempo? Pare a noi che oggi si disputi una partita che vede impegnata la Roma».
«Ho compreso benissimo, e proprio per questo affermo che è da sciocchi sprecare il tempo con attività così insignificanti culturalmente e peregrine. Orsù, voltatevi e marciamo verso il Centro!».
Ma le sue ultime parole produssero un brusio diffuso e sospettoso. «Hai sentito? Ha detto che la Roma è insignificante! E cioè? Cioè che non vale niente! Mio Dio come potremo lavare quest'onta? Non solo, l' ho sentito affermare che è una squadra di pellegrini! Ma chi? La Roma? - e, a lungo trattenuto, un atroce sospetto finalmente venne alla luce - E se fosse un laziale?».
Di lì a pochissimo una turba agitata mosse all'assalto di Chisciotta e Nando Pansa. Dopo averli agevolmente scaraventati a terra con pochi colpi ben diretti, non paghi di aver visto cadere sul selciato un incisivo e un molare, moderatamente soddisfatti nel constatare gli squarci sui vestiti e le ciocche di capelli sparse qua e là e i primi rigagnoli di sangue che cominciavano a sgorgar copiosi, quattro o cinque di quei signori iniziarono a passeggiare a lor talento e piacimento sulle costole scricchiolanti dei due non trascurando, alla bisogna, di assestare qualche colpo in direzione del setto nasale o dei luoghi ad esso adiacenti. Nel frattempo, un'altra congrua delegazione si dedicava alla Uno e, dopo averne saggiato con l'ausilio di mazze, tacchi e cinghie la carrozzeria, stabiliva di principiare una gara che aveva come premio una birra, e come oggetto il bozzo più ampio che si potesse produrre con un calcio ben assestato sulla fiancata.
E durarono così per eterni minuti sino a quando, irritati da tanta resistenza passiva, non ripresero i cori e l'avvicinamento allo stadio. E dopo molti minuti ancora, a piazzale ormai deserto e partita iniziata tra boati lontani, Nando Pansa e il professore poterono finalmente alzarsi e, saliti su ciò che restava della Uno, si diressero verso un luogo lontano e appartato.

Dopo lungo tragitto giunsero in un campo poco fuori città, sulla Cassia. Lì lasciarono la vettura e si sdraiarono, spossati, su un prato. Nando Pansa con le mani tra i capelli osservava e compiangeva la sua Uno mentre il professore, alla ricerca di un'eventuale contraddizione, si stese sull'erba al suono dell'ultimo disco di Paul Roland.
Fu Nando, dopo qualche mezz'ora, a risvegliarlo dai suoi profondi pensieri.
«Professore - l'implorò - La prego, ritorniamo a casa. Pazienza per quel sottosegretariato ch'ella diceva. Mi terrò le mie ramazze di bidello e la mia Teresa ma, la prego, rientriamo».
Il professore allora si levò in piedi (a fatica) e, poggiando la destra sulla spalla di Nando Pansa «Animo Nando. Capita a volte di far un passo avanti e due indietro. Ma non dubitare, da domani si entrerà in una nuova fase del conflitto».
«Lo capisco bene, professore, per quanto a me sembra che indietro si sia andati di cento pedate e non di due passi, ma dove dormiremo, in attesa di questa fase?».
«Non sia questo il tuo problema: un rivoluzionario trova sempre chi l'ospita - e dirigendosi verso il rottame della Uno - Seguimi e vedrai!».


CAPITOLO III
Ove si ricorda di come le Amicizie Rivoluzionarie sian da considerare più durature del bronzo.

«Sai Nando? - meditò ad alta voce il professore dopo che furono risaliti sulla provata Uno - Nell'ultima ora, mentre tu lamentavi accorato i danni subiti dalla tua autovettura (mostrando in ciò, e me ne dolgo, sentimenti piccolo borghesi e animo incline al feticismo) ho avuto una brillante intuizione circa le nostre mosse future».
«Forse, signor mio, ella ha pensato che sia il caso di ritornare a casa e rimandare tutte queste rivoluzioni?»
«Tutt'altro, caro Nando. Vedi, mentre poco fa analizzavo i fatti di quest' oggi (e più ci penso più mi convinco come tutto fosse un abile mossa del Sistema per confondere la nostra dialettica) mi sovvenne che qui nei pressi abita un fraterno compagno dedi
to alla causa. Sono certo ch'egli ci ospiterà per questa e per tutte le notti che verranno, in attesa di delineare una più compiuta strategia».
«Sarebbe una buona notizia, illustrissimo, ma ha egli una casa sufficientemente ampia?».
«Amplissima e pregiata. - rispose il professore col volto oscurato - Questo è il suo cruccio mortale».
«Mi perdoni, illustrissimo, ma non colgo la ragione».
«Caro Nando, tu non sai - sospirò Chisciotta - cosa vuol dire nascere alto borghesi».
«In effetti no».
«Tu non puoi comprendere il cruccio di chi, sentendosi vicino al proletariato, è costretto a vivere in una villa patrizia con servitù e piscina».
«E' una disgrazia così grave, signor mio?».
«E tu puoi solo intuire cosa può significare, per un animo sensibile alla causa dell'emancipazione femminile, ritrovarsi suo malgrado affascinante nell'aspetto e corteggiato da miriadi di ragazze tanto avvenenti quanto povere di cultura e autocoscienza».
«Sovvenendomi or ora della mia Teresa mi è in realtà molto difficile comprendere tutto ciò».
«Fortunato te, caro Nando, non sai quanto pesino tutte queste sovrastrutture. Ricordo ancora di quando Ferdinando (così si chiama) si confidava affranto con me e di quando malediceva il destino che l'aveva fatto nascere in questa condizione. Interi pomeriggi e serate, caro Nando, ad ascoltare i nostri dischi e a commiserare la sua triste sorte. A proposito! - esclamò il professore battendosi la palma sulla fronte - Ricordo bene che stimava molto i Pink Floyd del loro periodo psichedelico. - Frugò tra le cassette e, con aria soddisfatta ne cavò una - Ecco qui: sono certo che gli farà piacere ascoltare questo nuovo disco dei Dead Flowers. Sono certo che incontrerà i suoi gusti».
La sorella del Professore, donna virtuosa quant'altre mai e suo malgrado casta e pura, sedeva composta sul divano, mani intrecciate sul grembo volto dedicato a seria preoccupazione, e udiva il Preside che congetturava tra sé e sé «E' una faccenda grave, veramente».
«Signor Preside - gemette la sorella - Ella teme che mio fratello sia in pericolo?».
«Gravissimo pericolo, gentile Signorina. Per qualche giorno potrei certo giustificare una sua assenza. Ma cosa dire al Provveditorato se essa si prolunga? ».
Il Preside passeggiava scuotendo la testa. «E' grave, veramente grave! Ma come è potuta mai venirgli in animo un'idea tanto bislacca? Conduceva forse una seconda vita?».
«Ma no...». «
Forse attività ignote?».
«Mai più: arrivava a casa e si chiudeva nel suo studiolo a leggere...». «Mi conduca ordunque nel suo studiolo... Un indizio, un segno... Ah, che stranezza!».
La sorella si alzò allor compunta e l'accompagnò nella stanzetta del fratello colma di libri sino al soffitto.
«E' tutto chiaro! - esclamò il Preside appena entrato - Non mi si dica altro!».
«Ha notato qualcosa?» domandò candida e speranzosa la sorella.
«Guardi qui, guardi - e il Preside sventolava un tascabile - Engels, l'Origine della famiglia!».
«V'è forse qualcosa di poco opportuno?» trasecolò timidamente la sorella.
«Qualcosa? Giusto Cielo: tutto. Lo credo che mai il Professore si sposò! E qui? Cosa vedo? Il Manifesto del Partito Comunista? Del medesimo Engels e di quel Marx che infiniti addusse lutti? Non immaginavo, non credevo... Lenin! Lo Stato e Rivoluzione, quel libello che precipitò Nazioni intere in regimi liberticidi!».
«Ve ne son tanti di libri così in questa stanza».
«Noto, noto» osservò il Preside accigliato.
«Che fare?» implorò la sorella.
«Non mi dica che c'è pure quello!».
«Senz'altro, però io chiedevo di mio fratello».
«E' grave - ritornò a meditare il Preside - Molto grave. Bisogna far sparire questi libri».
«Ma cosa dirà se ritornerà?».
«Inventi una scusa. Dica che li ha bruciati. Anzi, meglio: dica che è passata di qui la polizia e li ha sequestrati tutti. Ha una cantina? - e, ricevuto l'assenso - Orsù, mettiamoci al lavoro» e, rimboccatosi le maniche, cominciò ad impilare i primi libri.
«Con tutto il rispetto, signor professore - iniziò Nando Pansa dopo lungo ascolto del disco dei Dead Flowers - ma se devo essere sincero, oserei dire che questo disco non mi pare del tutto nuovo».
«Eppure lo è, è uscito gli è solo qualche settimana».
«Non dubito questo, ma sembra a me d'aver già ascoltato musiche del genere».
«In vero non hai torto. Vedi, caro Nando, la psichedelia è una corrente musicale che ha ormai svariati decenni di storia, e non dubito che possa suscitare qualche déja vu».
«Mi pareva, infatti. Ma, mi dica, non sarebbe meglio ascoltare cose nuove?».
Il professore assentì con aria assorta. «Talora sì, mio caro. Ma non t'ingannare: non sempre ciò che è buono è migliore».
«Sarà senz'altro, ma forse è meno noioso».
«Vedi caro Nando, il nostro compito non è quello di dimenticare il passato, ma di esserne il culmine. Invero, vorrei che tu meditassi sul fatto che noi siamo gli ultimi eredi del grande pensiero classico nonché della scuola filosofica tedesca».
«Noi chi, di grazia?».
«Noi rivoluzionari del proletariato. Al momento io e te».
«Io son veramente contento ch'ella abbia ereditato tanto, ma per quanto mi riguarda, ella si sbaglia: i miei poveri genitori non mi lasciaron nulla (tantomeno una scuola intera) tantoché io son solo bidello nella Giacomo Leopardi che, peraltro, è una scuola italianissima».
«Nando, ciò mi conferma nel sospetto che tu ancora non sia padrone della dialettica e ciò mi sprona a predisporti, nei (pochi) momenti liberi che avrò a disposizione, un programma di studi che ti possa mettere nella condizione, in capo a non più di tre mesi, di leggere e meditare i Grundrisse in tedesco. Ma per il momento l'uergenza preme: ecco là l'ingresso della villa di cui ti parlavo poc'anzi. Ecco, entra in quel cancello, e ti raccomando la discrezione: come ben puoi immaginare Fernando è in grave conflitto, a causa delle sue scelte rivoluzionarie, nei confronti della famiglia e, segnatamente, del padre».
Entrarono quindi nel viale d'accesso di una villa che ben si sarebbe potuto confondere per castello, e dopo lungo percorso sotto la chioma di alberi d'alto fusto e secolari, attraversato per metà il parco, giunsero nel piazzale sul quale si apriva il portone principale. Parcheggiata la macchina il professore scese e subito fu accolto da un zelante servitore che, al sol vedere quel triste esemplare della specie automobilistica s'era precipitato giù per lo scalone.
«Desiderano?» s'informò il maggiordomo.
«Ecco - spiegò cortese il professore - Desidererei salutare il figlio del Conte. Mi può anche annunciare, se crede: son Chisciotta».
«Non credo che il Signorino possa esaudire la sua richiesta».
«Avrei il sospetto di sì e per ciò mi trovo nella spiacevole condizione d'insistere perché sia debitamente avvisato».
«A dire il vero, signor mio illustrissimo, parrebbe a me d'esser io quello costretto ad insistere perché facciano cortese retromarcia e, eventualmente, lasciare un biglietto da visita recante i loro saluti. Non posso però esimermi dall'ipotizzare che meglio ancora sarebbe spedire una cartolina da un luogo assai distante».
«Pur manifestando interdetto stupore per le sue parole, mi trovo invece a ritenere che il signorino sarebbe oltremodo addolorato di venir a conoscenza di questo suo atteggiamento che (invero) ben s'addice ad un lacché del Capitale».
«Gaspare - gridò una voce giovanile dall'interno - Chi è?».
«E' lui: riconosco la voce» esultò Chisciotta.
In quel mentre uscì dal palazzo un ragazzetto ben vestito che ostentava i suoi riccioli biondi quasi fossero il Santissimo Sacramento.
«Cosa c'è Gaspare?» domandò ancora.
«Il signorino Alberto Ardovini» lo presentò il maggiardomo.
«Tu? Ma forse c'è un errore. Io cercavo di Fernando!».
«Il Signor Conte, allora» quasi s'inchinò deferente il maggiordomo al pronunciarne il nome. «Conte? Lui Conte? Ma m'aveva garantito che avrebbe venduto e dato tutto per la causa!».
«Non sono a corrente degli ultimi investimenti del Signor Conte».
«Ma dov'è ora? Vorrei parlargli, capire...».
«Eccolo: sta recandosi all'aeroporto per un viaggio d'affari» gli rispose il Signorino indicando una Jaguar che procedeva a passo sostenuto lungo il vialetto.
Al vederla, il Professore si lanciò in un assai poco agile inseguimento.
«Fernando! - gridava - Sono io! Chisciotta! Ti ho portato la cassetta dei Dead Flowers!» ma la Jaguar, imboccato il cancello, si perse nella notte.

L'eco del motore della Jaguar s'era appena spenta in lontananza e il Professore, scrollando deluso il capo, si riavvicinava a Nando e alla sua precaria Uno.
«Caro Nando - enunciò - credo che, con tutta evidenza, ci troviamo davanti ad un caso di revisionismo, e nutro il fondato sospetto che possa persino configurarsi quale rinnegamento».
«Cosa vuol dire, professore, che stanotte non ci fermiamo a dormire qui?».
«Nutrirei pochi o affatto dubbi su ciò, caro Nando. In vero non mi pare che siamo giunti nella fase nella quale risulta tatticamente utile scendere a compromessi».
«Mi scusi, professore, ma lei pensa che quella fase tarderà ancora molto?».
«Non si può mai dire, ma dopo questa sera mi rafforzo nell'ipotesi che i tempi vadano allungandosi. Orsù Nando, andiamo».
A malincuore il bidello mise in moto la sua ansimante Uno e dopo molti scopiettii e singulti, finalmente uscirono dal cancello e imboccarono, senza meta, una strada che correva per la campagna.
«Sono molto addolorato per il mio amico Fernando» disse di lì a qualche minuto di profonda riflessione il professore.
«Addolorato, professore? E perché mai? Mi pare che quel suo amico, con quella villa, e quella macchina (per non parlare della moglie che scorsi dalle finestre) abbia ben poco di cui debba essere dispiaciuto».
«Gli manca la tensione ideale della rivoluzione, caro Nando».
«Mi pare però che il Signor Conte se ne sia consolato a usura».
«Pare a te Nando, pare a te. Ma sappi che nulla può ripagare la lettura di un buon libro o l'ascolto di un buon disco».
«Ella allude a quel disco psicolabile che ascoltammo poc'anzi?».
«Psichedelico, Nando, psichedelico. Non solo a quello, in verità. Proprio pochi minuti fa, ripensando agli anni rivoluzionari di Fernando, mi sovvenni che, oltre ai dischi dei Pink Floyd, egli amava molto quelli della scuola di Canterbury. Ebbene, erede ed epigono di quel movimento è questo gruppo, i 5uu', del quale ho qui una cassetta. Sono certo che, se non fosse passato alla controrivoluzione, Fernando l'avrebbe apprezzato oltremodo. Ahilui, perde molto».
«Mi rincresce per il signor Fernando - si commosse allora Nando - ma, mi dica, non c'è modo di aiutarlo?».
«Sarà arduo, caro Nando, molto arduo».
«Ma forse s'ella gli spedisse la cassetta?».
«Non mi riferisco solo a quello, purtroppo. Gli è che nella necessaria e giusta furia rivoluzionaria, sarà ben duro sottrarre lui e la sua famiglia ai rischi della fucilazione».
«Oh Giusto Cielo, ma allora bisogna avvisarlo!».
«E' un grave conflitto di coscienza quello che tu mi proponi. Avvisarlo? E tradire così la Causa? No, ci sarà ben un'altra soluzione. Magari potrei usare la mia influenza per convincere i tribunali rivoluzionari a commutare la pena in esilio e confisca. Ah, quanti e quali gravi dilemmi per un solo pomeriggio rivoluzionario!».
«Illustrissimo Professore, lungi da me la tentazione di distrarla da siffatte congetture, ma ha ella un'idea di dove passeremo la notte?».
«Nando, perdonami, sono così preso che non posso curarmi di ciò. Accosta, entra in una strada secondaria... Tanto non riuscirei a prender sonno: troppe sono le questioni».


CAPITOLO IV
Ove si narra di come il valoroso Professor Chisciotta e il fido bidello Nando Pansa riuscirono a sventare gli astuti piani della controrivoluzione.
Dopo qualche centinaio di metri imboccarono una stradina bianca e non asfaltata che si perdeva nei campi. Al termine di penosi sforzi delle sospensioni, peraltro malridotte, giunsero infine in uno spiazzale e lì, poco prima di una curva, s'arrestarono. Nando si ricordò di due provvidenziali plaid, residui di un picnic estivo, che pazientavano nel bagagliaio e, tesone uno sulle gambe e abbassato lo schienale, si diede a fiutar con aria desiosa un sacchetto contenente alcuni provvidenziali panini preparatidalla sua Teresa. Il professore, tra un pensiero e l'altro, non disdegnava di por mano anche lui alle vivande, seppur con l'aria spiritualmente assente (sebbene corporalmente assai presente) di chi si trovi costretto non a soddisfare un piacere, bensì ad assolvere un dovere, non omettendo di ripetere di tanto in tanto «Sarà dura, durissima».
Ma sul finire dell'ultimo panino il professore, tendendo l'orecchio, si ridestò di soprassalto.
«Silenzio Nando! Ascolta!».
Interrompendo a metà la masticazione, Nando aprì il finestrino: «Sembra un motore» sentenziò a bocca piena.
«Cingoli!» dedusse esperto il professore.
«Cingoli?» deglutì Nando.
«Cingoli di carri armati. Evidentemente la notizia s'è sparsa e il Sistema corre ai ripari mandando truppe corazzate a presidiare la città. Orsù Nando, levati, compiamo il nostro dovere!».
«E quale sarebbe, di grazia?».
«Hai una bottiglia vuota?».
«Vuota no, è ancora mezza piena di vino».
«Svuotala, allora».
«Ma è un peccato!».
«Nando, non frapporre indugi enologici alla Causa Rivoluzionaria».
Il bidello prese allora la bottiglia e, piangendogli il cuore di sprecarla così, ne bevve il contenuto a gran sorsate intercalando, di tanto in tanto, qualche frettoloso «volete favorire?» rivolto al professore il quale, però, già contemplando tattiche eipotizzando strategie, aveva ben altro a cui pensare.
Aveva infatti maturato, in quegli anni, una profonda conoscenza teorica sul come costruire bottiglie molotov ma, difettandogli la pratica, si stava chiedendo come avrebbe fatto a cavar fuori dal serbatoio della macchina un litro di benzina. Le sue riflessioni, oltretutto, erano disturbate dallo sferragliamento sempre più prossimo dei cingoli. Quando finalmente trovò il modo d'esporre il problema, seppure in modo concitato, Nando si ricordò d'un tubicino che, ad ogni evenienza, stazionava nel bagagliaio e, tra un «e potevi dirmelo prima che ce l'avevi» e l'altro, s'accinse ad aspirare.
Riempirono la bottiglia e, strappato un lembo della camicia (di Nando), il professore s'adoperò a preparare uno stoppino. E al controrivoluzione s'avvicinava!
Quei cingoli, in realtà, appartenevano ad una scavatrice piuttosto che ad un Leopard, ed erano diretti da un tal Giuseppe, un artigiano della zona, che, in tutta segretezza e in grande abusivismo, aveva ben pensato di costruirsi, nelle ore serali e domenicali, una villetta in quei paraggi. Quel giorno, dopo aver ricevuto in prestito la scavatrice da un suo lontano parente, s'era finalmente deciso ad allargare le fondamenta dell'erigenda villetta in anticipo sui rigori invernali. E tornava, ignaro, verso la sua attuale dimora, una misera casetta in affitto e poco distante.
Quando finalmente i cingoli svoltarono la curva, il professore, che s'era appartato in luogo alto e strategicamente dominante, si provò a scagliar l'ordigno. Ma, come sovente accade quando la teoria è tanta e la prassi scarsa, la bomba, anziché cadere sul davanti del mezzo, com'era preventivato, e bloccar così la supposta colonna, cadde sul suo retro e appiccò il fuoco al traino, un carrettino zeppo di vecchi legni che non aspettavano altro per infiammarsi rigogliosi.
«Professore, quella era una scavatrice» mormorò affranto Nando Pansa quando la luce permise un maggior discernimento della situazione.
«Non t'ingannare, Nando. Sovente le Forze della Repressione amano mascherarsi per parere irriconoscibili e condurre più abili provocazioni».
«Sarà, signor mio, ma quello a me pare proprio un contadino».
«Nulla di più verosimile che si tratti di un agente prezzolato dal Capitale».
«Non dubito, ma pare a me irritato alquanto».
E in effetti Giuseppe dapprima aveva temuto chissà quale intervento dei Carabinieri e la consapevolezza d'esser in fallo innanzi alla legge lo rese, per qualche attimo, ritroso. Ma poi, vedendo due individui vestiti civilmente che lo spiavano dall'alto della collinetta, ebbe il sentore che il tutto dovesse trattarsi di un'innovativa versione del gioco di tirar giù sassi dal cavalcavia. E quindi, mentre gli assi del traino s'infiammavano, loro malgrado, di fuoco rivoluzionaro, lui passò senz'altro allo sdegno e cominciò una serrata rincorsa.
Frattanto il professore e il bidello si dirigevano celermente verso la macchina «Vedi Nando (apf, apf) talora bisogna (apf) - ansimava il professore - cogliere (apf) l'occasione (apf) di una prudente (apf) e strategica ritirata. (apf) Almeno, questo dice Von (apf) Clausewitz (apf) e Lenin non lo (apf) smentisce (apf)».


CAPITOLO V
Ove è lieto il narrare di come i Nostri Eroi sfuggirono alle trame della Controrivoluzione.
Raggiunsero trafelati ed ansimanti la vecchia e bidellesca Uno e, con singolare sintesi tra teoria e prassi, si slanciarono al suo interno e partirono di gran carriera, sempre nell'ambito delle limitate e precarie possibilità offerte dalla macchina. Dopo qualche centinaio di metri, ormai svanito all'orizzonte ogni pericolo, ripreso il fiato, Nando Pansa ruppe finalmente il silenzio: «In fede, signor mio, quel contadino era veramente assai irritato».
«Caro Nando - sospirò il professore - ancora ti inganni: chiunque comprenderebbe che non si trattava di un contadino, bensì di un contraffatto agente della Reazione avente come compito quello di spegnere sul nascere i fermenti rivoluzionari di cui noi siamo suscitatori».
«Sarà come dice lei, signor mio. Io mi son solo fermato alla terza media e se lei dice che si trattava di un vigile della creazione ci credo senz'altro. Ma, appunto perché lei ha studiato e sa sempre spiegare in maniera così intelligente da risultare incomprensibili cose che a me sembrerebbero altrimenti ovvie, potrebbe usarmi la cortesia di indicarmi dove passeremo la notte?».
«Caro Nando, prove inoppugnabili mi fanno ritenere che la nostra fama sia ormai estesa in tutta la Nazione e che ogni casa popolare sarà certamente felice di accoglierci. A tal proposito: proprio laggiù vedo delle luci accese».
Si trattava infatti di una modesta casetta che sorgeva sul ciglio della strada, priva di intonaco e immersa in orti la cui floridezza era inversamente proporzionale alla cura profusa. Parcheggiarono sul piazzale di ghiaia che si apriva innanzi alla porta di ingresso e il Professore, con piglio sicuro, si avvicinò al campanello.
Di lì a poco aprì una signora che, al vedere facce estranee, si ritrasse istintivamente.
«Non abbia paura, signora: in realtà noi siamo portatori di una prospettiva rivoluzionaria per questo Paese».la tranquillizzò il professore.
«Veramente mio marito non c'è» replicò la padrona di casa ma il professore, ignorando l'obiezione, s'introdusse affabile in casa.
«Vedi Nando - illustrava con dovizia di gesti indicativi ed esplicativi - questa sì che è una casa del popolo: ti prego, osserva quella bambola stesa sul letto, e quel quadro di tre metri per due raffigurante una barca sulla spiaggia al tramonto. Gentile signora, che lavoro svolge suo marito?».
Al sentirsi rivolgere quella pressante domanda, la signora, che sino a quel momento non aveva lesinato mugugni e proteste, ammutolì perplessa.
«Mio marito? E' artigiano - si schermì, aggiungendo subito - Ma prego accomodatevi. Volete favorire una tazza di caffè?».
«Molto, molto obbligati, signora - la ringraziò il professore cerimoniosamente. E, sedendosi - Vedi, caro Nando? E tu dubitavi dell'accoglienza del popolo!».
Mentre la signora, in cucina, preparava il caffè con insolita solerzia, il professore, girando lo sguardo attorno, si accorse finalmente che, stazionante innanzi alla televisione stava un ragazzo di forse dodici anni, a tutto indifferente se non allo spettacolo che avidamente stava consumando. Il professore, allora, alzatosi dalla poltrona buona, s'avvicinò e, strappatogli di mano il telecomando, con gesto consapevole e paterno spense l'apparecchio. E, alle incipienti e immancabili proteste, oppose una lunga e argomentata disamina sui danni morali che la televisione poteva arrecare accompagnata da una veemente perorazione a difesa di interessi certamenti più meritevoli di attenzione e studio. Tra i quali, non disdegnava di citare, il rock. E alle deboli proteste del giovine che opponeva nomi di gruppi che è bello non ricordare, il professore rispose citando altri di notevole caratura e interesse in grado di coniugare testi non banali a musiche più che degne. Tra questi, mi piace ricordare che il professore si rammentò dei Warrior Soul.
Approfittando del rientro della madre con la caffettiera fumante e della seguente distrazione, il giovane rientrò in possesso del desiato telecomando, ma, ancora non era stato versato il caffè, che suonarono alla porta, con gran sollievo della signora che, accorsa e riconosciuto il marito, lo trascinò in un angolo.
«Sono arrivati quei due - sussurrò - e mi hanno fatto un sacco di domande: che lavoro facevi, dove lavoravi... Guardavano il quadro, i mobili...».
Al che il marito, subitaneamente impallidendoo: «La Finannza!» mormorò con un filo di voce atterrita.
Ma l'esitazione poteva essere fatale e allora, fattosi avanti, l'uomo affrontò coraggiosamente il pericolo. Vi furono grandi e cortesi saluti, inviti a restare e a sedersi, fino a quando il professore domandò «Lei che lavoro fa?».
Il momento era giunto.
«Sono artigiano» rispose sobriamente e preparato al peggio.
«Vedi Nando - cominciò il professore - L'artigiano si differenzia dal capitalista in quanto è sia lavoratore che proprietario dei mezzi di produzione. Dico bene? Ella possiede i mezzi di produzione di cui si serve?».
E mentre il pensiero del professore correva a rudimentali torni o telai, quello dell'uomo precipitava in un abisso di fatture fasulle e dichiarazioni lacunose.
«In un certo senso - si difese l'artigiano - Anche se ci sono un sacco di spese: i mutui, le Banche...».
«Caro Nando: prendi nota che sul ruolo del capitale finanziario sarà necessaria qualche ulteriore e pregnante riflessione».
Ma Nando, più distratto del solito, continuava a fissare perplesso il volto e la fisionomia dell'artigiano, mentre il professore, proseguendo l'opera di proselitismo: «E mi dica caro Signor? («Giuseppe» s'affrettò l'artigiano). Ebbene, caro Giuseppe, mi dica, qual è il suo atteggiamento nei confronti dei garzoni? Sa? le domando ciò in quanto è per me necessario stabilire se Ella, in caso di crisi, sia destinato a esser tra coloro (e sono i più) che scivoleranno verso condizioni proletarie ovvero fa parte di quel (ristretto, in vero) numero di capitalisti in atto che, al sopraggiunger della crisi si manifestaranno in potenza».
E Giuseppe, che a lavoro nerissimo impiegava un paio di albanesi, «Ma io veramente faccio tutto da me».
«Me ne compiaccio. Veda, io credo che ella potrebbe diventare un soggetto potenzialmente rivoluzionario. E i tempi maturano in fretta: non è passato molto tempo da quando io e il qui presente Nando Pansa ci siamo trovati a dover fronteggiare una colonna abilmente travestita. («Non lo dica, professore!» supplicò il bidello) Ma siamo riusciti a fermarla con il lancio di una bottiglia incendiaria sapientemente (da me) preparata».
«Dove, di grazia?» domandò l'artigiano che cominciava a intravvedere l'ombra di un sospetto.
«Professore: s'è fatto tardi!» implorò ancora Nando Pansa.
Ma il Professore, ignorandolo «Non lungi da qui: a qualche centinaio di metri dall'imbocco della strada non asfaltata».
Il volto dell'artigiano si fece di porpora, circostanza che il Professore, peraltro, attribuì al caffè bollente. Reprimendosi, comunque, riuscì ancora a sillabare l'ultima domanda «E, mi scusino, ma loro sono della Finanza? O dei Carabinieri?».
«Ma per carità! Mai potremmo mescolarci alle forze della Reazione! Veda, io sono un professore (di matematica) e questi è un bidello».
«Che Dio ci protegga!» supplicò Nando Pansa.
E prima che il professore potesse erudirlo circa i fondamenti del materialismo scientifico, quel Giuseppe, furioso in volto e in preda ad una ben meditata furia vendicativa, s'alzò rovesciando la sedia e si diede a rincorrere professore e bidello che, dopo qualche giro attorno al tavolo, cominciarono a stimare più acconcia e opportuna l'ipotesi di uscir a rotta di collo di casa e di precipitarsi, ancora una volta, verso la Uno che attendeva paziente e ormai pronta a tutto.


CAPITOLO VI
Ove si narra di comme la fiamma rivoluzionaria attecchì tra le Classi Diseredate.

Per l'ennesima volta la bidellesca e paziente Uno fu sottoposta a uno sforzo molto gravoso e fu costretta, suo malgrado, a prodursi in un'accelerazione e in uno scatto per lei certamente notevoli ma che, invero, non avrebbero di certo potuto competere con quelli di qualunque altro mezzo a trazione meccanica o equina presente sulla rete stradale. La Fortuna, però, in quell'occasione non voltò le spalle alla Rivoluzione, giacché l'artigiano Giuseppe, nell'inseguirli colmo di furia e sdegno, aveva omesso di prender con sé le chiavi della propria vettura per cui, lanciato qualche minaccioso avvertimento al Cielo, vedendo la macchina nemica allontanarsi, seppur lentamente, non trovò nulla di meglio che rientrare assai corrucciato in casa.
Dopo qualche minuto dedicato, comprensibilmente, a riprender fiato e metter ordine nei pensieri, fu infine Nando che ruppe il silenzio.
«In vero, Signor mio - disse - non ritenevo che la rivoluzione di cui ella tanto m'aveva parlato richiedesse doti e attitudini atletiche così fuori dal comune. Se solo avessi potuto immaginare, mi sarei potuto allenare alla politica correndo qualche domenica mattina».
«Caro Nando, anche se la questione non è stata mai sufficientemente dibattuta dai buoni autori, pare indubbio che i grandi rivoluzionari fossero anche dotati di prestanza non comune. E' inutile, io credo, che debba rammentarti di Che Guevara insigne marciatore e di Mao, abile nuotatore, nonché di Spartaco, che su tutti primeggiava. Ma ciò non toglie che l'arte in cui essi eccellevano era l'analisi intellettuale, attività nella quale mi sento, in verità, più versato. A tal proposito, sopraggiunta ormai l'ora tarda, e sentendo in me impellente la necessità di meditare con calma sulle contraddizioni odierne derivanti, mi sembra, da un perfettibile rapporto con le masse, ti pregherei di accostare in un'accogliente piazzola».
«Con ciò Sua Signoria intende che noi si passerà la notte all'addiaccio?».
«Notte mi pare eccessivo: giusto qualche ora insonne in attesa di poter couniugare, a partire dalle prime ore dell'alba, la teoria alla prassi in maniera più consona alla fase che stiamo attraversando. Ma ecco una piazzola: ti prego, accosta».
Si fermarono sul ciglio della strada e il fido bidello cavò fuori dal baule quelle due provvidenziali coperte e ne porse una al professore che, purtuttavia, faceva cenno di rifiutare.
«Solo poche ore insonni di meditazione, magari aiutata da una stimolante musica».
E, messosi a frugare tra il mucchio delle cassette ne tirò fuori quella dei Black Crowes.
Ma, per quanto insigne fosse il gruppo e notevole il disco, non trascorse la seconda canzone che un sommesso mormorio cominciò a levarsi dal petto del Professore. E, giunta finalmente l'alba, al risveglio, il professore diede mostra d'aver elaborato una strategia. (Giova peraltro ricordare che egli s'era assopito lasciando la cassetta posizionata sul reverse indefinito con grande disappunto del bidello che, oltretutto, nel corso della notte si vide contese dal Professore - con successo - entrambe le coperte).
Orbene, il Professore pareva rammentarsi, tra uno sbadiglio e l'altro, che ai suoi verd'anni s'era recato proprio in quella zona di buon'ora a far volantinaggio dinnanzi ai cancelli di una poco distante fabbrica.
«Vedi Nando, credo che il mio errore sia stato quello di non partire dalla sollevazione della classe operaia. Orsù quindi, muoviamo: son solo pochi chilometri e a quest'ora gli operai staranno per entrare in fabbrica.»
Dopo qualche tempo, con gran sicurezza, il professore indicò una stradina il cui asfalto combatteva una strenua resistenza contro i ciuffi d'erba che crescevano un po'ovunque.
«Sua Signoria è certa che sia proprio questa la strada?» domandò il bidello, alquanto perplesso.
«Nulla di più sicuro: la fabbrica, pulsante di vita e fermenti rivoluzionari è ormai vicina. Guarda: è proprio dietro quella curva. Ecco, rallenta per non rischiare di travolgere la fila degli operai che entrano ai cancelli, ecco, così... Oh, corbezzoli!»

Purtroppo, l'azienda in questione, una quindicina d'anni prima, era entrata in profonda crisi e il datore di lavoro, previa fuga in Isvizzera, ne aveva sancito la fine di ogni qualsivoglia attività produttiva. All'epoca gli operai protestarono con vigore organizzando numerose vertenze ma il professore, che a quel tempo era immerso nello studio delle contraddizioni del tumulto dei Ciompi, aveva omesso di dedicare la sua attenzione alla notizia.
In quel radioso mattino rivoluzionario, di quella fabbrica, rimanevano pochi muri sbrecciati e numerosi tralicci arrugginiti.
Fermata la macchina, i due paladini del popolo cominciarono ad aggirarsi muti tra le macerie, retaggio dell'era industriale, con il professore che, di tanto in tanto si lasciava scappare un «Ma dove sono gli operai?».
Nando Pansa, diligentemente, cercava per ogni dove, evitando preservativi e siringhe usati, guardando negli angoli più nascosti.
«Niente. - confermò sollevando l'ennesima botola - Proprio non ci sono».
«Eppure... eppure...». Ma in quel frangente, tra una ricerca e l'altra s'imbatterono infine in un'anima viva e stupefatta.
Appoggiato ad un pilastro, laccio appena allentato, siringa e cucchiaino a lato, in contemplazione assorta di un muro scrostato, stava un tossicodipendente.
«Caro Nando - esclamò il professore - forse la nostra venuta qui non sarà senza frutto. Ecco qui dinnanzi a te - e lo indicava con ampi gesti - un tipico prodotto dell'alienazione capitalistica!».
«Signor mio, a me pare proprio un drogato».
«Non lo nego, ma, nonostante le sue contraddizioni, rimane pur sempre un prodotto del sistema iniquo che combattiamo con foga».
Lo stupefatto abitante delle macerie, nel frattempo, s'era rialzato, e, dopo aver riordinato i suoi strumenti di lavoro, s'era avvicinato ai due.
«Concorderà con me - lo interpellò il professore - che Ella si dibatte in numerose contraddizioni?».
«Numerosissime, invero».
«Mi compiaccio che le riconosca e, mi dica, non sarebbe intenzionato a risolverle emancipandosi dalla sua poco sociale attitudine?».
«Certamente, e non nascondo d'averci anche provato e di essere, allo scopo, entrato in comunità. Ma dopo ventisette punti di sutura, otto lussazioni, una sospetta frattura del metacarpo destro e tre slogature a cui vanno aggiunte abrasioni, contusioni e ustioni di secondaria importanza che citar qui sarebbe dispersivo, mi sono rafforzato nel parere che meglio sarebbe tener contraddizioni e incolumità. A tal proposito, potrei io invitarla ad alleviarle, almeno in parte, versandomi una congrua somma?».
«Amico, siamo ricchi di ideali e scarsi di fondi. Temo che dovrà rivolgersi ad altri».
«Mi perdoni, ma non vedo forse un orologio al suo polso sinistro?». «Amico mio, il suo valor d'uso è per me immenso ma il valor di scambio temo sia trascurabile».
«Signor mio, comprendo il suo ragionamento, ma uno scarso valor di scambio del suo orologio sarà certamente più apprezzato, dal mio fornitore, di quello, assai prossimo allo zero, dei suoi ideali».
E, vedendo che Nando cominciava ad armarsi con una vecchia trave arrugginita «Gentile signore - gli disse - mi duole significarle che stringo tra le mani una siringa che grave nocumento potrebbe arrecare al suo compagno».
Nando gettò a malincuore la trave a terra e quegli, dopo aver ricevuto l'orologio si allontanò verso il suo motorino non senza aver, con un chiodo acuminato, forato una gomma della Uno. Dopodiché, messo in moto, si allontanò in direzione del sole nascente


CAPITOLO VII
Ove si narra di come il Professor Chisciotta fu ammesso in circoli rivoluzionari e oltremodo clandestini.
Fu con gran mestizia che Nando Pansa si avvicinò alla bidellesca Uno e iniziò a contemplarla, e quando infine sentì vicino a sé la presenza nobile e austera del professore: «Signor mio - cominciò a singhiozzare - sono arrivato alla conclusione che queste rivoluzioni non mi si confanno e perciò, eccellenza, vorrei comunicarle che rinuncio a quel posto di sottosegretario ch'Ella mi aveva così generosamente promesso, e le annuncio che presto ritornerò dalla mia Teresa e dalle mie ramazze. Come se non bastasse, signoria, se mi assenterò ancora qualche giorno corro il rischio di ricevere una visita del medico fiscale».
«Caro Nando - rispose meditabondo il professore - anche se la questione della rivoluzione in un solo paese è stata più a lungo dibattuta di quella della rivoluzione in un sol giorno, è comunque mia opinione (confortata, peraltro, dall'esperienza storica) che nell'arco di pochi giorni, e quindi prima del medico fiscale, sia possibile instaurare qua e là qualche accenno di dittatura del proletariato».
Ma il bidello, per nulla rassicurato, si sedette sull'umida erba a contemplare sconsolato la sua macchinetta.
«Ma cosa ti preoccupa, infine - domandò il professore - Forse la ruota forata a cusa delle stridenti contraddizioni della cultura capitalistica?».
«Signor mio, non è solo la ruota che mi inquieta. Ma anche quelle sgraffiature procurate allo stadio, e quegli ammortizzatori ormai prossimi al disfacimento, per tacere dello sterzo che, a causa di tutte le buche, risulta esser solo approssimativo».
«Animo, Nando - lo rincuorò Chisciotta - è solo un momento di sconforto! Le rivoluzioni conoscono sempre i loro alti e bassi!».
«Sarà senz'altro così, anche se a me pare d'aver visto sinora solo bassissimi».
«Pura sfortuna, caro Nando, pura sfortuna. Orsù rialzati e aiutami a cambiare questa gomma. C'è un paese poco distante e certamente troveremo qualche bravo artigiano che te l'accomoderà a regola d'arte».
Lavorarono per un buon quarto d'ora prima di ripartire alla volta del paese. Ma lungo il tragitto, il professore, al cui fine intuito psicologico nulla sfuggiva, cominciò a sospettare che il bidello cominciasse ad avvertire un lieve calo della tensione ideale. Per rincuorarlo, quindi, pescò dall'inesauribile mucchio di cassette che s'era portato seco quella con la registrazione dell'ultimo lavoro dei King Crimson.
«Animo Nando! Ho qui una cassetta che, per le sue sottili ed evocative sfumature, non mancherà di rallegrarti l'animo».
«Quale cassetta, signor mio?».
«Quella dei King Crimson, mio caro».
«Si tratta forse di un vecchio disco o di un'antica registrazione?».
«Nulla di tutto ciò: è, al contrario, un lavoro di poche settimane or sono».
«Ma che stranezza: credevo d'esser affatto digiuno di rock, ma ora mi rendo che, in fondo, le sue usanze non sono dissimili da quelle della mia famiglia».
«Non comprendo, Nando. Forse tra i tuoi parenti v'è un musicista o un compositore rock di cui m'avevi taciuto l'esistenza?».
«Oh no, signor mio: nella mia famiglia siamo poco inclini all'arte in genere e al rock in particolare».
«E allora, cosa c'entra la tua famiglia?».
«Veda, signor mio, io faccio di nome Nando (che poi sarebbe il diminutivo di Fernando), e anche il mio nonno (buon'anima) si chiamva Fernando. Mio padre invece fa Antonio, e mio fratello Giuseppe, anche se lui non c'entra, ed è norma da sempre seguita nella mia famiglia che il mio primo figlio debba chiamarsi Antonio anche lui, mentre il nipote di Giuseppe si chiamerà (se mai nascerà) Giuseppe, anche se lui c'entra ancora meno di Giuseppe mio fratello».
«Nando, son lieto di far conoscenza per esteso della tua famiglia, ma continuo a non cogliere il nesso con il rock».
«Non comprende? Evidentemente gli antichi King Crimson dovevano essere i nonni di questi che hanno inciso questo disco e che, da bravi nipoti, prendono il loro nome».
«Invece ti sbagli, caro Nando, giacché questi King Crimson sono gli stessi di quelli antichi. Almeno, quasi gli stessi, giacché, pur essendo presente il solo Fripp della prima formazione originaria, e Adrian Belew e Tony Levin della seconda, in certi tratti sembrano riandare ai loro momenti classici. Onde per cui ti consiglierei vivamente, oltre che una virata a destra, giacché il paese si trova in quella direzione, anche un ascolto ripetuto e attento. Ecco, adesso rallenta, ché dopo quella curva entreremo tra le prime case e, vedrai, non sarà difficile trovare un gommista esperto ed onesto».
Ma qui mi sia lecita una parentesi, per introdurre due nuovi personaggi che, loro malgrado, segneranno il corso futuro delle vicende rivoluzionarie del professore. Si trattava di due balordi, da sempri usi ed avvezzi a sbarcare il lunario con una moltitudine di mezzi tanto eterogenei quanto di dubbia legalità. Entrati e usciti ben più che due fiate dalle patrie galere, avevano, negli ultimi tempi, contattato una rete clandestina di scommesse sul calcio. Mentre la bidellesca e arrancante Uno entrava in paese, un di quei due domandò all'altro «Ma sei tu ben sicuro?».
«Sicurissimo, certamente!».
«Ripeti allora».
«Gli ordini son chiari: consegnare la busta con le scommesse di sabato a due emissari del Capo».
«E come riconoscerli?».
«Non c'è da sbagliarsi: entreranno, con aria indifferente, nel paese, faranno un lungo e vizioso giro della piazza, dopodiché si fermeranno dal gommista. Saranno in due, e insospettabili».
«Bene, aspettiamo».
«Allora, professore - domandò Nando - dov'è questo gommista?».
«Mi pare che sia da quel lato della piazza. - ma, dopo qualche decina di metri - No, ora che ci penso, dovrebbe essere dall'altro lato - e, dopo la conversione e qualche altro istante - Aspetta: adesso sono proprio certo d'averlo visto alle nostre spalle. Ritorna indietro».
Nel frattempo, i due scommettitori guardavano con molto interesse la scena e, dopo che videro la Uno accostarsi davanti al gommista «Son loro» esclamarono, e si avvicinarono.
Già la ruota era stata amorevolmente presa in consegna che i due si accostarono al professore e, portandosi una mano a coprir la bocca e parlando sottovoce, «Abbiamo qui la roba» sussurrarono. Il professore, che non dubitò per un solo istante di essere stato finalmente contattato da un' organizzazione rivoluzionaria quanto mai efficiente, nonché, per forza di cose, clandestina, si adeguò immediatamente alla parte e, sussurrando anche lui, domandò «Di che merce trattasi?».
«Soldi» gli fu risposto.
«Ma le armi?».
«Ci sono anche quelle».
«Ottimo. E siete numerosi?».
«Numerosissimi, e diffusi su tutto il territorio».
«Eccellente: è così che si preparano i movimenti seri».
«Ne siamo consapevoli».
«E, ditemi, cosa devo farci con questi soldi? Comparare armi, finanziare l'espatrio dei latitanti?».
«Portali dal capo. Dentro troverai un bigliettino con le istruzioni».
«Ma allora c'è un capo?».
«Naturalmente».
«Ardo dal desiderio di conoscerlo».
«E lui di avere quel pacchetto».
I due clandestini stavano già congedandosi quando il professore, richiamandoli «Ditemi, non tenetemi sulle spine, come vanno le cose?».
«Molto bene» gli fu sussurrato in risposta.
«E Torino? Come va Torino?».
«E' sui 500» rispose il clandestino che, ovviamente, si riferiva alle quote della vittoria del Torino nel derby.
«E al Sud?» domandò ancora il professore che, invece, desiderava conoscere il numero dei rivoluzionari attivi.
«Dipende cosa. Napoli? Bari?».
«Napoli, per esempio».
«E' a 300».
«Bene!».
Rincuorato, il professore ritornò da Nando Pansa proprio nel momento in cui il bidello stava pagando il gommista e stava risalendo in macchina. Con brevi cenni del capo il professore lo invitò a mettere in moto il più celermente possibile.
Orbene, proprio quando erano sul punto di uscire dalla piazza furono quasi investiti da un'auto di grossa cilindrata che compiva giri spericolati. E proprio quando i due clandestini, al vedere quella scena, sbiancarono in volto, la Uno finalmente uscì dal paese a gran fatica.
«Caro Nando, solo poc'anzi ti dissi (riscontrando in te un certo qual scetticismo che molto m'ha ferito) di come le rivoluzioni conoscano, come molte altre circostanze dell'umano agire, i loro alti e bassi. Ecco, vedi: ora si dimostra come i momenti propizi, dopo tante disavventure, stiano per giungere».
E nel dir ciò l'esimio e prode Professor Chisciotta aprì con delicatezza il voluminoso involto che custodiva in grembo.
Il fido bidello, con un occhio alla guida e al'altro al pacco, vide quindi materializzarsi, come per magia, numerosi rotoli di biglietti da centomila ripiegati e strizzati da stretti elastici.
«Signor mio - esclamò - In fede non oserò mai più parlar male delle Rivoluzioni se in un solo giorno di lavoro (per quanto oltremodo duro e penoso, e io ne so qualcosa) Ella ha potuto guadagnare quanto, in media, un operaio riesce in più e più anni».
«Caro Nando - rispose sdegnato l'onesto professore - questi danari non son per me e non sono nemmeno la Rivoluzione, ma serviranno a prepararla in quanto tramuteranno il loro vile status di moneta segno in armi e tipografie clandestine di inestimabile va
lore per ogni rivoluzionario che si rispetti».
«E' un peccato, signor mio, che qualcosa non possa trattenersi, seppur a titolo di rimborso spese (e la mia macchina ne avrebbe ben bisogno), anche perché, sebbene non facciamo altro che prepararla, mi sorge qualche dubbio sulla ineluttabilità di questa Rivoluzione».
«E qui ti sbagli, e non di poco: che la rivoluzione sia ineluttabile è dimostrato non solo in numerosi testi dei quali non mancherò di parlarti (rammentami di narrarti della caduta tendenziale del saggio del profitto) ma, soprattutto, dall'esperienza. Vedi, caro Nando, che il mondo così com'è sia un'orrenda delusione è ampiamente riscontrato da chiunque abbia un minimo di sensibilità per capire. E come continuare a vivere in una società siffatta? Solo tre son le alternative: la prima è sperare che un giorno, in un al di là, tutto si ricomponga; ipotesi dimostrata erronea (ricordami di menzionarti anche il materialismo dialettico); la seconda è che per sopravvivere e accettare la delusione si diventi pazzi, e che ciò non sia il caso nostro è dimostrato dal fatto che io pazzo non sono; la terza, infine, è ritenere che, per necessità, una rivoluzione migliorerà e abbellirà uno stato di cose altrimenti insostenibile. Ecco Nando: questo è il nostro caso, e ciò prova l'inelluttabilità e l'imminenza della Rivoluzione. Rinfrancati quindi con questo dolce pensiero, e allo scopo, permettimi di farti ascoltare un disco che, di certo, infonderà nel tuo animo, il calore necessario».
Nel dir ciò il Professore pescò dal suo ben fornito mazzo la cassetta dei Widespread Panic: un gruppo che di calore ne trasmette molto, soprattutto a coloro che amano, o hanno amato, la musica americana. Giacché, ed è questa la caratteristica, i Widespread Panic in questo loro ennesimo disco ripropongono un campionario completo di ciò che la musica rock degli States ha prodotto in questi ultimi vent'anni. E, sullo sfondo, c'è sempre una prateria sottintesa, una lunga strada che corre dritta, un senso di libertà, e, nel caso del Professor Chisciotta, i sogni di vent'anni e più prima, quando si ipotizzava una California Hippy e Floreale. (E ora è invece diventata una delle nazioni più razziste della terra: congratulazioni). Adesso, certo, molte cose erano mutate, e la strada che il professore e il bidello percorrevano non era quella sognata vent'anni prima ma una stretta provinciale che si inerpicava su per le montagne.
«Signor mio, è sicuro che la direzione sia quella giusta?».
«Naturalmente, caro Nando: la mappa e le istruzioni accluse son ben chiare. Non dovrebbero mancare più di dieci chilometri».
Ristettero ancora qualche minuto in silenzio a godersi il disco, ad apprezzarne la matura compostezza, fino a quando arrivarono sulla soglia di un grande e pesante cancello.
«Fermati, Nando, il luogo è questo».
S'avanzarono quindi due persone che bello sarebbe non incontrar di notte e meglio ancora non incontrar mai, che, avvicinatisi alla macchina diedero ad intendere che s'attendevano esaustive spiegazioni. Il professore mostrò allora, senza sprecar verbo, la busta, ed essi sembrarono comprendere, giacché li fecero passare.
Entrarono quindi nel parco e dopo poco s'arrestarono dianzi alla villa. Era una costruzione di opulenza post-industriale: muri non intonacati perché, evidentemente, non ritenuto necessario, ma grande e ampia e convessa piscina, cui facevan da cortina certe palme che non saprei ora dire se finte o di serra. L'insieme avrebbe dovuto evocare un che di Floridesco, ma l'Appennino sullo sfondo e l'odore pregnante di stallatico contribuivano non poco a guastare l'atmosfera. Cani molti, e molto feroci, e degni padroni arricchivano la località.
Il professore e il bidello, arrestata la macchina furono di fatto prelevati e portati all'interno.
«Ora lo conosceremo - fremeva Chisciotta - conosceremo il nuovo Lenin d'Italia. Preparati, Nando, preparati al momento, ché un giorno potrai dire ai tuoi nipoti: 'io c'ero'».
«E' proprio questo che temo, signoria» sussurrò appena Nando.
Furono lasciati a meditare in un ampio salotto tendente al rosa confetto, con ricchi divani e pesanti drappi che sconcertò non poco il professore che, a tutt'evidenza, s'aspettava un locale più parco e sobrio.
Non attesero molto, e non ebbbero modo di ammirare con accuratezza la dovizia di statuine di ceramica, ché il nuovo Lenin (almeno così lo riteneva il professore) entrò nel salotto.
Era un uomo assai corpulento e villoso e che amava sfoggiare, oltre al vello, un ricco e aureo medaglione sul torace e una sgargiante vestaglia di seta lucida.
«Sono loro - li apostrofò bruscamente - che mi devon consegnare quella somma?».
«Di ciò fummo incaricati, compagno - l'ossequiò Chisciotta - e la somma è qui. Solo gradiremmo essere messi al corrente dei tuoi progetti, onde potervi partecipare».
«Mi perdoni - lo interruppe il villoso - ma mi chiedo qual può mai essere il vostro interesse».
«Mi pare evidente, compagno - il professore strinse il pugno - apportare le nostre idee a questo imponente movimento di cui tu sei la guida».
E già il villoso stava per controbattere che grandi schiamazzi annunciarono l'entrata in forza di qualcuno di quei signori la cui compagnia, in genere, è consigliabile omettere. Era un gruppo alquanto numeroso ed irritato che si fermò sulla soglia.
«Capo - disse uno di loro - quei due sono infiltrati! Son questi due i corrieri veri - e indicava i due che giunsero sulla piazza poco dopo la partenza del professore e del bidello - Quelli non sappiamo chi siano. Forse poliziotti, o carabinieri, o truffatori».
Il villoso arretrò prudentemente d'un passo mentre tutti brandirono armi di varia natura e taglia, e ai due rivoluzionari si rivolse così: «E' forse vero ciò che dicono?».
«Mai, compagno, servimmo le forze di polizia o della repressione! E ne ho le prove!».
«Le prove, dice? Me le mostri, la prego».
Dignitoso il professore cavò allora dalla tasca più riposta due preziosi cimeli: una foto ed un vecchio articolo, giallastri entrambi per il tempo passato. «Guardi qui - s'avvicinò al villoso - questa è la foto dell'occupazione dell'Università. E' ben vero che son passati diciassette anni e ventiquattro chili, ciononostante sono perfettamente riconoscibile. Eccomi qui al centro, sebbene ancora fornito di ricca e fluente capigliatura. Ma se poi ciò non bastasse - argomentò ad abundantiam il professore - ecco la prova decisiva. - cavò fuori una copia di un antico giornaletto intestato 'Lucania Proletaria' che uscì, una ventina d'anni prima, per ben quattro numeri quasi consecutivi - Da pagina dieci comincia un mio pezzo sulla 'Questione agraria nella Lucania del XVI secolo' ove Ella, con un solo colpo d'occhio, potrà riconoscere un paradigma interpretativo di natura eminentemente materialista. Prego, legga e si convinca».
Ma il villoso, inspiegabilmente per il professore, raccolse foto e articolo, ne fece una pallottola e li gettò nel camino fiammeggiante. Dopodiché, con pochi ma precisi ordini ordinò ai suoi di portare via bidello e professore e di sottoporli a stringente quanto esauriente interrogatorio.
Non appena ricevettero l'ordine dal burbero quanto villoso capo, i suoi premurosi collaboratori si diedero subito ad insistere perché il Professore e Nando Pansa li volessero cortesemente seguire. E, constatata una qualche resistenza, forse determinata dal cortese timore di arrecare troppo disturbo, quei signori stimarono più opportuno stringere a sé calorosamente i due e portarli lungo stretti e reconditi corridoi sino ad una stanza interrata umida e fredda. Colà, per non doversi privare anzitempo della preziosa presenza del Professore e del bidello, quei signori li fecero fermamente accomodare su due sedie (alquanto impolverate e imbrattate, in verità) e provvidero ad assicurarsi la desiderata compagnia per mezzo di pesanti corde sapientemente strette ai polsi, alle caviglie e, con ingegnosa trovata, alla spalliera delle sedie.
Dopodiché si diedero ad approfondire la conoscenza reciproca, a porre domande e questioni così spinose che dovevan richiedere, per forza, il parere del Professore per arrivare a soluzione. Parere che fu richiesto, con insistenza, e vorrei dire calore. Nel corso della dotta conversazione, poi, tanto era il trasporto emotivo e l'interesse che sovente quei signori si dimenticarono di spegnere le cicche nell'apposito portacenere preferendo, nel caso, qualche lembo della pelle di uno dei due. E tanto durò il colloquio che, per ridare scioltezza alle assopite articolazioni, ed in special modo a quelle delle braccia, spesso si diedero a simulare veri e propri incontri di pugilato e diedero modo al volto ora del professore ora del bidello di saggiare la perizia e la forza invero notevoli dei gesti.
Al termine di lunghe ore, infine, tanto era stato l'impegno profuso che i due rivoluzionari, frastornati da tanto coloquiare, s'abbandonarono ormai esausti sulle sedie. E fu allora che nella stanzetta entrò il vestagliato e villoso capo. Con un sol cenno comprese che non v'era stato gran approfondimento dialettico, e all'udir da uno dei suoi collaboratori che, probabilmente, altro non s'approfondirebbe in quanto (cito testualmente) «sarebbe come cavar sangue dalle rape», avvicinossi al professore e, sorretto il di lui mento «Voglio sperare - gli disse - che sua signoria saprà ben dimenticare questa giornata trascorsa tra noi».
Questo fu il commiato e poco dopo il professore e il bidello furono accompagnati sin all'interno della macchina e, con auguri di un felice ritorno in un qualunque luogo dei mondi Superi e (specialmente) Inferi che non fosse quello nel quale si trovavano in quel momento, misero in moto e mestamente lasciarono il giardino della villa.
A placida andatura si diressero quindi lontano e, dopo qualche tempo, «Sai, Nando - mormorò il professore con qualche difetto di pronuncia determinato dall'accidentale caduta di un paio di denti - più ci penso e più mi rafforzo nell'idea che quelli non fossero i rivoluzionari di cui ti parlavo».
«Se proprio devo essere sincero, eccellenza, le dirò che anch'io coltivo analogo sospetto. Inoltre, sua signoria certo non me ne verrà, sono addivenuto alla conclusione che meglio sarebbe per me rinunziare a quel sottosegretariato e alle rivoluzioni di cui ella mi ha lungamente parlato e di cui io ho brevemente ma esaustivamente considerato la natura».
«Con ciò, Nando, tu assesti un colpo di grazia alle mie speranze».
«Me ne dolgo, signor mio, ma spero che la constatazione dei colpi non grati che ho ricevuto in questo giorno varrà a giustificarmi agli occhi suoi».


CAPITOLO VIII
Che tratta del trionfale ritorno a casa dei due prodi Rivoluzionari
Tacquero quindi a lungo, immersi in profonde riflessioni. Il bidello agognava, finalmente, un letto comodo e una vasca da bagno capace mentre il professore, con animo più elevato, si diede a ricordare ancora una volta dei suoi verd'anni e del tempo in cui tutto sembrava più facile. Gli sovvenne allora che aveva con sé ancora una cassetta non ascoltata, appartenente ad un gruppo che molto aveva amato in gioventù: i Gong, l'archetipo della musica freak inglese dell'inizio degli anni settanta. E assorto nel suo silenzio, il professore li ascoltò con evidente commozione riandando con la mente a volti e speranze perse ormai nella nebbia del tempo.
«Nando hai ragione. - mormorò con voce grave - Rientriamo a casa» e si richiuse in un profondo e luttuoso mutismo.
Finalmente, quando ormai il sole già tramontava all'orizzonte, entrarono in città, tra gli sguardi curiosi e attoniti di coloro che vedevano passare un tal residuo di mille battaglie e che di tutte portava vistosi segni. Arrivarono quindi sotto casa del professore e, parcheggiata la reduce Uno, si accinsero a salire faticosamente le scale. Giunti che furono sulla soglia, si aggrapparono al campanello e non lasciarono la presa sino a quando, trafelata, sollevata dalla loro presenza e sconcertata dalla condizione del loro presente, la sorella non aprì la porta. Il professore, sospinto da poco più della forza di gravità, entrò allora nell'appartamento e si abbatté sul divano.
Il salotto era stato ormai rimesso a nuovo, i libri sediziosi eran stati prudentemente asportati e lasciati solo quelli edificanti e concilianti (notavasi in particolare quel romanzetto ove si parla di promessi sposi e ad un punto recita «ho imparato a non mettermi ne' tumulti» - italico paradigma dell'agire politico). Molto temeva la sorella che di ciò il professore s'adombrasse, ma egli, volto un (fuggevole) guardo al passato mobilio, «Che fin mai han fatto i libri miei?» domandò.
«Venne la polizia - si giustificò, mentendo, l'impacciata sorella - li giudicaron pericolosi e li portaron via».
«Bene hanno fatto - assentì, con grande stupore della sorella, il fratello - Sono invero pericolosi, perché traviarono il mio retto comprendere. Mi instillarono l'idea, che solo ora vedo esser falsa e ingannevole, che fosse possibile cambiare il mondo o, più modestamente, quest'iniquo stato di cose. Mi fecero immaginare che la verità e la giustizia sian destinati a trionfare sulla menzogna e l'iniquità, quando a chiunque abbia un minimo di ragionevolezza appare ben chiaro come ciò sia impossibile. Mi fecero credere, infine, che la ragione possa sempre più della prepotenza e che per ciò la storia degli uomini sia destinata ad un futuro migliore. Si sbagliavano, tutti, e sbagliavo io a prestar loro fede. Sorella, potrai mai perdonare la mia follia?».
All'udire questo discorso così assennato e ragionevole, la sorella e il bidello proruppero in grandi manifestazioni di gioia ed entusiamo: l'una, che l'avrebbe perdonato per molto meno, si slanciò ad abbracciarlo, tra le lacrime, rassicurandolo e confortandolo e l'altro, schiarendosi la voce per la commozione, assicurava che, pur di vedere il professore rientrato di senno, era dispostissimo a rinunciare a quel sottosegretariato. E mentre la sorella, per festeggiare, correva ai fornelli con l'intento di preparare una delle sue ricette migliori, il bidello si congedò con grandi sorrisi e congratulazioni adducendo come giustificazione la fretta che l'animava di riveder la Teresa e la vasca da bagno sue. Il professore, rimasto ormai solo nel salotto, si distese quindi sul divano e, trovata la più comoda delle posizioni, pose mano al telecomando e, mentre le immagini scorrevano e saltavano da un canale all'altro, assaporò, dopo molto tempo, la ritrovata serenità di spirito.
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venerdì 1 luglio 1994

Il Principe dei Centri sociali

CAPITOLO I

Da molto tempo non sognava così: gli pareva di volare nella notte sopra colline e campi di un mondo ancora giovane e ingenuo, di vedere fattorie isolate e borghetti rischiarati solo da qualche torcia, aveva l'impressione di sentire ancora il profumo del grano appena tagliato e quello pesante delle stalle e dello sterco: cattivo odore in sé, ma, addolcito e ingentilito dalla nostalgia e dai ricordi, si era trasformato in un aroma che, a distanza di tanti anni, riusciva a commuoverlo. Già vedeva il primo chiarore da oriente, e sentiva che era il momento di rientrare a casa: la notte successiva, forse, avrebbe ripreso il giro. Forse.
Si svegliò nella sua stanza di periferia, attorno solo cemento e plastica. Non gli piacevano, ancora non ci si era abituato. Guardò la pendola: le nove. Si alzò dal suo duro letto stanco più di quanto non fosse la mattina, quando si era coricato. I Mandragora continuavano imperterriti a suonare la loro psichedelia progressiva. Buona musica quella dei Mandragora: era stata una buona idea qualla di addormentarsi in loro compagnia. Forse il sogno era merito loro. Si avvicinò allo specchio e ci vide per l'ennesima volta il suo lungo volto affilato e glabro, il pizzetto che faceva del suo mento un arco gotico rovesciato, i suoi zigomi sporgenti. Si guardò a lungo, senza parlare. «Finirà un giorno?» si chiese alla fine prendendo il rasoio. «Finirà un giorno? E quando?».

Controllò le batterie del walkman. Si mise addosso una maglietta e dei pantaloni neri (gli piaceva il nero), tirò fuori dallo stereo la cassetta dei Mandragora (era calda, ormai) e la infilò nel walkman. Lanciò un'altra occhiata alla pendola: le dieci. «Signor Principe» lo bloccò il portiere in fondo alle scale. Un uomo rubizzo, senza nessun problema al mondo (eccettuata la Nazionale). Beato lui. «Signor Principe, che fortuna averla incontrata! Non la si vede mai: di giorno non esce mai di casa!». «Il mio lavoro... il mio lavoro... ». Mormorò uno strascicato buonasera e premette il pulsante del portone. Stava già per uscire quando: «Signor Principe!». Si voltò un attimo «Signor Principe, lei che può (e che è giovane, io alla sua età, oh!...) perché non va al mare a prendere un po'di sole?». «Sole? Io?». «Ma certo! Ma guardi com'è pallido! Un po'di mare le farebbe bene! Ma.. ma... Signor Principe, lei ride! ê la prima volta...».
White horse pub, Spaghetti house, Barber shop, Take away, Pizza & cold drinks: i neon lampeggiavano in lingue diverse. Era l'ora della prima tappa: generalmente un gin and tonic, d'estate. Ma con molto ghiaccio e molto gin. Poco limone. «Gin and tonic?» gli chiese retoricamente il barista mentre già versava la Schweppes (etichetta gialla).
Bevve il primo sorso distrattamente, con la mente ancora persa in quel sogno. Alzò il volume dello stereo, a coprire il jazz di sottofondo. Buon gruppo i Mandragora, ormai sono tra i migliori della scena psichedelica. Un po'orientaleggianti, mistici al punto giusto. Bravi. E poi quel disco, registrato dal vivo, conteneva il meglio che avessero mai composto. Ottimo. Per un attimo gli parve ancora di volare, di sentire quei profumi, il fresco dell'aria quando scendeva in picchiata, la libertà.... Si risvegliò scrollando la testa. E bevve il secondo, e poi il terzo sorso. E poi un altro bicchiere.
«Tu molto solo questa sera, vero? io vedo.» Gli aveva poggiato la mano sulla sua. Era nera. «Volere compagnia, vero? Uno momento e poi più solo. Più». E sorrise con i denti bianchissimi. Nigeriana. «No, grazie». «Tu solo, io vedere. Vieni, dai. Io faccio sconto, dai». «Ti pago da bere, se vuoi..». «Io bere, ma tu no: bicchiere beve te, non tu bicchiere.» Ma lui ordinò lo stesso due gin tonic. Bevvero in silenzio: anche lei sembrava ripensare ad altri campi, altri panorami. «Buonanotte» la salutò alzandosi alla fine del muto bicchiere. «Tu sei simpatico. Per te anche gratis. Io fatto molto, oggi: d'estate gente più arrapatissima...» cercò di trattenerlo. «No, non stasera». «Ma tu tremi, tu essere molto, molto solo...». «Lo so, ma sono affari miei!», e, divincolandosi si diresse alla porta. Ma, con la mano sulla maniglia, si voltò «Forse un'altra sera» le sussurrò, e uscì.
Alzò il volume il massimo mentre percorreva le strette e grigie strade di periferia. Conosceva i Mandragora da tempo, ormai, da quando incisero quel primo disco che subito li segnalò come un eccellente gruppo in grado di coniugare atmosfere psichedeliche a composizioni di stampo progressive. Poi, col passare del tempo, la loro vena mistica era aumentata, di pari passo con la loro sicurezza e bravura.
E mentre ancora viveva il sogno di poco prima si trovò a varcare la soglia del centro sociale. Si sedette, come al solito, sulla sua panca, in silenzio, non senza aver prima ordinato una tequila. Anche se sapeva che, per economizzare, compravano la peggiore del pianeta. Serata fiacca, quella sera: una mostra di fotografie sui bambini di qualche popolo sfigato. Se avevano i pantaloni larghi, allora erano Rom. Se avevano lo sguardo furbetto erano palestinesi. Se erano nudi venivano da qualche posto ai Tropici vessato e sfruttato. Le facce dei bambini erano comunque sempre le stesse. E anche le foto: cambiavano gli optionals. La sfiga, nella sostanza, non ha latitudini. «Bella mostra, vero?» lo abbordò di lì a poco un rasta mai visto prima, gonfio di orecchini e con le cuffiette alle orecchie. E attaccò a sghignazzare. «Ma è divertente?». «No, è tristissima!» e fu preso, per le risate, da una scarica di tosse. «Fumo troppo, troppo. Tutto.».
Per il resto la serata procedette come al solito. I soliti guasti tecnici alla luce (con i successivi dieci minuti al lume di accendino), la solita crisi isterica di qualcuno che aveva bevuto un po'troppo, il solito otturamento al cesso. (A tal proposito, quella sera si fece vedere una tipetta in tailleur che non si è mai capito per quale congiunzione astrale buffa fosse lì capitata. Fatto sta che ad un certo punto fu colta da un lieve malessere e fu premurosamente accompagnata in bagno ma, appena entrata, ebbe uno svenimento e fu portata direttamente al pronto soccorso.)
Alle due ormai la serata volgeva al termine. Qua e là, ciondolanti, si aggiravano i pochi superstiti. Il rasta era in ottima forma. Si avvicinò gaudente. «Grande!» urlò. «La serata?». «No! Natty Dread - e si toccò le cuffiette - Grande fratello Bob!». «Alla salute...». «Alla tua, Signor Principe» si scompisciò il rasta. «Come conosci il mio nome?». «Principe... Ma chi non ti conosce?». «Chi conosce... me? Marco Principe?». «Marco? Marco!». Il rasta cominciò a rotolarsi per terra reggendosi il ventre, squassato da tosse e risate. Poi, serissimo, si rialzò. «Marco? Tu? Principe di Transilvania e Signore della notte... Mar - co? Così ti chiami, ora? Ha ha ha..».
In quel mentre s'era fatta avanti una biondina dark che da settimane osservava con curiosità quel tipo tutto nero che stava lì in silenzio a meditare chissà che. Quella notte s'era fatta coraggio, aiutandosi con quattro ore intensive dei Sisters of Mercy. «Mi aiuteresti a buttare l'immondizia?» gli chiese timidella sorreggendo quattro pesantissimi sacchi (neri) pieni di tutto.
Mentre il rasta era in preda alle convulsioni («Dio, quanto fumo») lui si alzò, le prese due sacchi e l'accompagnò ai cassonetti. (Lontanissimi). In silenzio religioso scaricarono i sacchi e, sulla via del ritorno «Ti piacciono i Joy Division» gli chiese. Ancora turbato dal rasta, lui rispose frettolosamente «Sì, certo...». Lei annuì soddisfatta. E quando arrivarono ormai all'ingresso del Centro Sociale, gli prese la mano dicendogli «Mi piaci sai?». Si fermarono a guardarsi. Lei vedeva un tenebroso che chissà quanti mondi aveva dentro e che con una spintarella (un affetto?) sarebbero esplosi in mille caleidoscopi. E sorrideva. Lui tremava. Vedeva i suoi occhi, e i suoi capillari, e dietro scorgeva il dedalo di vene, di arterie, e sentiva il pulsare caldo del cuore, e sentiva il suo profumo: era una zero negativo, e lui adorava lo zero negativo.
Durò solo un momento: lui si scostò bruscamente. «Cos'è, non ti piaccio?» le chiese timidella la dark. «Non è questo.. è che ho dei problemi..». Lei si rabbuiò, e volse lo sguardo a terra. Poi, con uno sforzo, tornò a guardarlo. «Non è un problema, sai?» gli comunicò fingendo indifferenza e consapevolezza. «Cosa?» le domandò sospettoso. «Voglio dire.. cioè... non è un problema se sei gay...». «Magari...» sospirò lui.


CAPITOLO II

In genere, in un qualunque Centro Sociale che si rispetti, c'è sempre qualcuno che alle tre di notte ha la brillante idea di chiedere ad alta voce «Chi ha la macchina?». Domanda in sé innocente ma che nasconde per quei pochi fortunati (si fa per dire) che la posseggono una nottata in bianco. Non appena, infatti, qualche malcapitato, per ingenuità o per insostenibilità del contrario, si azzarda a pronunciare un timido «Sì», ecco che dal nulla sbucano, armati di pianta della città, una mezza dozzina di occupanti che, in men che non si dica, predispongono il piano degli accompagnamenti. Piani complessi, che devono tener conto di miriadi di variabili (non solo il luogo dell'abitazione, ma anche le idiosincrasie personali, le storie sentimentali che fanno sì che i due implicati preferiscano essere accompagnati insieme e per ultimi e via dicendo) cosicché il possessore di macchina si ritrova a fare un paio di volte il periplo di Roma sognando la tessera del Rotary.
Accadde così anche quella notte. Ormai chiusa la saracinesca e formate le carovane, Marco Principe, come al solito, si accingeva a tornare a casa a piedi quando Debora, la dark, gli si avvicinò. «Tu ci vieni oggi pomeriggio all'iniziativa?» gli chiese. «Oggi? A che ora?». «Alle sei: qui davanti». Marco allargò le braccia «Ho un impegno - mentì - semmai ci vediamo dopo. Verso le undici». «Debora!» implorò il suo accompagnatore. «Ma perché non ti fai mai vedere di giorno?» si lamentò delusa Debora mentre saliva in macchina. Marco allargò impotente le braccia e la vecchia Uno dell'85, sbuffando, si mise in moto.
Dal Centro Sociale a casa sua c'era almeno un'ora di cammino; in genere, soprattutto d'estate, una passeggiata gradevole. Ma quella sera, dopo il colloquio con il rasta, Marco si sentiva poco tranquillo: aveva l'impressione, il timore, che qualche equilibrio faticosamente raggiunto cominciasse ad incrinarsi. Si mise le cuffiette del walkman cercando nella tasca della giacca, l'altra cassetta: gli Ozric Tentacles. Ormai, dopo dieci anni di attività e a distanza di cinque dal loro primo disco, erano diventati un classico della psichedelia. Questo disco, poi, era tra i migliori, pur partendo dal presupposto che di brutti non ne avevano ancora inciso nessuno. Eppure Marco non riusciva ad ascoltarlo con attenzione: aveva la sensazione che qualcuno lo seguisse. Non abbassò il volume, non sempre aveva bisogno delle orecchie per udire. Deviò dal suo itinerario solito, svoltando a più riprese nel tentativo di far perdere le sue tracce, ma il suo inseguitore, ne era sicuro, non si faceva ingannare. Dopo qualche momento di riflessione decise di affrontarlo piuttosto che continuare il giochino per tutta la notte e si nascose nel vano di un portone, in attesa.
Aspettò solo qualche minuto: saltellando leggero sulle scarpe da ginnastica, il rasta apparve alla luce di un lampione. «Mi cercavi?» gli domandò Marco parandosi davanti. Il rasta si finse (con scarso successo) preda del terrore «Uh che spavento! - cominciò a squittire - Cielo, che paura!». «Piantala - sospirò Marco - Tanto tu sai dove abito, vero?». «Mi pare di sì - ridacchiò il rasta - vicino alla stazione, se non mi sbaglio... Mi hai fatto una paura, sai? Non hai idea...». Marco lo guardò in silenzio per qualche momento. «Adesso devo tornare a casa» disse infine riprendendo il cammino. Ma il rasta, per nulla scoraggiato, lo seguiva a qualche metro di distanza. Finalmente, quando arrivarono a Piazza Vittorio (buia come sempre) il rasta accelerò il passo, lo affiancò e, cominciò a battere le mani entusiasta «Ci sono già stato, qui, Principe, sai?». Ignorandolo, Marco non rallentò e stava per imboccare una delle stradine laterali che portano alla stazione quando «Hai un momento?» lo bloccò il rasta.
Finalmente Marco si fermò e lo squadrò nuovamente «Ma tu chi sei? - gli domandò - Ci siamo già conosciuti?». Il rasta trovò la domanda molto divertente: alzò gli occhi al cielo «E me lo chiede! - annunciò alle stelle - Mi chiede se ci conosciamo! Mitico! - E fattosi improvvisamente serio - Principe, tu sai cosa c'è là in mezzo?» gli chiese indicando i giardini di Piazza Vittorio. «Un mercato?» provò Marco, senza convinzione. «Ma no! - si spazientì il rasta - Dico là dietro, dietro i banchi!» e, prima che potesse rispondere, lo trascinò per un braccio e lo portò davanti alle lamiere del cantiere. (Qualcuno, infatti, stava tentando di ripristinare i giardini). Trovato un varco, riuscirono a penetrare all'interno, scansarono tre o quattro polacchi che ronfavano circondati da un esercito di bottiglie di birra vuote, e arrivarono ai piedi di un rudere romano. Ai piedi, incastrata nel muro, una strana porta, sorvegliata da due animali in pietra. «Ma come, Principe, non conosci Porta Magica? - si scandalizzò il rasta - Guarda, Principe, guarda quei simboli scolpiti sulla porta. Non ti ricordano niente?».
Erano simboli esoterici ed alchemici e con essi era formata una specie di rebus, impossibile da decifrare per chi non conosca il significato e le allusioni di quei segni incisi. «La formula» bisbigliò Marco e si voltò verso il rasta che, nel frattempo, si era sbucciato un triangolino di pelle del torace e mostrava con compiacimento una candida costola. «Tu sei Thomas, il Guardiano...» lo riconobbe Marco. «Finalmente, Principe! - gioì il morto vivente - Sei fuori allenamento? Un tempo mi avresti riconosciuto a chilometri!». «Quando finirà, Thomas? Quando?» quasi urlò Marco svegliando un polacco un po'più sobrio degli altri che, aperti distrattamente gli occhi, li vide e cominciò, sudando freddo, a recitare trenta Ave Maria per la Madonna di Czestochowa. Soddisfatto, con accuratezza certosina, il rasta cominciò a risistemarsi il torace guardato in silenzio da Marco che, terminata la cosmesi, mormorò «Sta per venire l'alba. Devo rientrare.».
«Ancora hai paura della luce, Principe della notte? - lo prese in giro il rasta. E, mentre Marco si allontanava - Hai notato, Principe? Da qualche anno si vedono sempre meno pipistrelli in giro, ma di morti, invece, ce ne sono sempre di più! Principe: ti devi rinnovare!».
Rientrato nell'appartamento e chiuse le imposte, Marco si sdraiò sul suo duro letto. Alle orecchie aveva ancora il walkman con gli Ozric Tentacles. Uno dei dischi più vari che abbiano inciso: non c'è più quella predominanza di ritmi reggae degli inizi. Un disco che alterna pezzi più marcatamente rock ad altri più ipnotici ad altri (comunque presenti) su base reggae. Il più eclettico, quindi, anche se il loro stile è ormai inconfondibile e comincia già ad avere epigoni non sempre all'altezza. Ogni volta che Marco ascoltava gli Ozric cadeva in una sorta di trance. Accadde così anche quel mattino. Si addormentò con la loro musica, fino all'esaurimento delle pile e, quella volta, riaffiorarono ricordi che sperava dimenticati per sempre. Sognava di essere rinchiuso in una gabbia e di tentare disperatamente, e inutilmente, di sforzarne le sbarre. Ricordava ancora il luogo di prigionia, era la segreta di un vecchio castello (ma questo lo capì molto dopo) illuminata perennemante da sfolgoranti torce appese al muro. E rivide il volto del carceriere, quando si avvicinò alla gabbia per osservarlo. Effettivamente, negli ultimi secoli aveva fatto sonni più tranquilli.
E mentre Marco si rigirava nel letto senza posa né pace, il campanello dei Carmelitani suonò ripetutamente. Era quasi mezzogiorno, ormai, e si affacciò un antico frate spagnolo cosparso di rughe. «Cosa c'è fratello?» chiese all'esagitato che gli stava di fronte.
Le pile si erano già esaurite da tempo, ma Marco continuava a rivivere quei momenti nel castello. Ricordava i grugniti che provenivano dalle gabbie accanto alla sua: molto dopo capì che erano di alcuni lupi catturati qualche mese prima. E poi ricordava un'ombra nella cella accanto: un cadavere, disteso nell'oscurità. E anche lui gemeva e si lamentava, cosa insolita, in genere, per un cadavere. Ma anche di questo capì il significato molto dopo, quando ormai era tropo tardi.
«Mio caro fratello. - continuò mansueto e stupito il frate - Anche se c'è crisi di vocazioni non è nostro costume accettare nel nostro Ordine i primi venuti...». «Ma padre!». «Lo so, lo so. Ho capito che sei polacco e cattolico da dieci generazioni (almeno) ma, cerca di capire: non possiamo...». «Ma padre, io avere visto! Avere visto demonio!».


CAPITOLO III

Erano quasi le dieci di un'afosa notte d'estate e tutto sudava: gli esseri umani, i cani slinguazzanti, gli alberi che sputavano resina e l'asfalto molliccio che trasudava bitume. Inoltre, sudavano anche i vampiri.
Marco Principe, infatti, sudava. Dopo aver vagato per le vie di Roma alla vana ricerca di refrigerio, decise di fare una capitina al Centro Sociale, l'unico locale decente che aprisse la notte. I vampiri, come si sa, amano la notte e Marco Principe, in particolare, amava anche il gin ghiacciato. Tra l'altro, sperava di trascorrere qualche ora rilassante, dimentico delle angosce che l'avevano assillato per tutto il giorno. Errore.
Quella sera, infatti, si teneva riunione legale. La situazione era classica: quella fabbrica di vetro che dopo trent'anni di abbandono erano riusciti finalmente ad occupare e a cui avevano ridato un minimo di vita, proprio il giorno successivo all'ocupazione era stata venduta ad un privato che, ovviamente, aveva reclamato i suoi diritti legali. Di conseguenza, quella sera, il clima era degno di Alamo, Masada o le Termopili. «Fino alla morte! - Carmelo batteva paonazzo il pugno sul bancone - Resisteremo in questo posto fino alla morte!». «Grande, ragazzo!» lo abbracciò il rasta (il quale, detto per inciso, essendo un morto vivente non aveva molto da perdere). C'era pure l'asceta dei Centri Sociali, quella sera. Un reduce, l'ultimo hippy e figlio dei fiori, che, resistito impavido alle trasformazioni, si aggirava per i vari centri Sociali, si appollaiava gambe incrociate su qualche sgabello e cominciava a dire peste e corna del Sistema. «Un altro gin!» tuonò Carmelo con lo stesso cipiglio con cui Leonida chiese la spada prima dell'ultimo scontro con i Persiani.
Nella stanza accanto, nel frattempo, ci si passava il codice penale di mano in mano, compulsandolo come fosse il codice Hammurabi in versione originale. «Cioè - tentò di argomentare Andrea - qui ce sta scritto che noi stamo a cospira'». «Maddài». «Te giuro, sta qua...». E, dopo qualche minuto di attento silenzio «Cioè, ma voi ce lo sapete che è l'usucapione?».
«Morirò qua. Ho deciso!» proclamò Carmelo. «E'una bella morte - annuì l'asceta - Una protesta contro il Sistema». «Se non mi fanno fare qui il concerto degli Ozric giuro che voglio morire». «E'giusto» sentenziò il rasta, che sotto sotto sperava di veder incrementare il numero dei colleghi. «Invece no» lo interruppe Piero. Piero era il metallaro ufficiale del Centro Sociale. Indossava solo magliette degli Iron Maiden o dei Carcass o dei Metallica. In questo era molto laico: purché avessero in bell'evidenza qualche scheletro, qualche mannaia e, soprattutto, molto sangue, andava bene qualunque gruppo. Per una serie di varie ragioni i suoi genitori erano convinti che fosse un teppista degenerato e, sprofondandosi in critiche nei confronti del sistema scolastico, ne disconoscevano la paternità. D'altro canto, la professoressa di lettere, pur convinta che Piero fosse in effetti un teppista degenerato, insisteva sovente sulla crisi della famiglia quale principale problema sociale. (Sia i genitori che la professoressa, comunque, avevano votato per Berlusconi). In questa crisi generalizzata di riferimenti, Tommaso, il rasta, si era considerava il suo padre spirituale. «E perché no?» chiese Carmelo a Piero con gli occhi iniettati di sangue.
«A me me piace er metallo, er grinde. Cioè. Ma nun solo, pure le cose classiche...». «Chopin?» domandò perplesso il rasta. «No, cioè, dico i Sabbath, i Led Zeppelin, quelle cose vecchie là». «Mi sembrava..». «No cioè, pure le cose di quell'etichetta, la Hellhound...». «La che?» «La Hellhound, quella che c'ha gruppi come i Saint Vitus, i Count Raven. Cioè quelli che se rifanno a li Black Sabbath. Cioè, pure gli Year Zero.» «Chi?». «Cioè, gli Year Zero: so'er mejo che è uscito per metallo da quarche tempo in qua. Cioè, tu ce senti che ce stanno li Sabbath, ma questi nun se limitano a fa'l'imitatori, questi ce mettono qarcosa de nuovo. Cioè, so'pure un po'acidi. Fichissimi...». «Ma vanno contro il Sistema?» chiese preoccupato l'asceta.
Frattanto, molto, ma molto più a Nord, diciamo a Francoforte, Wolfgang stava rientrando a casa dove l'aspettava l'Oro del Reno di Wagner. Era quadrato, Wolfgang: quadrata era la mascella, a spigoli era la sua testa, con i capelli biondi tagliati a spazzola, una piramide tronca, poi, era il suo torace che culminava in dritte spalle da nuotatore. Aveva lo sguardo di un azzurro ghiaccio, ma non era cattivo, in fondo: amava molto i bambini (soprattutto quelli biondini) e i cani (e qui era molto più aperto: gli piacevano quasi tutti). Stava ormai entrando nel garage quando, per la prima volta da tanto tempo, avvertì una strana sensazione che credeva dimenticata da decenni. Per un attimo si stupì, ma poi sorrise. Arrivò a casa e si sedette in poltrona con Wagner. Rifletté a lungo, quella sera.
«Un gin anche per me - chiese Marco - Ghiacciato, se è possibile». «Pronto!» esultò il rasta porgendogli un pessimo gin. Marco afferò il bicchiere di plastica e fece per allontanarsi quando «Principe!» lo richiamò il rasta. «Cosa vuoi?». «Principe, non è un po'troppo trasparente, per te? Magari ci vuoi aggiungere un po'di salsa di pomodoro? Rossa, eh?». E mentre Marco se ne andava verso una panca libera «Dio! Come sono spiritoso!» comunicava il rasta agli ignari presenti.
(Nella stanza accanto) «Bè, ma se po'organizza''na grossa iniziativa, coinvolge 'n sacco de gente...». «Chi?». «Ma cioè, ce stanno 'n sacco d'associazzioni...». «Quali?». «Bè, cioè, se po'fa'quarcosa...». «Cosa?». «Cioè, insomma, se ce sgomberano ce sto 'n sacco male». (Nella stanza del bar). «Non c'è niente da fare - sbraitava Carmelo - C'è solo da restare qui fino alla fine. Resistenza! («Contro il Sistema...») Esatto, come quei soldati italiani di Cefalù («Non era Cefalonia?») Quello che era!. Resistenza. (un altro gin, grazie) Ora e sempre. Fino alla morte!». «Ma anche oltre!» lo incoraggiò il rasta.
Wolfgang, dopo molte ore di concentrazione e meditazione, era certo che quelle sensazioni venissero dal Meridione d'Europa. Dopo molti tentativi riuscì a focalizzare il punto esatto. Sorridendo, si alzò, chiamò la Lufthansa e chiese gli orari dei voli per Roma. Poi, soddisfatto, si risedette in poltrona. Le cose ricominciavano ad andare nel modo che a lui piaceva.
Seduto sulla panca, Marco guardava il rasta che si dimenava dietro il bancone ballando Bob Marley. Stentava a riconoscere in lui Thomas, il guardiano, il compagno di prigionia di tanti secoli prima, nel castello del Duca. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si erano visti? Doveva essere all'epoca della ribellione. Quale destino aveva fatto sì che le loro strade dovessero ricongiungersi in quel posto, a distanza di tanti anni? Cosa stava succedendo? «Stai pensando allo sgombero, vero?» gli chiese Debora che, nel frattempo s'era seduta vicino a lui. «Certamente». «Sei preoccupato, vero?». «Un po'...». «Hai paura di finire in prigione?». E a Marco ritornò l'immagine del sotterraneo del Duca. Era chiuso in una gabbia, e ci rimase per anni, forse per decenni, mentre il Duca studiava il modo di dargli una vita umana immortale. Ma non sapeva quanto durò, con esattezza, anche perché a quell'epoca lui era ancora un pipistrello. «Non mi piace la prigione» sospirò.
«Ma il metallo è morto» sosteneva Carmelo. «Lo dici te. - conferenziò Piero con sufficienza - Invece è 'n periodo bono per metallo. Stanno a usci''n sacco de dischi... Come sti Year Zero che te stavo a di'. Cioè, certo, te deve piace'l'harde rock, le cose dure. Ma se te piaciono, e te voi senti'quarcosa che funziona, allora sentiteli. C'hanno quer quarcosa de strano, cioè, so'fichi. Cioè, se c'organizzi 'n concerto capace che lo difendo anch'io sto posto». «Bravo fratello! - il rasta batté le mani con entusiasmo - Ma non ti preoccupare, non saremo soli. Domani verranno dei compagni olandesi (attimo di pausa studiata) E poi c'è lui!» concluse il rasta indicando Marco Principe che, seduto sulla panca, scambiava muti dialoghi con Debora e il gin. «Lui? - chiese incredulo Carmelo - Ma mi sembra un tipo calmo, una persona tranquilla...». «Sembra - sorrise il rasta - ma quando vuole si scatena - abbassò la voce - e diventa un mostro assetato di sangue!». «Quello là?» domandò Carmelo trasecolato. «Lui!». assicurò il rasta. «Fichissimo» commentò Piero ammirato.


CAPITOLO IV

Cominciava a farsi tardi, ormai, e Carmelo non era del tutto convinto. «Io penso - sosteneva - che si potrebbe organizzare un concerto con qualche gruppo italiano». «Rap?» urlò terrorizzato Piero, il metallaro. «Non solo, ci sono anche gruppi italiani che non fanno rap... Che so, i Kenze Neke, per esempio». «Ma che, so'italiani?». «Sì certo... cioè, in realtà sono sardi...».
Nella stanza accanto, la riunione legale cominciava a mostrare qualche sintomo di cedimento. Anna, infatti, poggiata la testa sulle spalle di Giovanni, incominciava a sonnecchiare. Tipi curiosi quei due: sembrava che stessero insieme fin dalla nascita. Le loro famiglie si conoscevano da sempre, venivano entrambe dallo stesso paese e loro due, in particolare, si erano messi insieme dall'età della ragione. Insieme venivano e andavano, insieme studiavano e occupavano il centro sociale, insieme, eventualmente, sarebbero stati sgomberati. Anna, però, si addormentava sempre un po'prima di Giovanni. In ogni caso, a questo punto, non si perdeva più molto: dopo ore di eterne discussioni, infatti, si era giunti alla conclusione che l'intero codice penale congiurava contro coloro che (in numero di cinque o più) avevano avuto la brillante idea di occupare una topaia. Non c'era scampo, e l'eventuale ricorso di Andrea a concetti di Giustizia Superiore («Ma, cioè, noi famo 'n servizio sociale») nonché il richiamo al Comune Buon Senso («Cioè, ma se stamo qua a chi damo fastidio?») s'infrangeva regolarmente contro il Codice. «Giustizia borghese» fu la mozione unanime e «Giovanni, ho sonno» fu la goccia che fece terminare la riunione, perché ci si rese conto che, in effetti, stare in piedi tutta la notte non avrebbe mutato il Diritto Positivo ma, in compenso, avrebbe fiaccato le energie che erano richieste per affrontare una dura resistenza contro gli sgombratori.
Si rifece il solito (complesso) piano degli accompagnamenti notturni e furono individuati i soliti capri espiatori che avevano il privilegio (più o meno) di possedere una macchina. «Li Kenze Neke? - chiedeva Piero - Ma che musica fanno? Folk? Che so', come li Tazenda?». «Non esattamente - cercava di spiegare Carmelo con la mente ormai confusa da una mezza dozzina di gin - Cioè, questi cantano in sardo, ma suonano con uno stile progressivo, rock...». «Cioè?». «Cioè che?». «Cioè, come sonano?». «Bè, insomma... Ecco, in certi momenti ti sembra quasi di sentire i King Crimson che cantano in sardo, in effetti...». «Pure!». «Bè, non esageriamo: ci sono anche canzoni folk... In effetti ci sta dentro un po'di tutto... Però sono bravi, molto bravi. E poi c'è una tale confusione di stili, di suoni, ci trovi le canzoni che meno ti aspetteresti... Insomma, sono completamente imprevedibili. Quasi quasi organizzo un concerto...». «Ma in tutto questo casino che fanno c'è der metallo?». «Forse il metallo no, in effetti...». «Peccato...». «Ma sono contro il Sistema?» chiese preoccupato l'asceta. «Se è per questo sono contro tutto». «Allora sono dei compagni - si rincuorò l'asceta - Sarebbe bello organizzare un concerto.». «Già, se non ci sgomberano». «Già». «Fratelli! - li rincuorò il rasta - Non ci sgombreranno!». «E tu chi sei? Mandrake?». «Di più, fratelli, di più». Carmelo controllò l'orologio e sentenziò che s'era fatto tardi. Molto, ma molto più a settentrione, Wolfgang si accingeva ad andare a dormire. L'aereo sarebbe partito il giorno dopo, in mattinata. Sarebbe arrivato a Roma il pomeriggio e, in capo ad un paio di giorni avrebbe potuto organizzare qualcosa. Sorrise, ma non era un sorriso aperto. Molti sostenevano che Wolfgang era un nazista, e alcuni credevano che fosse crudele. Ma non è vero: amava molto i bambini e i cani.
Lentamente le macchine stracariche si misero in moto e Marco, come al solito, si accingeva a ritornare a casa a piedi prima che arrivasse l'alba. Ma Tommaso, il rasta, lo trattenne per un braccio «Principe - gli disse - ti devo parlare». Per la prima volta era serio. Rimasti da soli, si sedettero davanti al bancone, al cospetto di ciò che era rimasto della bottiglia di gin. Dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio «Principe - gli chiese il rasta - tu cosa ci fai qui?». Marco scosse la testa «Non lo so Thomas... Per caso, o il destino... Non lo so». «Non importa, Principe, ormai ci sei. Non era prevista la tua presenza in questo gioco, ma ormai ci sei, e ci dovrai restare». «A far cosa, a difendere un Centro Sociale?». «Esatto, ma non un Centro qualsiasi: questo Centro, questo posto». «Ma perché, cosa ha di così importante?».
Il rasta si versò un altro bicchiere e ne bevve, con studiata lentezza, un paio di sorsi. «Principe - riprese - ti ricordi quando ci separammo?». (In quel momento, molto più a Settentrione, Wolfgang fu ridestato, a metà della notte da un rumore che nessun orecchio umano potrebbe udire. Ma lui, che del tutto umano non era, sentiva delle voci, lontano). «Certo, dopo la ribellione. Fu quando ti demmo l'Anello di Vita da conservare...». «Esatto, quell'anello che il Duca aveva usato per tenerci in suo potere...». Il rasta s'interruppe di colpo, protendendo il capo ad ascoltare suoni lontani: «Si è risvegliato - comunicò - e ci sente. Non posso continuare a parlare, ma tu resta qui nei prossimi giorni (anzi, nelle prossime notti).» «Ma non puoi dirmi qualcos'altro?». «No, ci ascolta, e presto sarà qui». Ripose la bottiglia in frigo e spense le luci «Buona notte, Principe - lo congedò - capirai nei prossimi giorni».
Il giorno dopo, a mezzogiorno, partì un aereo diretto a Roma e, a bordo c'era Wolfgang. Marco riposava nel suo letto, con le imposte ben chiuse per non far passare i raggi del sole. Fu un sonno agitato. Continuavano ad assalirlo i ricordi di molti secoli prima, quando, pipistrello, fu rinchiuso nelle segrete del Duca Bonifazio di Magonza. Non era solo: nelle gabbie e nelle celle accanto ruggivano e si lamentavano cadaveri, lupi e altri ancora. Era una segreta circolare, con le gabbie disposte in modo tale che, dal centro della sala, si potesse vederle tutte. E, al centro della sala, c'era lui, il Duca. Altri alchimisti, in quell'epoca, cercavano la pietra filosofale per creare l'oro, ma il Duca era di una pasta diversa. Lui aveva trovato l'immortalità e, con l'Anello e la Formula, cercava di dare vita umana a creature che non lo erano e crearsi un esercito di servitori. Questo prima della ribellione. Fu un massacro: fumo, sangue, morti. Ma ce n'erano tanti in quel periodo, in Germania. Ce ne furono per trent'anni, nel '500. Quella sera, lungo un muretto: «Cioè - diceva uno con i capelli tagliati corti e un giubbotto vagamente militare - a me le zecche me stanno sul cazzo». «Anche a me» confermavano con foga i presenti (con i capelli corti e i giubbotti anch'essi, più, qualcuno, con qualche svastichetta qua e là). «Cioè, ci stanno i negri con loro». «Già» confermavano. «Cioè, io non sono razzista, ma i negri mi stanno sul cazzo». «Anche a noi». «Cioè vengono (ma chi li chiama) e poi ci rubano il lavoro». «Giusto!». «E mio fratello è disoccupato da cinque anni». «Bastardi!». «Cioè, io non dico che si devono ammazzare, però prima pensiamo a noi, giusto?». «Giusto!». «E poi mi stanno sul cazzo pure gli ebrei». «Gli ebrei?». «Già, hanno un sacco di soldi». «Ah sì?». «De Benedetti è ebreo». «Chi?». «Quello dell'Olivetti». «Ah». «E non ha un sacco di soldi, quello?». «Certo». «Appunto».
Nel frattempo Marco, dopo un riposo molto poco riposante, rientrava al Centro Sociale. Era ripresa la discussione legale, e anche quella sul rock. Il rasta ondeggiava contento annunciando a tutti l'imminente venuta dei compagni olandesi e, non molto lontano, una BMW in affitto rallentò e si fermò vicino a quel gruppo di ragazzi con giubbotti d'ordinanza. Stavano valutando la necessità di difendere la nostra cultura. La macchina si avvicinò lentamente, si abbassò il finestrino e, dall'interno, un uomo dallo sguardo azzurro ghiaccio protese un braccio «Ragazzi - disse loro - avete un momento?».
E finalmente arrivarono i compagni olandesi. In cinque. Capelli lunghissimi, barbe folte, giubbotti di cuoio nero, pantaloni attillati (neri), scarponcini al polpaccio (neri). Distintivi di chiunque ovunque. Tatuaggi. Entrarono nel Centro Sociale e dissero «Ciao». Marco si avvicinò al rasta «Sono loro quelli che aspettavi?». «Esatto, Principe». Marco li squadrò a lungo «Non mi sembrano tipi particolari». «Aspetta, fratello, aspetta che arrivi la luna piena».


CAPITOLO V

Quando Marco entrò nel Centro Sociale, il giorno dopo, le attività erano in pieno fermento. La commissione legale, in una stanzetta appartata,dibatteva da tre giorni la questione ed era arrivata, in poco tempo, a sostenere la necessità di riformare il diritto borghese. Qualcuno si era già lanciato nel tracciare i primi tre o quattro articoli della nuova costituzione. Il rasta, bene in prossimità del bar e delle bottiglie, arringava il collettivo con trascinanti orazioni che, in fondo, ruotavano tutte sul dulce est pro patria mori. L'asceta annuiva in silenzio. Carmelo, invece, era dell'opinione che si dovesse passare subito all'azione. Appoggiato al bancone, bicchiere di gin poco distante, consultava con cura l'atlante De Agostini. «Guarda qua! Guarda qua!» gridò nell'oreccghio di Piero il metallaro mettendogli l'atlante sotto il naso. «Che è?» «Il Karnataka! Sta in India!». «E allora?». Ma Carmelo si era già sprofondato in ardite meditazioni. «Karnatakiani? - si chiedeva - O Karni? Magari Karnatakarosi? Chissa?...». «Ma ti senti bene?». «Dobbiamo organizzare una grande iniziativa in sostegno di questo popolo qua! - si ridestò Carmelo - Chiamare la stampa, darle pubblicità. Avvenimenti innanzitutto: figurati se quelli non si precipitano...». «Ma chi te l'ha detto che stanno male?». «Ma scherzi? Ma come fa a star bene un popolo che si chiama così?».
Ma chi, in silenzio si dava più da fare, erano i compagni olandesi. Arrivati la sera prima, armati di un computer portatile e di un vecchio cacciavite arrugginito, essi avevano: a) stabilito un allaccio telefonico di fortuna; b) collegato il computer a svariate banche dati (riuscendo a scaricare la bolletta alla locale succursale della Fiat); c) forzato otto sistemi di sicurezza; d) prenotato un posto comitiva per venti donne arabe più accompagnatore sul volo Miami Anchorage Rangoon; e) trasmesso all'Ansa la notizia della resurrezione di Bob Marley (dietro consiglio del rasta); f) smentito due ore dopo dicendo che la notizia era falsa e che, in realtà, era resuscitato Jim Morrison; g) smentito definitivamente tre ore dopo con la scritta Punx not dead Sid lives Fuck you; h) ordinato un servizio di porcellana per dodici. Il tutto, e altro ancora, con espressione impassibile: giusto ogni tanto si lasciavano sfuggire qualche grugnito. «Si sta avvicinando la luna piena?» chiese timoroso Marco, al rasta. «No, no, stanno parlando in olandese». «Ma è contro il Sistema tutto ciò?» si domandava l'asceta, vagamente sperduto.
«A Carme', nun pensi che sarebbe mejo organizza''n concerto?». «Yes - ronfò un olandese. Punk, please» e ritornò a stuprare banche dati. «Punk? - si chiese Carmelo - Non sarebbe una cattiva idea. Ma chi? I Fugazi? I DOA?» si alzò in piedi e si avvicinò a Maurizio, il cassiere. Era costui un analista finanziario laureato in economia politica e nessuno (lui meno di tutti) aveva capito cosa ci facesse là dentro. «Quanto abbiamo in cassa?» gli chiese Carmelo. «Vuoi una cifra esatta?». «Certo». «Niente». «E allora dovremo autofinanziarci - Carmelo si allontanò da Maurizio e riprese a meditare ad alta voce - Già, ma chi? Ci vorrebbe un gruppetto punk domestico...». «I Kina, forse?» propose Piero. «Ma hanno suonato due giorni fa... No, ci vorrebbe qualcun altro... Vediamo: hai detto Kina? Potremmo provare con gli Eversor: hanno appena fatto uscire un mini per la Blu Bus, l'etichetta dei Kina...». «Ma che, so'd'Aosta pure questi?». «No, no, sono di Gabicce (PS). Mica male, mica male. Punkettoni robustozzi, ben calibrati... Potebbero andare, perché no? In fondo il loro disco è una delle cose migliori punk uscite in Italia negli ultimi tempi. Perché no?..». «Ma che, cantano in italiano?» chiese Piero con una certa apprensione. «No, no, cantano in inglese..». «In inglese? - si scandalizzò l'asceta - Ma allora usano la lingua del Sistema Imperialista!». «Bè, è un inglese con accento pesarese...». «Ah, bene..». Ma tutti furono interrotti dal rumore della porta che si apriva. Comparve un poliziotto.
«Ecco il Sistema Repressivo» gli diede il benvenuto l'asceta. Gli olandesi cercarono, alla bell'e meglio, di nascondere il computer sotto il bancone. La riunione legale ebbe un attimo di sospensione. Il poliziotto si avvicinò risoluto al centro della sala. Guardò tutti in volto, ad uno ad uno («ecco: è fatta... la galera.. la galera... e adesso chi lo dice a mio padre? Anna, ce l'hai la carta d'identità?»), e disse «Ragazzi: i vicini si sono lamentati. Fate troppo casino, la notte...». «Noi? - s'inalberò Carmelo - Ma se mettiamo sempre a cinque gli ampli!». «Ragazzi, ci arrivano tre telefonate a notte...». «Ma chi? Chi?». Il poliziotto indicò una finestra del palazzo di fronte. «La vecchia? - urlò Andrea - Ma quella è una fascista». Il poliziotto allargò le braccia «E poi, ragazzi, voi state compiendo un'occupazione illegale...». «Noi?». Il poliziotto li guardò ancora a lungo, poi «Ma fate quel che volete - sbottò - Ma chi se ne frega...». Si tolse il berretto, si asciugò il sudore e si sedette al bancone, di fronte al rasta. «C'è qualcosa da bere?» chiese aprendo (educatamente) il portafoglio. «Gin tonic?». «Gin tonic».
Il poliziotto bevve due sorsi, e poi riappoggiò il bicchiere. (sospiro). Carmelo si avvicinò «Qualcosa non va?». L'agente bevve altri due sorsi. (sospiro). «Agente, qualche problema?». (sospiro). «Un altro gin tonic» chiese l'agente, ancora col portafoglio in mano. «Ma che fa? Pago io! Due gin tonic». Il poliziotto bevve un altro sorso «Niente, non va bene niente. ê tutto un casino... Lavoriamo come dannati («è l'estrazione del pluslavoro» tentò di argomentare, inascoltato, l'asceta). Oggi, per esempio... Pensavo di farmi una giornata tranquilla... » «E invece?». «Invece un casino: tre stupri, quattro rapine, sette borseggi, un pestaggio, e un tentato omicidio...». «E, ma insomma!». «...e volevo stare una giornata in pace... Capite, sono andato a letto tardi, volevo riposarmi... e invece niente...». «Ma, così? Senza preavviso?». «Niente, niente...». «Ma dovrebbero fare qualcosa! Avvisarvi, così vi organizzate, vi dividete il lavoro!». «Niente, niente... è tutto un casino...(sospiro) Un altro...».
In quel momento si aprì la porta e ne entrò un ometto basso e baffuto in giacchetta e cravattona. «Sono della SIAE - sogghignò malvagio - Sbaglio, o avete intenzione di organizzare un concerto degli Eversor?». «Noi? - trasecolò Carmelo - Ma se ne parlava, se ne discuteva... ». «Quando lo farete, io sarò qui. Buona notte.» e riuscì sullo stesso piede, scontrandosi con Felice, il tossico del quartiere, che entrava caracollando e chiedendo ad alta voce «Che, c'avete della robba?». Ma poi vide il poliziotto, fece un'ampia conversione a U, disse «Cioè» e uscì da dove era entrato. «Che casino, ragazzi...». «Ha detto che è andato a letto tardi - riprese Carmelo simulando non chalance - Forse faceva caldo?». (sospiro). «Un altro gin tonic» ordinò Carmelo mentre, tra sé e sé, si riprometteva di non guardare mai più quei film nei quali i poliziotti in servizio non bevono alcolici. Altri due sorsi. (sospiro - questa volta più prolungato, prossimo alla confidenza). «La mia ragazza...» buttò lì l'agente. «Ha lasciato la sua ragazza? Ma perché? Come si chiamava?». «Alessandra... (sospiro)... Lei ha lasciato me...». «No!». «Già...». Bevve altri due sorsi, sotto lo sguardo costernato di Carmelo. E quando anche il terzo bicchiere fu vuotato «Si è messa con un Carabiniere.» . Carmelo si nascose il volto tra le mani «Ma è tremendo!». Il poliziotto si alzò, con passo più malfermo di prima. Si rimise il berretto e, ormai all'uscita, si voltò un attimo. «Ragazzi - disse distaccato e lontano - il commissario è tosto: vuole sgomberarvi, uno di questi giorni. Perché non ve ne andate da voi? Dai, abbiamo già tanti casini... - ma poi, guardando lo sguardo duro e risoluto dei presenti, allargò le braccia - Ma fate quel che volete. Tanto, è tutto un casino...». Marco aveva assistito alla scena immobile sulla panca e, quando il poliziotto si fu allontanato, si avvicinò al rasta. «C'è modo di sapere chi è il Commissario?» domandò ingenuamente. Gli rispose un suono gutturale di un olandese che, dal computer, stava tirando fuori l'organigramma colmpleto del Commissariato con tanto di dati anagrafici, progressi di carriera e, soprattutto, indirizzi.


CAPITOLO VI

Il poliziotto era appena uscito dal Centro Sociale, minacciando futuri sgomberi, e l'atmosfera del collettivo anelava all'eroico. «Vogliono la guerra? - arringò Carmelo - L'avranno!». «Già, ma poi vincono loro» obiettò Andrea. «In queste cose l'importante è partecipare, non vincere» replicò Carmelo sussiegoso. Repente si sviluppò un dibattito, nel corso del quale, ignorato dalla foga dialettica, il rasta si avvicinò a Marco e, trascinandolo per una manica, lo portò in una stanzetta appartata. Reggeva in mano l'indirizzo del Commissario.
«Che dici? - sghignazzò il rasta sottovoce - Non sarebbe il caso di andarlo a trovare? Un momento solo, tanto per prendere qualche giorno di tempo....». «E come faremo ad entrare in casa sua?». «Ma dai, non dirmi che è un problema per te. D'estate tutti dormono con le finestre aperte, e un vampiro può benissimo...». Marco scosse la testa «Non più, Tommaso, non più...». (Nella stanza della riunione: «Non me ne frega niente della galera! - era Carmelo - E'bello morire qui! (un altro gin, grazie)»).«Ma come? Un tempo svolazzavi su tutta la Transilvania...». «Non più.». «Hai forse dimenticato come si fa? ê facilissimo - allargò le braccia e cominciò ad agitarle - basta fare così e pensare: cavolo io sì che sono un pipistrello...».
(«Compagni! ê meglio vivere un giorno da leoni che cent'anni da pecora!» - silenzio. Poi: «Guarda che lo diceva Mussolini... ». «Non era Garibaldi?». «No». «O porca miseria... Bè, forse l'ha pensata quand'era ancora socialista.») «Non basta.» riprese Marco sottovoce. «No? che cos'altro ti serve?». «Sangue». «Sei diventato astemio?». Marco annuì: «ê da cafoni, Tommaso...»
Nell'altra stanza, intanto, il dibattito verteva sull'annoso dilemma resistenza non violenta versus resistenza come va la va. Carmelo propendeva per questa seconda ipotesi. «Da qui ci dovranno schiodare a cannonate! - brandì la bottiglia di gin e si accorse, con sommo disappunto, che era vuota - Capito? - concluse sbattendo la bottiglia sul tavolo - O cavolo...». La bottiglia, frantumandosi sul tavolo s'era schiantata in mille pezzi e una buona parte di questi si era affezionata alla mano di Carmelo. «Cielo! - gemette Anna - Carmelo sanguina!». Il rasta sorrise.
«All'ospedale! Chi ha una macchina? Presto!». I possessori di macchine, già vedendosi una tappezzeria splatter, facevano finta di cercare qualcosa per terra, quand'ecco che, tranquillizzante, entrò Tommaso. «Ragazzi, che succede?». «Sangue! Muore! Ospedale!». Il rasta si avvicinò al dissanguando, guardò la ferita (diciamocelo: Carmelo faceva un po'scena) «Ma no, ma no! - sorrise da uomo (?) di mondo - Bisogna solo, come dire?, succhiare un po'il sangue, disinfettare e tutto andrà a posto.». «Succhiare il sangue di Carmelo? Ma è pericoloso!». «Non preoccupatevi, per fortuna c'è qui Marco - e, stendendo il braccio, lo introdusse quasi fosse Wanda Osiris - ê un infermiere specializzato. In questo, poi...». Marco si avvicinò barcollando. Da anni, da decenni ormai, si asteneva dal sangue. Fiotti di ricordi gli invasero la mente, spazi aperti, il caldo e vivace sapore dell'A positivo. (Un sangue da pasto, in effetti, leggero e fresco: ideale per l'estate. Lo zero, invece, andava bevuto a piccoli sorsi, nelle sere d'inverno). Aveva gli occhi sbarrati: per troppo tempo aveva cercato di resistere, di farsi forza, di combattere la maledizione che il Duca gli aveva imposto tanti secoli prima, in quelle segrete. Ma ora, con Carmelo che tendeva spontaneamente il braccio e tutti attorno che facevano corona trepidi, e gli olandesi che ridacchiavano... Accostò le labbra.
«Ti vuoi dare una calmata?» supplicò Carmelo dopo molti minuti. A malincuore Marco si staccò: ma ora sentiva il calore scorrergli dentro, si sentiva in grado di affrontare chiunque. «Come stai?» chiese partecipe il rasta a Carmelo. «Un po'deboluccio» rispose prima di schiantarsi su una panca. «Musica - suggerì Andrea - bisogna tirarlo su con la musica!». «Cosa avete?» gemette Carmelo. L'olandese porse una cassetta. «Chi sono?». «Qui c'è scritto 700 Miles...» lo tranquillizzò Andrea mentre infilava il nastro nel registratore.
E ne partì un rock con i fiocchi. Né punk né grunge né metal. Questo era un signor rock di lontane (eppur evidenti) influenze blues. Ma non pensate che sia una cosa classica, un Allman Brothers di quelli: nossignore: il loro rock è molto moderno e fuori dagli schemi. Alterna potenza a ballate, evita le distorsioni e i riff facili facili che ti fanno dire ma dove l'ho già sentito? e ti vengono in mente ventotto dischi differenti. Tenta di muoversi in un terreno strabattuto da tutti, come il rock, cercando, con gran dignità e bravura, di reinterpretare e riadattare. E cosa si può pretendere di più da un gruppo?
Frattanto, mentre Carmelo lentamente riacquistava colorito, da una porticina laterale, di soppiatto, Marco e Tommaso uscirono nella notte. La casa del Commissario non era molto lontana e, dopo qualche minuto erano già arrivati. Un morto vivente, in genere non ha eccessivi problemi nell'andare da un punto x preso a caso ad un altro y, mentre un vampiro, sazio di sangue (seppure un po ebbro, visto che sapeva più di gin che di altro) non doveva far altro che pensare, intensamente, di essere un pipistrello. Marco si concentrò e dopo pochi attimi l'aria della notte gli accarezzò il volto topesco. Come sperato, tra l'altro, il Commissario dormiva con la finestra aperta, e stava quasi per andare a letto. Era giovedì. Il Commissario era un moderato: né di destra né di sinistra. Gli piaceva leggere, di tanto in tanto, un libro, ma non troppo impegnato e neppure, ovviamente, troppo leggero. Non disdegnava il calcio, ma tifava con parsimonia, ascoltava Vivaldi e leggeva il Corriere della Sera perché, non essendo né carne né pesce come lui, era quello che meglio gli si confaceva. «è obiettivo» diceva. Era sposato, con una signora che inalberava i bigodini quando andava a dormire e la sera leggeva Alberoni. Faceva l'amore due volte la settimana: il giovedì (un quarto d'ora, in media: il giorno dopo bisognava lavorare) e il sabato (ventidue minuti: l'indomani c'era solo la Messa). E anche in quei casi non si smentiva: né a destra né a sinistra, ma al centro: moderato con brio.
«Cara, è giovedì» disse il Commissario entrando in camera. «Sei sicuro?». «Sì, cara». «Di già?» sospirò la Commissaria. «Certo cara» la rassicurò il Commissario indicando il calendario. Dopodiché si avvicinò alla sedia e cominciò con cura a levarsi la cravatta, la canottiera, i pantaloni (badando alla piega) e persino le mutande, quando «Che orrore!» strillò la bigodinuta.
«Cosa c'è, cara? Una macchia nei pantaloni?». Ma Madame, con lo strozzo in gola, indicava un qualcosa alle spalle del marito. Il Commissario si voltò e si trovò di fronte Marco e Tommaso. «Oh Cielo», disse, molto fiacco, pur essendo giovedì e nudo dalla cintola in giù.
Superato il primo attimo di imbarazzo, Tommaso si avvicinò ai coniugi. Si levò la giacca (gli piaceva far scena), mostrò il torace da cui uscivano biancheggiando le costole e si sedette sul letto: «Veda, Commissario - attaccò - ci ho pensato parecchio, e sono arrivato alla conclusione che non è il caso di sgomberare quel Centro Sociale...». «Aiuto...» gridò soffocata la signora guardandolo in viso. Tommaso si voltò «Qualcosa non va? Il mio occhio forse?». Con la mano si cavò l'occhio e, lo esaminò ben bene. Poi lo porse, colante pus, alla Commissaria «Mi sembra che sia a posto... Vuol controllare lei?» e glielo appoggiò sul grembo, con la pupilla rivolta verso di lei. La signora svenne, lasciando cadere per terra il libro di Alberoni.
Frattanto Marco, dopo aver svolazzato allegro e brillo, s'insediò sulla (rada) chioma del commissario e, chinando il collo, lo guardava dall'alto in basso con i suoi occhiettini, e faceva bella mostra dei suoi dentini. «Veda, Commissario - riprese Tommaso - Noi non crediamo proprio che sia il caso di sgomberarlo. - e poi, riprendendosi il suo occhio - ê stato un piacere, Commissario... Nel caso ci rivedremo presto - rivolgendosi a Marco - Hai fame, vero? Lo so, lo so, ma stasera è meglio che andiamo a mangiare da un'altra parte. Buona Notte, Commissario, e ossequi alla Signora».
Carmelo stava riprendendo colorito e vita: avevano, infatti trovato un'altra bottiglia di gin. «Beviamo! - ripeteva sollevando la bottiglia - Beviamo, perché questa è l'ultima sera che passiamo qui». «Tu dici?» domandò Tommaso rientrando nella stanza in compagnia di Marco.


CAPITOLO VII

Passato il primo momento di attonito stupore «Sei sicuro» domandò Carmelo incredulo. «Sicurissimo» confermò Tommaso, il rasta. «Cioè, sei proprio sicuro che domani la polizia non ci sgombera?». «Certamente». Carmelo osservò a lungo il bicchiere ancora mezzo pieno di gin tonic. «Ma allora - si chiese perplesso - che mi sono sbronzato a fare?». «Si potrebbe sempre far festa» suggerì Piero il metallaro. «Esatto!» confermò Carmelo spiaccicando una pacca sulla schiena di Piero. «Esatto! Un altro gin tonic, grazie... ». «Anche a me!» rincarò Piero. Tommaso lo guardò paterno «Un altro?» gli chiese sussiegoso. «ê solo il sesto...».
Il resto del colletivo cominciava a manifestare i primi segni di cedimento. Anna, oppressa dalla stanchezza aveva adattato due panche a scomodo lettino e iniziava il suo meritato riposo. La commissione legale, dopo aver valutato gli approfonditi studi e i pareri raccolti da un avvocato compagno era giunta alla conclusione che sì, in effetti, lì stavano violando la legge. E non c'erano attenuanti che tenessero. Dopo altre tre ore di accese discussioni era comunque prevalsa la tesi del «e allora?». Marco, esausto e sfiancato dai continui volteggiamenti della serata, si era sistemato su una sedia e cominciava ad infilarsi le cuffiette del walkman. Aveva lì il nastro dei Medecine Ball, un gruppo psichedelico. (Cosa non nuova per Marco, del resto). Come se non bastasse, il disco dei Medicine Ball era decisamente buono: non si trattava di un esordio e confermava in pieno quanto di buono aveva lasciato intendere il gruppo nei dischi precedenti.
Non molto lontano dal Centro Sociale, invece, qualcuno stava cercando di dare un senso alla serata. «Me so'rotto» disse uno opportunamente rasato e provvisto di scintillanti gadgets quali svastichette e croci celtiche. «Nun ce sta gnente da fa'». «Che dite, e se ce l'apriremmo noi un Centro Sociale?». Fu guardato da occhi gelidi e schifati. «No, gnente, era così pe'dire» si giustificò stringendosi nelle spalle. «A proposito di Centro Sociale - riprese il primo - si potrebbe andare a dare una lezione a quei pelosi là» e sputò sdegnato in direzione del Centro. «Fichissimo. Poi ce stanno un sacco de negri...». «'Na marea!» confermò un altro. «Che ce stanno pure l'ebbrei?». «Ma, veramente... com'è che se riconoscono l'ebbrei?». Uno si portò la mano alla faccia «C'hanno 'n nasone...». «Bè, nun so... però ce sta quarcuno cor naso strano, mo'che ce penso». «Sarà ebbreo de sicuro». «Scusate - s'intromise uno - ma a noi che c'hanno fatto gli ebrei?». «Ma come! Nun lo senti er teleggiornale? Ce stanno a sdruma'a lira, ecco che ce stanno a fa'!». «Giusto!» fu confermato in coro. «E poi ce stanno comunque 'na marea de negri». «Esatto». «E noi dovemo reagi', dovemo protegge 'a curtura nostra, quella de Dante e de quell'artro che nun me viene... ». «Esatto». «Armeno, così diceva oggi quer tizio sul BMW... ».
«Bè, buona notte» cominciò timidamente qualcuno all'interno del Centro. La macchina dei preparativi, lentamente, si stava mettendo in movimento. Marco, sulla panca, ascoltava i Medicine Ball e, a parte Tommaso, che di tanto in tanto gli lanciava qualche occhiata furtiva, nessuno si prendeva cura di lui. «Dev'essere un disco eccezionale» sussurrò Piero, stupito di tanta concentrazione. In effetti, come detto, si trattava di un buon disco. Molto robusto, e, se vogliamo tradizionale. Non era la psichedelia acida e tendente al trance dei gruppi inglesi emuli e amici degli Ozric, ma un sanissimo disco di rock che porta in sé echi e citazioni di tutta la grande psichedelia degli anni (e decenni) passati. Comunque, pur non volendo sminuire le qualità del disco, sarà opportuno precisare che Marco in quel momento era perso nei suoi ricordi senza fine. Pensava, in particolare ad un altro sgombero, avvenuto tanto tempo prima.
Si trovava, allora, nelle segrete del castello del duca Bonifazio di Magonza. Da molto ormai, la sua natura era irrimediabilmente mutata. I giorni in cui, semplice e ignaro pipistrello, volteggiava per le campagne erano passati per sempre. A poco a poco il duca, pozione dopo pozione e formula dopo formula, era riuscito a trasformarlo. E non solo lui: anche il cadavere che giaceva nella cella di fronte alla sua si era rianimato. Marco aprì gli occhi e guardò Tommaso: per quanto fosse abituato alle sue trasformazioni, ancora non riusciva a credere che quel rasta con le treccine fosse quel contadino trovato in un fosso e che, insepolto, fu portato nelle segrete del castello. Che cosa voleva da loro, con precisione il duca? Spesso, nelle segrete parlva del suo esercito indistruttibile e invincibile e quelli erano anni di guerre continue. E poi un giorno, quando ormai tutti gli animali e gli esseri del castello avevano ripreso nuova vita, ecco quello strepito, quel battere alla porta, quelle urla inferocite e disumane...
«Ma che, è grind?» chiese speranzoso Piero toccandolo sulla spalla. Mareco si risvegliò dai suoi sogni e cominciò a massaggiarsi la testa bofonchiando «No, no, ci manca solo quello...». Si guardò attorno: ormai il Collettivo era in smobilitazione e, precedendo tutti, come al solito, Giovanni e Anna uscirono nella notte afosa e immobile.
Anna, quella sera, era ormai arrivata allo stremo. Camminava ondeggiando, appoggiandosi a Giovanni ed alternando passi a sbadigli. Nel mentre cercava di ricordargli che la domenica successiva sarebbe dovuto andare a pranzo a casa sua: c'erano i genitori, e la pasta fatta in casa. «Va bene, va bene» assentiva Giovanni rassegnato. Nel Centro Sociale i piani degli accompagnamenti erano ormai delineati, si erano già formati gli equipaggi e tracciati gli itinerari, quando Tommaso si fermò nel mezzo di un gin (liscio), quasi volesse annusare l'aria. Ripose il bicchiere e fece un ceno ai quattro compagni olandesi.
Mancavano ormai pochi metri alla macchina. Anna ormai, per la stanchezza, delirava di ragù e s'era aggrappata con entrambe le mani alle spalle di Giovanni. Si avvicinarono barcollando alla macchina e mentre Giovanni tirava fuori le chiavi «Cioè, pelosi?» domandò retorico un tipo sbucato dall'ombra di un palazzo.
Dietro di lui avanzarono in una decina, stringendo chi catene, chi spranghe raccattate in uno degli innumerevoli cantieri abusivi che sorgevano come funghi. «Pelosi?» chiese ancora. Anna crollò a terra, esausta, ai piedi di Giovanni appoggiando la schiena alla macchina, ormai pronta a tutto. Il gruppo avanzava. (Tutti avevano visto i Guerrieri della Notte e si sentivano finalmente à la page). Frattanto, non visti, dal Centro Sociale si precipitarono fuori, per un'uscita secondaria, i quattro compagni olandesi. Buffo: guardavano a terra con tale intensità che si sarebbe potuto dire che seguivano una pista.
«Te la fai coi negri, vero?» chiese uno ad Anna con tono cattivissimo. Giovanni si fece avanti agitando minacciosamente le sue esili braccia. «Non provateci... - disse solo. E poi - Aiuto!». gridò con quanto fiato aveva. «Ma fateci dormire!» strillò uno dal terzo piano. «Basta! Sono le due di notte! - s'intromise un altro - Sempre quelli del Centro Sociale!» urlavano voci disparate dai vari piani. «Nun c'è probblema - li rassicurò un nazi - Nun ve disturberanno più», e avanzarono. Il primo del gruppo aveva già alzato la catena pronto a colpire quando, improvvisamente si fermò: aveva l'impressione d'aver scorto, dietro alla macchina, qualcosa di veramente eccessivo. Ma Giovanni, ignaro di ciò che passava alle sue spalle, si ringalluzzì e cominciò ad incalzare l'aggressore. «Hai paura vero?» gli rinfacciava mulinandogli i pugni sotto il mento. Ma il gruppo aveva altro a cui pensare: il sospetto era ormai certezza. Una bestia (anzi: quattro!) mai vista né conosciuta, ma con denti aguzzi come punteruoli, li guardava feroce, con l'aria di chi non aspetta che un loro movimento per sbranarli. Dapprima con un certo stile, ma poi via via sempre più rovinosamente, i nazi schizzarono via, il più lontano possibile. Giovanni, nel corso della fuga non si esimeva dal gridar loro «Avete paura, vero? Fatevi sotto se avete coraggio!». E tanto durò il suo rincorrerli (con le parole) che quando finalmente si girò altro non vide se non la sua macchina e Anna. Allora le si avvicinò, con aria dignitosamente maestosa e, prendendola per un braccio e risollevandola «Domenica le fettuccine le voglio al ragù» le disse con fiera compostezza.


CAPITOLO VIII

Quando ormai il sole era tramontato da alcune ore, e dopo qualche gin tonic bevuto di passaggio nei bar che incontrava per strada, finalmente Marco Principe arrivò nel Centro Sociale. Anna, al centro della salone arringava i presenti mentre Giovanni, visibilmente soddisfatto, faceva mostra di noncuranza appoggiandosi svogliatamente alla parete. Appena lo vide entrare «Marco! - lo assalì Anna - Ma tu non sai cos'è successo!». «Cosa?». «Giovanni!» e qui, con orgoglio lo indicò all'attenzione generale. «Aridaje» commentò Piero. «Silenzio tu: Marco ancora non lo sa». «Ma che cosa?». «Giovanni! I nazi ci hanno assalito, ieri sera! Almeno trenta! («Ma se fino a mezz'ora fa erano una decina» obiettò qualcuno). Armati di spranghe e catene. Volevano violentarmi! («Ma non esagerare, Anna...»)». «E allora?». «Giovanni! li ha messi in fuga! Da solo! Li ha affrontati ( e qui Anna mulinava i pugni) e gli ha fatto una tale paura che quelli sono scappati».
Frattanto, in un garage poco lontano «Siete degli imbecilli!» tuonava un tipo distinto con vago accento teutonico. «Cioè..» tentava di giustificarsi il capetto dei nazi. «Niente cioè! Niente scuse! Voi siete un branco di fifoni. E basta!». «Ma, cioè, ma noi quelle bestie l'avemo viste sur serio...». «E allora? Vi spaventate per quattro cani randagi?». «Ma no, gliel'avemo detto che nun erano cani..». «Cos'erano? Leoni?». «Magari! No, è che ce parevano proprio dei lupi mannari...» farfugliò il capetto già paventando la sfuriata. Ma il tipo distinto si fece improvvisamente serio. «Lupi mannari, avete detto?».
Nel Centro Sociale, invece, i quattro compagni olandesi si guardavano sghignazzando di soppiatto. Marco, ormai provato da alcuni minuti di veementi cronache da parte di Anna, tentò di divincolarsi con un indifferente «Ma guarda» e si avvicinò al bancone ordinando un gin tonic. «Ma come 'ma guarda'? - lo inseguì Anna scandalizzata - E tutto il resto?». «Il resto?». Carmelo scuoteva la testa affranto «Non se ne può più - mugolava - non se ne può più... ». «Perché, è successo qualcos'altro?» domandò Marco ingenuamente. «Ma come? I dettagli, i particolari! Quello che ti ho fatto era solo un riassunto: adesso inizia il racconto». «Di', Marco - chiese Carmelo nel tentativo di cambiare discorso - Ma tu le cuffiette le porti sempre?».
Marco si portò le mani alle orecchie mormorando «Oh scusa» e, mentre piegava il filo del walkman, «ê un bel disco?» incalzò Carmelo, nella speranza di sottrarre ossigeno ad Anna. «Non male, non male» assentì Marco. «Che è metallo?» s'intromise speranzoso Piero. Marco scosse la testa «No, non direi proprio. Conoscete i Jane's Addiction?». «Mitici!» s'infervorò Carmelo. «Ecco, in questi Deconstruction suonano due membri dei Jane's Addiction...». «Ma scusa, ma non c'erano già i Porno for Pyros?». «No... O meglio: quello era il gruppo di Perry Farrel, il cantante dei Jane's Addiction, mentre nei Deconstruction suonano il bassista e il chitarrista (o meglio: quest'ultimo suonava, visto che ora è passato ai Red Hot Chili Peppers)». «Vabbè, ma com'è questo disco?». In quel momento si aprì la porta e, barcollando entrò Felice, il tossico. «Che c'avete della robba?». Anna gli corse incontro.
«Felice! Tu non sai quello che è successo». «Continua, continua» sussurrò rassegnato Carmelo. Marco scosse la testa «A esser sincero non regge il confronto con i Jane's Addiction, con nessun disco loro. Anche se in certi momenti ricorda la loro musica, quando mischiano e fondono generi e ritmi differenti, quando vogliono essere il simbolo musicale di quel guazzabuglio che è Los Angeles, non arriva a quei livelli. In ogni caso, sempre ad esser sinceri, anche se meno originale, mi sembra migliore di quello dei Porno for Pyros». «Erano almeno una quarantina!» raccontava Anna ad un Felice non eccessivamente partecipe. «Non ne posso più - gemeva Carmelo - se non la fermiamo, quella arriva ad un battaglione di SS armate di bazooka». Visto il clima, Tommaso si alzò sul banco e, richiamata l'attenzione, chiamò tutti a sé. (Felice ne approfittò per scappare fuori dalla porta).
«Compagni - li arringò Tommaso con la voce delle gravi occasioni - ormai è chiaro: dobbiamo prepararci ad altri assalti». «Non c'è problema! - esclamò Anna - C'è qui Giovanni!». «Io?». «Ma certo! Tu mica hai paura di qualche naziskin!». «Ah no?». «E quindi - riprese paziente Tommaso - dobbiamo prepararci alla difesa». «Esatto - s'infervorò Carmelo - Costruiamo le barricate!». «Con calma... Per prima cosa dobbiamo esplorare a fondo questa fabbrica. E quando dico a fondo intendo che non ci deve essere un mattone, un buco, una fessura, niente, insomma, che non sappiamo dove porti. Chiaro?». «Scusa, ma a che serve?» s'informò, deluso, Carmelo. «Ma, è chiaro, insomma... Ecco, prima di difendere un posto lo dobbiamo conoscere, no? Dobbiamo sapere se offre nascondigli, ripari...». «Ma poi le costruiamo le barricate?». «Ma certo. Poi».
E fu così che, diviso in quattro squadre, il collettivo partì alla sistematica esplorazione. E dopo tre ore, stanchi e annoiati di controllare mattoni cedenti e picchiettare alla ricerca di vuoti, finalmente gli occupanti decisero di riprendere la strada di casa. Come sempre Marco ritornava a piedi, ma quella sera era in compagnia di Tommaso. Camminarono a lungo in silenzio, con lo sguardo a terra, vagamente preoccupati e assorti. Dopo qualche tempo arrivarono all'Esquilino e, finalmente, «Allora - domandò Marco - mi puoi dire una buona volta cosa succede?». Continuando a camminare, ma preparandosi ad un lungo discorso «Ti ricordi - cominciò Tommaso - di quando vennero a conquistare il castello? - Marco annuì - Di quando penetrarono nelle segrete e si trovarono di fronte a noi, un vampiro, lupi mannari, un morto vivente e tutti gli altri?». «Certo. Noi approfittammo della confusione e scappammo dopo aver rubato l'Anello di Vita al Duca Bonifazio. Poi fuggimmo in campagna e ti consegnammo l'anello, col patto di non rivederci mai più...».
«Esatto: perché se ci fossimo incontrati avremmo sprigionato tanta energia da destare l'attenzione del Duca...». «Ricordo, e ricordo anche che giurammo di evitare che l'Anello ricadesse nelle sue mani, per impedire che lo utilizzasse per ridare vita eterna ad altri... animali, o cadaveri. Come noi...». «Esatto anche questo». «Tommaso - chiese finalmente Marco - l'anello l'hai ancora tu, vero?».
Erano finalmente arrivati a Piazza Dante. Tommaso si fermò guardandosi attorno e, dopo qualche attimo di silenzio mormorò «Fu qui che lo incontrai la prima volta». «Ma chi?». «Il Duca di Palombara. Era un alchimista pazzo che viveva lì (e indicò il lato verso Piazza Vittorio) in una villa enorme. Una notte mi presentai da lui e gli rivelai alcune formule, le stesse che fece poi incidere sulla Porta Magica. Gli proposi un patto: dato che in quel periodo sentivo che gli occhi del Duca stavano ricominciando a cercarmi, chiesi a Palombara di custodire lui l'anello, fino alla morte. E per essere più sicuro glielo saldai con un paio di formulette di mia conoscenza...». «E poi?». «E poi partii, lasciandolo nella convinzione che quelle formule servissero per fabbricare l'oro (e invece servivano per ridar vita ad un canguro. E visto che l'Australia non era stata ancora scoperta, andavo sul sicuro.) E andai nelle Antille...». «Antille?». «Sì. Hai mai sentito parlare del voodoo?.. Comunque, quando qualche tempo dopo ritornai, Palombara era morto da alcune settimane. Una notte, allora, mi infilai nel cimitero, trafugai la salma e in spalle, me la portai in campagna... ». «In spalle?» domandò Marco disgustato. «Per forza! Chi mi aiutava... E poi a me i cadaveri non fanno impressione...». «Dimenticavo». «Appunto. E quindi (se tu mi facessi finire!) lo seppellii in aperta campagna, lo salutai e ritornai nelle Antille. Ma poi rientrato ancora dopo qualche decennio, cosa vedo? Che la città si era ingrandita e che in quella campagna dove l'avevo seppellito stavano costruendo una fabbrica...». «Il Centro Sociale!». «Esatto. Capisci ora perché ci tengo a quel posto?». «Ma l'anello?». «Ancora non l'ho trovato. Ma è lì, sepolto da qualche parte».
E, mentre parlavano, non avevano prestato attenzione ad una macchina che risaliva, lentamente, Via Tasso. Era una Bmw. Arrivata a Piazza Dante si fermò, un finestrino, elettricamente, si abbassò e il Duca Bonifazio di Magonza sorrise a Marco e Tommaso. Poi, senza dir nulla ripartì sgommando.


CAPITOLO IX

In silenzio seguirono con lo sguardo la Bmw che, a tutta velocità imboccava Via Merulana dopo aver fatto il giro della piazza. «Era il Duca, vero?» domandò infine Marco. «Già» sbuffò semplicemente Tommaso. «Pensi che ci abbia ascoltati, mentre parlavamo?». «Da molti giorni, ormai, ci segue...». «Cosa possiamo fare, allora?». Tommaso, senza attendere altro s'era già incamminato, quasi a passo di corsa «Ritornare al Centro, a far la guardia» rispose dopo una ventina di metri.
Arrivarono al Centro dopo pochi minuti e trovarono tutto in ordine. Almeno, così si fa per dire: giacché, tra bicchieri rovesciati, sedie sparse in giro, compagni olandesi che russavano nel mezzo della Sala avvolti in sacchi a pelo e rifiuti vari, regnava il consueto caos. Ma, almeno, della presenza del Duca, sembrava non esserci traccia. Sedutisi per riprendere fiato «Dove pensi che possa nascondersi il cadavere di Palombara?» domandò infine Marco.
«Ovunque - rispose Tommaso ansimando - Potrebbe essere seppellito qui sotto - e batté col piede il pavimento - oppure di là, nel capannone». «Ma come fai a esserne così sicuro? E se quelli che costruirono la fabbrica avessero portato via le ossa? Al cimitero, per esempio...». «Non è possibile: prima di partire avevo recitato qualche formuletta. Non avrebbero mai potuto spostarlo, potevano solo costruirci sopra l'edificio.». «Ma allora dovremo buttar giù tutto!». «Se necessario sì». Si avvicinò un compagno olandese svegliato dal frastuono «Cosa succederà ora?» chiese nel suo italiano precario. «Non ne ho la minima idea» sbuffò Tommaso, mentre Marco, sottovoce mormorava «Io posso prevedere il domani, posso prevdere il mondo che verrà, udire il pandemonio...». «Da quando sei diventato un poeta nichilista?». «Non è roba mia: è l'ultimo disco dei Killing Joke». «I Killing Joke? Quelli di Wardance e Requiem?». «Esatto». «Ma allora non sono l'unico morto vivente!».
Frattanto, molti chilometri più in là. «E lo voi sposta'sto gomito?». «E dove lo metto? Eh? dove lo metto?» si giustificò, alterato Carmelo. «Lo voi proprio sape'?». «Basta! - urlò Anna ormai esasperata - La volete piantare?». «Ma è colpa sua! - accusò subito Carmelo indicando Piero - Non riesce a coabitare pacificamente». «De tu'nonno! Se bevessi de meno ce staremmo quasi..». «E no che non ci staremmo! In quattro su un 126? Ma come si fa?». «E che ce potemo fa'? ê questa la macchina de Giovanni». «Infatti, infatti - assentì Carmelo - la colpa è di Giovanni. Giovanni! Ma quando ti cambi questo catorcio?». «E tu? quando TI compri una macchina TUA, così ritorni per conto TUO a casa TUA?». «Io sono contro le automobili - rispose sussiegoso Carmelo - Inquinano, rovinano l'ambiente...». «E allora perché non te ne torni a piedi?». «Già, pecché nun te ne vai aff ... Ma li mortè, er gomito!». «Ma la volete piantare?». «E alza, allora, alza il volume di quella ciofeca di radio, così ci rilassiamo». «ê l'ultima volta che vi accompagniamo»! sbraitò Anna (come tutte le sere) mentre alzava il volume e faceva partire la cassetta.
A poco a poco, ringhiando e sbadigliando, si alzarono anche gli altri tre compagni olandesi e due di essi, visto l'avvicinarsi della luna piena, erano molto pelosi. «Cosa succede?» ringhiò uno di loro. «Succede che dobbiamo trovare quell'anello - sospirò Tommaso alzandosi in piedi - Sù, cominciamo...».
«E sarebbe questa la musica rilassante?» urlò Anna. «Cos'è? Non ti piace?» domandò Carmelo esterrefatto. «Fa venire l'angoscia!». «ê giusto, no? Sono i Killing Joke...». «I Killing Joke? Quelli di quindici anni fa? Ancora campano?». «Già, più che mai». «A me me pare fico sto disco, cioè, me sembrano quasi i Ministry...» s'intromise Piero. «Un momento! - specificò Carmelo - Diciamo che i Ministry avevano preso alcune cose dai Killing Joke di un tempo e che i Killing Joke di oggi si rifanno a gruppi come i Ministry. - e poi, facendosi serio - Capisci, tutto ritorna...». «Cioè, ma questo è buddhismo...». «Non solo, è anche la storia del rock...». «Sarà, ma a me fanno venire l'angoscia!» protestò Anna. E, in effetti, bisogna dire che il minimalismo di Killing Joke (prima - tanti anni fa - più orientato alla new wave e oggi al rock) è di quelli che non mettono di buon umore. Bassi ruggenti e batterie implacabili macinano per minuti e minuti gli stessi ritmi e pare che nulla debba accadere sennonché, quasi impercittibilmente, in questa ossessione sonora, sbocciano qua e là accordi e toni che riempiono di potenza e bellezza i passi più oscuri. Perché oscuri lo sono sempre stati i Killing Joke. Apocalittici, distruttivi, catastrofisti: una bella mattina d'autunno, per loro, è solo il necessario preludio alle bufere invernali. E allora, perché stupirsi se poi degli angosciati compongono musiche angoscianti? Ciò di cui invece è bello stupirsi è che, a distanza di tanti anni, riescano a stare sulla breccia, con un disco eccellente che li pone (quei vecchioni) all'avanguardia del rock di oggi.
Si erano divisi in tre squadre per setacciare il Centro Sociale palmo a palmo. Era una vecchia fabbrica di vetro, e rovistare negli angoli più nascosti poteva presentare qualche pericolo. Infatti di lì a poco un lupo mannaro olandese cominciò ad ululare alla luna e corse alla luce per vedere e far vedere a tutti i suoi artigli sanguinanti. «Non piangere, sù!, non piangere!» lo rincuorava austero Tommaso mentre esaminava gli unghioni alla ricerca della scheggia.
«E abbassssa, allora, se proprio ti daì fastidio!» sbuffò Carmelo prima di rinchiudersi in un offeso e sdegnato silenzio. Anna sospirò, ma Giovanni, stringendole la mano «Siamo arrivati a casa SUA, Anna. Un po'di pazienza...». La 126 (bianca, come se non bastasse) imboccò un vialone di periferia che scorreva tra file di palazzoni smisurati di cemento armato. (Civili abitazioni, recita il catasto. Civili?). «Eccoci arrivati, finalmente» sospirò soddisfatto Giovanni alzando il piede dall'acceleratore. Ma non aveva ancora scalato che «O porco cane!» esclamò Carmelo. «Che succede?» chiese Anna terrorizzata e pronta al peggio. E il peggio, ovviamente, venne: «Ho dimenticato le chiavi al Centro Sociale!». «O mio Dio». gemette Anna mentre Giovanni, rassegnato, cominciava a far dietro front. Anna ormai era accasciata sul sedile davanti quando Carmelo, posandole la mano sulla spalla. «Dai Anna, è roba di pochi minuti: in quarto d'ora andiamo e torniamo...». «Oh Gesù...». «E non fare tante storie! - protestò Carmelo - Se proprio ti senti giù rimetti la cassetta...». «No! Per pietà!».
«Ecco qua: a posto!» commentò soddisfatto Tommaso dopo aver con precisione applicato un cerottone sull'artiglio del lupo mannaro. «Domani sarai in grado di sbranare chi ti pare» continuò rimirando il suo intervento di alta chirurgia. «Ne sei così sicuro?» disse una voce piovuta da chissà dove. Dopo che si furono rivoltati in tutte le direzioni alla ricerca della sua provenienza «Chi sei?» domandò Tommaso, anche se in cuor suo già conosceva la risposta. «Ma come, Tommaso? Tu, il contadino Thomas ritrovato morto in un fossato di campagna dopo una notte all'osteria, non mi riconosci? Non ricordi di quando il tuo fegato oppresso dalla troppa birra ti piantò in asso mentre tornavi a casa dopo una notte all'osteria? Tommaso, non ti ricordi di me? Di chi ti donò nuovamente la vita? Io sono il Duca Bonifazio, il tuo Duca e il tuo padrone.». «Di cosa dovrei ringraziarti, Bonifazio? - cercò di guadagnar tempo Tommaso mentre gli altri cinque si disponevano in formazione di combattimento - Di cosa? Di avermi riportato in questa vita schifosa?». «Per esempio. Ma non ti piace questa vita? Se vuoi si può rimediare». e, in quel momento, si materializzò alle loro spalle una sorta di essere alquanto strano. I libri di zoologia, purtroppo, non ne riportano il nome latino, ma immaginate una sorta di draghetto unito ad un serpentone in dimensioni sufficientemente ragguardevoli. Fu un attimo. I quattro lupi mannari (di cui uno incerottato) si lanciarono all'assalto mentre, dall'alto, Marco, ormai pipistrello, si scagliava contro gli occhi del drago.
«Hai visto? - sospirò Carmelo - Siamo già arrivati!». Parcheggiarono la macchina davanti al Centro Sociale e si incamminarono verso le sartacinesche. «Strano - disse Giovanni .- le luci sono ancora accese». Entrarono proprio all'inizio del combattimento e rimasero impalati sulla soglia. E mentre un lupo finalmente riusciva ad affondare gli artigli nella gola del drago «Cioè - commentò Piero - Questo sì che è heavy metal».


CAPITOLO X

«Giovanni, fa'qualcosa!» implorò Anna. «Io?» trasecolò Giovanni guardando la mischia che si sviluppava nel mezzo del Centro Sociale. Quattro strani lupi, piuttosto grandi e vagamente somiglianti ai quattro compagni olandesi, assalivano dai quattro punti cardinali il dragone metà sfinge e metà pitone che, sguainando artigli e mostrando zanne, cercava di acchiapparli. Uno scheletro molte ossa e poca pelle, parecchio somigliante a Tommaso il rasta, coordinava le operazioni dirigendo gli attacchi ora di un lupo ora degli altro non disdegnando, alla bisogna, di lanciarsi contro il drago tra cigolii e scricchiolii sospetti. Dall'alto, poi, un pipistrello dall'aria molto sveglia, si occupava della ricognizione aerea non trascurando, quando possibile, di compiere incursioni picchiando in direzione degli occhi. «Ma Giovanni! - riprese Anna - Fa' qualcosa, ti prego!». «E quelli chi sono?» grugnì un lupo. «Oh cielo!» gemette Tommaso accorgendosi solo allora della presenza dei quattro compagni del Centro. Ma il Duca Bonifazio (momentaneamente in abiti dragoneschi) ne approfittò per sputare una vampata di fuoco che, accompagnata da un tuono, annerì fino a bruciacchiarle, le costole di Tommaso. La deconcentrazione durò solo un attimo: come un sol uomo (e il bello è che nessuno di loro lo era) si scagliarono tutti addosso al Duca ruggendo e squittendo. Ne seguì un parapiglia, una mischia, un vortice di furia devastatrice: ad una ad una caddero le sedie, e poi il tavolo, e poi scoppiarono le lampadine, e poi si aprì il frigo, e il computer portatile dei quattro olandesi, coinvolto dall'eccitazione generale, si mise a giocare da solo a scacchi.
Frattanto, in una tranquillissima casa di un quartiere residenziale, il telefono squillò nel cuore della notte. «Chi diavolo è?» protestò energicamente alla cornetta il Commissario. Era l'Agente Bortolazzi. E l'Agente ci teneva a far sapere al Commissario che da qualche minuto tutti i palazzi attorno al Centro Sociale s'erano svegliati e avevano cominciato a tempestare il Commissariato di telefonate di protesta. «E perché protestano?» domandò il Commissario che, al solo sentir nominare il Centro Sociale aveva i brividi. «Dicono che non riescono a dormire, e che non è giusto che degli onesti cittadini che pagano le tasse non riescano nemmeno a riposare...». «Onesti cittadini? Quelli? Pagano le tasse? Quelli! Bortolazzi! Mi faccia il piacere!». «Ma Commissario: 'quelli' protestano... Posso mandare un paio di pattuglie?». «Bortolazzi! - strillò il Commissario saltando giù dal letto e facendo rotolare, per la foga, un bigodino della moglie - Non fare nulla prima che arrivi io! Capito, Bortolazzi? Adesso arrivo!».
Era la bagarre. Una fiammata colpì le ali di Marco proprio mentre tentava un assalto a ore otto, e lo mandò lontano a rotolarsi tra le lattine. Un'artigliata del lupo a Nord cavò qualche squama facendone uscire un liquame che è bello non aver annusato. Per la rabbia il dragone incenerì una seggiola mancando d'un soffio la tibia di Tommaso. E mentre, finalmente, stava per partire la carica definitiva, ecco che il suono di venti sirene squarciò il silenzio (si fa per dire, ovviamente) della notte. «Parbleu» esclamò il Duca (che era stato pure in Vandea) e, senza aggiungere altro, scomparve in una nuvola di fumo solforoso.
Ci fu appena il tempo di riassumere sembianze vagamente umane (e risparmio le facce sorprese e sgomente di Anna e gli altri quando videro il pipistrello ridiventar Marco) che il Commissario entrò, con aria borghesemente marziale, nel Centro Sociale. «E allora?» gridò stentoreo, per darsi un contegno di fronte ai suoi uomini. Davanti a lui sorgevano i resti del campo di battaglia. Der polizei già stava mettendo mano agli sfollagenti quando il Commissario, tra un'espressione austera e l'altra, riconobbe Tommaso, e rivide in lui quel tipo che si era introdotto in camera sua qualche giorno prima. Quando ciò accadde «Ragazzi... - sussurrò con un filo di voce ai suoi - lasciatemi da solo...». «Ma Commissario!» protestò a viva voce un agentone soprannominato Rambo dai colleghi. «Fate quello che vi ho detto!» e, con un moto di disappunto gli agenti riposero gli sfollagenti.
Rimasti soli, simulando nonchalance «Forse il volume era troppo alto?» domandò ingenuo Tommaso. «Quale volume?» balbettò il Commissario. Tommaso si avvicinò al registratore e fece partire la prima cassetta. Sperava, per dare un senso alla sua tesi, che fosse un caotico gruppo rumorista con relativo concerto per seghe, feedback e orchestra, ma fu abbastanza deluso quando partirono gli Stereolab. I quali sono sì tecnologici, ma di tutt'altro spessore cacofonico. Anzi, erano quasi concilianti. Alzò ancora il volume, ma il Commissario si teneva sul perplesso. «Hanno telefonato i vicini! - mugugnò sospettoso - Parlavano di tavoli rovesciati, lotte, guerre...». «Esagerati! - lo interruppe Tommaso - Si è ballato un po'... Forse non abbiamo guardato l'orologio...». «Ma c'è solo lei! protestò il Commissario puntando il dito verso Anna - Una sola ragazza con (unoduetre... otto!) ragazzi! Ma che razza di gente siete, voi dei Centri Sociali?». «Ma Commissario - si scandalizzò Tommaso - sono balli moderni! Conosce gli Einsturzende Neubaten?». Sospettosissimo: «Cos'è, una specie di Bundesbank?» domandò il Commissario. «Non proprio» rispose Tommaso mentre lo prendeva per il braccio e lo accompagnava alla porta. «Ma per questa notte avete finito, vero?» si sincerò il Commissario. «Ma naturalmente» lo tranquilizzò Tommaso chiudendogli la porta alle spalle.
Rimasti finalmente soli, s'accasciarono tutti per terra. E non ci fu bisogno di spiegazioni, per capire che Anna, Giovanni, Piero e Carmelo, per quella notte avrebbero dovuto rinunciare a tornare a casa. E mentre Tommaso cominciava, con pazienza e vincendo le loro legittime incredulità, a raccontare la loro storia fin dall'inizio, il sole, timidamente, cominciava a farsi notare. Per Marco era l'ora di trovare un posto appartato per riposare fino al tramonto. Si prese il registratore, la cassetta, e si adagiò in una saletta su un sacco a pelo degli olandesi. Regolò il volume ad una posizione di mezzo, e, mentre Tommaso raccontava degli esperimenti del Duca Bonifazio di Magonza, il nastro partì.
Splendidi, gli Stereolab. Discendenti tra i migliori dei sommi Kraftwerk, sono gli alfieri di quello che secoli fa poteva essere chiamato techno rock ma che oggi, a tutti gli effetti, è il cyber rock. Sono canzoni ossessivamente ripetitive: un ritmo base, due accordi, testi che ripetono le stesse parole all'infinito. Una gran rottura di scatole? chiederete allora. Eh no, perché il loro minimalismo è costruito con sapienza coltissima, e dietro quel ripetersi si celano squarci di grande musica che, certo, non possono essere colti appieno al primo ascolto. Questo disco, poi, è tutto su toni soffici, non v'è traccia di quella sperimentazione che qua e là emergeva nei dischi precedenti. Il disco più accessibile, quindi, e forse, pur essendo ottimo, non il migliore. Rilassanti comunque, la musica più angelica che può suonare un pezzo di ferraglia. Così rilassanti che Marco, già a metà della prima canzone, sprofondò in dormiveglia che si protrasse sino al tramonto. E Tommaso raccontava ancora quando si svegliò e assonnato si riunì agli altri. La sua comparsa scatenò un gridolino da parte di Anna, represso per educazione (lei era una che esaltava il confronto e il dialogo con i diversi; certo, non immaginava che le diversità potessero essere così diverse). Si riunirono tutti in cerchio, pensosi, e, nel corso della riunione, si stabilì di comprare delle pizze e delle birre.
Ma qualche centinaio di metri più in là il gruppo di nazi sospettava di aver fatto la figura del deficiente. «Questa volta non ci sfuggono, vero?» sorrise ebete un gregario. «No» sogghignò perfido il capetto mettendosi in marcia (seguito da tutti gli altri), armato di catena, pugno di ferro e scarponcini regolamentari. E qualche chilometro più in là, sull'attenti, il Commissario parlava al telefono col Questore. «Sgombero?» chiese il Commissario. Il Questore rispose. E molti chilometri più in là, in un bosco maledetto dei Castelli, il Duca si massaggiava il braccio imprecando in svariate lingue che tradotte, avrebbero fornito una congerie di «Maledetti, me la pagherete».
E finalmente arrivarono le pizze, accompagnate dalle birre. Ah!, dimenticavo: era arrivata anche l'ora dello scontro finale.


CAPITOLO XI

«Commissario - annunciò l'Agente Bortolazzi - è arrivato il Questore». Ma non aveva ancora terminato l'introduzione che, ciondolando sulle gambe arcuate, sigaretta perennemente accesa e sguardo risoluto, il duro Questore entrò nell'Ufficio scostando il povero agente con gesto energico e deciso. «Okay» si presentò e, ignorando la timida profferta di stretta di mano da parte del Commissario, lo aggirò e si sedette sulla sua poltrona. Si slacciò, con gesto calmo e studiato il nodo della cravatta, mise i piedi sul tavolo e, indicando un gruppetto di signori venuti lì con lui, tutti alti e grossi, con Ray Ban scuri anche se era notte e cafonissime gomme da masticare, li presentò come «I miei boys». Il Commissario li salutò con un educato «piacere», ma i questor boys si limitarono ad un superiore cenno d'assenso.
«Okay - riprese il Questore coi piedi all'insù - Allora siamo decisi? Okay?». «Scusi eccellenza..» tentò di argomentare il Commissario, ma fu interrotto da un'occhiataccia tremenda. Il Commissario deglutì e, in cuor suo rifece mentalmente il calcolo dei mesi che lo separavano dalla pensione. Troppi, concluse. E dire che quel pomeriggio era iniziato bene: poco prima che il Questore telefonasse, infatti, l'aveva chiamato la moglie annunciandogli, per cena, lasagne al forno: il suo piatto preferito. E da quel momento, per quasi un'ora i profumi della pasta arrostita, la dolcezza della mozzarella filante, la sublimità delle polpettine l'avevano, fedeli amici, accompagnato allegramente. Ma poi era arrivata la telefonata del Questore. Di quel Questore che ora gli chiedeva «Viste facce strane, là dentro?». «Strane, Eccellenza? Strane in che senso?». «Asiatici, per esempio». Il Commissario guardò Bortolazzi il quale, sollevando le braccia dal ventre prominente, le allargò come a comprendere la vastità dello scibile umano. «Forse - tentò Bortolazzi - Qualche filippino, forse, magari qualche cinese... Chissà... Forse». «Cinesi, vero?». «Forse... Chissà...». Il Questore socchiuse gli occhi (eran diventati nulla più che una fessura!) e, con voce profonda, «Escluderebbe che fossero nordcoreani?».
Bortolazzi fu preso dal panico, già si vedeva trasferito in un Commissariato sulle Alpi: e lui (Bortolazzi) soffriva di geloni! Allargò nuovamente le braccia «Chi può dirlo? Son tutti uguali quelli là...» soffiò con un filo di voce. Il Questore si accese un'altra sigaretta e, simulando dolori alla cervicale, si passò una mano dietro la nuca cominciando, con movimenti gravi e regolari, a ruotare il collo. Nel durante, con voce resa ancora più profonda dalla supposta sofferenza, «E sudamericani?» sibilò. «Uno ce n'è di sicuro!» esclamò trionfante Bortolazzi mentre il Commissario, oltre ad aver dato un addio alle lasagne stava cominciando a salutare anche la pensione. «Cubano?» inquisì il Questore trafiggendo l'agente Bortolazzi col suo sguardo. «Perché no?» assentì gravemente Bortolazzi ormai compreso nel ruolo di sventatore di complotti. «Sentito?» chiese il Commissario ai boys. «Sentito» risposero questi. «C'è nessuno?». All'interno del Centro Sociale si discuteva, ormai senza ritegno, di formule negromantiche e di metafisica. «Eh?» gli fu risposto con scarsa convinzione. «Siamo gli RSU» tentò di presentarsi uno dei nuovi arrivati. «Chi?. «I Rifiuti Solidi Urbani...». «Che, siete quelli della tassa sulla spazzatura?» provò Giovanni. Non la presero bene. E in effeti non avevano torto perché si trattava di uno dei migliori gruppi noise italiani, autori di un dischetto decisamente buono. Quindici canzoni brevi, tutte incentrate su uno spunto ('motivo'sarebbe del tutto fuori luogo) e condotte con abilità decisamente ragguardevole. Intendiamoci, tanto per chiarire ogni dubbio: non si tratta di cose mai ascoltate sull'Orbe Terraqueo: chi conosce gruppi come i Pussy Galore non tarderà a trovare riferimenti e radici. Ma ciò detto, il disco vale la pena di essere segnalato per almeno due ottimi motivi: 1) di gruppi italiani che suonano questo genere di musica non è che se ne vedano (nel senso di ascoltino) parecchi e 2) al di là del passaporto, alcune canzoni sono validissime in senso assoluto (vale a dire planetario: in particolare meriterebbe di diventare un cult l'Ave Maria versione noise). Capirete quindi perché non la presero bene. «Non dovevamo fare qui un concerto, stasera?» chiese uno di loro con occhi torvi. «Un concerto? Qui? Proprio oggi?» si stupì Tommaso. «Avevo parlato con un certo Carmelo...» riprovò, ormai rassegnato, il tipo degli RSU. Carmelo avvampò. «A che ora - domandò Tommaso tranquillamente - hai parlato con Carmelo?». «Non ricordo.. era notte: forse le due. Mi ha buttato giù dal letto...». «Vediamo - riprese Tommaso assorto in complicati calcoli mentali - Alle due? Allora, cominciando alle nove e mezza e calcolando una media di pi greco mezzi all'ora, e stabilito che erano passate quattro ore (almeno), direi che aveva bevuto almeno 6,28 bicchieri di gin tonic. Assumendo che a 3,14 la lucidità di Carmelo diventa un optional, direi che le possibilità che ti abbia telefonato (e poi se ne sia scordato) può stimarsi asintotica a uno». «Cioè?». «Cioè, forse in effetti me ne sono dimenticato...» balbettò Carmelo. «E noi?» chiesero gli Rsu.
«E noi?» chiese il Commissario alquanto allarmato. Il Questore, con mossa misurata, abbassò le gambe e si drizzò in piedi stirandosi la schiena con le mani strette sui reni. «Seguiteci» ordinò secco. «Pure io?» domandò timidamente Bortolazzi. Il Questore assentì gravemente «Tutti gli uomini disponibili. - e, mentre avvicinava la fiamma del fiammifero ad accendere un'altra sigaretta - è una faccenda seria - spiegò - dannatamente seria». Poi, ciondolando, quasi avesse passato un'intera vita a cavallo (e quest'andatura l'aveva imparata da ragazzo, guardando e riguardando John Wayne all'opera), s'incamminò verso l'uscita distribuendo generose pacche sulle spalle dei boys. Ma prima di varcare il portone «E'pronto l'elicottero per le riprese dall'alto?» domandò al primo chewingofago. «Pronto». «Okay, okay» assentì il Questore avvicinandosi ad uno specchio. Dopo lunga osservazione di dritto e profilo e dopo complicati aggiustamenti della cravatta «Hai un pettine?» chiese ad un boy.
Fuori rombavano i blindati azzurri della Police. Pattuglie di poliziotti con scudi trasparenti e sparalacrimogeni che parevano bazooka attendevano pazientemente. Nel mezzo del plotone: «Ti vedo nervoso, Giorgio» domandò un forte dell'ordine al suo vicino. «Mi devo sfogare» ruggì l'altro. «La tua ragazza, vero?» annuì comprensivo il primo. «Già». «Sta sempre con quel Carabiniere?». «No» ringhiò Giorgio stringendo il manganello. «E allora? Vi siete rimessi insieme?». «No: si è messa con un Vigile Urbano». «Ahia!» strillò Carmelo all'interno del Centro Sociale. (I Rifiuti Solidi Urbani, dopo lunghe discussioni e trattative se n'erano andati covando fieri propositi di vendetta). «Che succede?» domandò allarmato Piero. «La lattina di birra! Guarda, guarda che taglio! Madonna, che male!». «Da'qua, da'qua: bisogna succhiare il sangue» propose Marco. Ma Carmelo, dopo averlo guardato per qualche attimo, «Ma forse passa da solo...» mormorò stringendosi il dito ferito nell'altra mano.
Il Questore aveva un taccuino in mano, e con quattro schizzi, tracciò qualche rettangolo, qualche freccia (o vettore? in fondo si trattava di Forze, per quanto dell'Ordine) convergenti, dopo qualche giravolta e finta, sul centro. Sul Centro Sociale. «Siamo intesi allora?». I questor boys, intabarrati in caschi e scudi, assentirono gravemente. «In marcia, allora!» gridò il Questore e i blindati, solenni e maestosi, si misero in moto verso le posizioni prefissate. Osservandoli mentre sfilavano davanti a lui, «Bravi ragazzi» mormorò il Questore ricordandosi di John Wayne a Iwo Jima. «Bravissimi» rincarò il Commissario che non riusciva a tradire una certa qual apprensione. Infatti, dopo qualche attimo di pausa «Questore... » provò a domandare. «Dica». «Ma... e se poi fossero armati?». Il Questore lo squadrò profondamente «Dio lo voglia, Commissario, Dio lo voglia». E, incamminandosi verso la macchina, seguito come un'ombra dal Commissario, «Santa Rita - pregò sottovoce - Ti supplico, fa'che tirino una molotov. Almeno una, e ti porterò un cero. - poi, alzando gli occhi commossi - E... se vorrai farmi la grazia di un paio di pistole, Ti giuro che non fumerò per tre giorni. Per tre!» concluse levando le tre dita in alto, perché dal Cielo potessero vederle meglio.


CAPITOLO XII
Finalmente il Questore poteva mettere a frutto la sua innata (e supposta) abilità strategica. Dispose con cura i blindati tutt'attorno al Centro Sociale, dopodiché si piazzò su un'alturetta per osservare, con vivo compiacimento, il campo di battaglia. Spelacchiato, a dire il vero: il Centro sorgeva nel bel mezzo di una piatta prataglia rotta, verso sud, da una macchietta di alberi, monumento tangibile alle piogge acide. Ebbene, proprio tra questi alberelli, o più propriamente cespugli, s'era nascosta quella mezza dozzina di naziskin in attesa del momento propizio per l'assalto al Centro Sociale. Tutto attorno, poi, facevano cornice i palazzoni del quartiere con i balconi gremiti di onesti cittadini che assistevano alla scena sgranocchiando pop corn.
«Oh no! - gemette Anna - Un altro disco rumoroso!». «Prego - la corresse Carmelo - si dice rumorista». «Oh no - riprese Anna - Un altro disco rumorista!». «Ma guarda che non si può definire del tutto rumorista...». «Ma di cosa state parlando?» li interruppe Marco. «Del disco degli Shellac, il gruppo di Steve Albini». «Ah! Ed è duro?». «Abbastanza». («Un mattone» rincarò - indebitamente - Anna). «In genere, però - riprese Marco - non sono un gruppo rumorista. (Però fanno lo stesso un fracasso dell'anima - notò Anna) Piuttosto sperimentali, direi. - continuò Marco - Un po'di commistioni: avanguardia, un po'di jazz, qua e là, qualche spruzzata di Sonic Youth prima maniera. Non mi pare rumorista e basta...». «No, infatti - confermò Carmelo - ê che Anna sente rumore dappertutto..» «Non sono io che lo sento! - s'indispettì Anna - Sono loro che lo fanno!». «Forse potremmo dire che è un'avanguardia urbana un po'rumorosa e dura...» tentò di mediare Marco. «Ma perché - strillò Anna - dovete sempre ascoltare dischi così? E una volta il distorto, un'altra il metallaro e un'altra ancora il rumoroso! (rumorista - corresse Carmelo). Possibile che non sappiate ascoltare una cosa tranquilla? Eh? Possibile?». «Ma che ci fai con una cosa tranquilla, scusa?». «Come che ci faccio? Me la sento senza le angosce di questi dischi!». «Angosce? Ti mette l'angoscia?». «Sì!». Carmelo si massaggiò la rada barbetta che gli cresceva sul mento, in atto di riflessione. «Sai una cosa? - le disse alla fine - Ho la sensazione che tu non l'abbia ascoltato bene». «E'due ore che lo sto ascoltando!». «Sì, ma a volume basso. Aspetta: forse se te lo senti un due tre volte a tutto volume riuscirai a capirlo meglio». E prima che Anna riuscisse a bloccarlo già aveva girato la manopola del registratore. E un torrente di suoni smozzicati e contorti, anche se organizzati in maniera scientifica, inondò il Centro. Alla base tuonava la batteria onnipresente, e su di essa si innnestavano accordi e suoni che abbozzavano, senza mai concludere (né volerlo fare) una melodia. Brandelli di canzoni, non canzoni. Anna era depressa. «Senti, senti! Senti questo stacco!» si esagitò Carmelo alzando il volume al massimo. E mentre le note del disco inondavano il Centro, un vocione dall'oltretomba urlò «Ma mi volete stare a sentire?».
Si voltarono tutti. Alle loro spalle, avvolto in una nuvoletta di fumo azzurrognolo, occhi iniettati di furore, stava una creatura decisamente aliena e disgustosa al limite della volgarità. «Il Duca!» urlarono Marco e Tommaso mentre Anna, fuggendo, trascinò con sè il registratore che, cadendo a terra, si spense. «Finalmente - tuonò terrificante il Duca - è da due minuti che cerco di parlarvi!». «Aiuto!» gridò Anna lanciandosi verso l'uscita seguita da Giovanni, Carmelo e Piero. E qui, per il momento li lasciamo e ritorniamo al nostro amico Questore.
Il quale, dopo aver valutato attentamente il terreno, le forze in campo e il pubblico ai balconi, diede, finalmente, l'ordine di carica. I cento e più agenti partirono convergendo verso il Centro dai quattro punti cardinali. E i naziskin, che da mezz'ora spiavano inquieti le forze dell'ordine che li accerchiavano, al vedersi caricare, presi dal panico, cominciarono, di soppiatto, l'avanzata verso l'unico possibile riparo: il Centro Sociale.
Per cui, giusto sull'uscita (o entrata), Anna, Giovanni Carmelo e Piero si scontrarono con i naziskin e tanta era la foga di scappare da una parte e dall'altra che finirono tutti a terra. «Giovanni, fa' qualcosa!» gridò Anna appena si rese conto della situazione. Intanto anche i naziskin s'erano rialzati e uno di loro, attratto dal baccano nella stanza accanto, s'affacciò e vide la scena, peraltro ormai consueta, di un dragone che sputava fuoco in direzione di un vampiro, un morto vivente e quattro lupi mannari. Il naziskin ne fu alquanto impressionato perché ritornò dai suoi, urlante e gesticolante, indicando a gran voce la porta da cui erano appena entrati.
Frattanto gli agenti s'erano disposti in cerchio più ristretto attorno al Centro. I lacrimogeni erano innestati e le visiere abbassate. Il Questore si accese una sigaretta. «Sarà dura farli uscire di là. - disse con voce profonda - Maledettamente dura: i comunisti sono ossi dannatamente duri da rodere...». Ma non aveva finito di dirlo che dal Centro schizzarono fuori i naziskin in una carica frenetica che sfondò senza fatica la linea dei poliziotti e proseguì oltre, il più lontano possibile. «Commissario - bisbigliò l'agente Bortolazzi - io non è che ci stia capendo molto...». «Taci Bortolazzi, non sei pagato per capire».
Nel Centro, intanto, mentre infuriava la battaglia soprannaturale, Anna, Giovanni, Piero e Carmelo s'erano rifugiati in una stanzetta appartata senza uscita se non una porta dalla serratura ormai arrugginita. Tanta era la paura che a spallate la divelsero e si trovarono all'inizio di una scala che portava in basso. La discesero di corsa e si trovarono in un corridoio su cui si aprivano le stanzette che dovevano servire di deposito del carbone. Il Questore era perplesso, non solo per la presenza dei nazisti nel Centro Sociale, ma, soprattutto, perché dai palazzi circostanti gli spettatori cominciavano a manifestare il loro dissenso con fischi e grida di «Sangue! Vogliamo vedere il sangue!». Allora, considerato che dall'interno continuavano a provenire rumori quantomeno sospetti, gettò la cicca per terra e si avvicinò al Centro.
«Questore! Sei tutti noi!» urlavano intanto gli spettatori e il Questore, rinfrancato, si voltò e abbozzò un flebile cenno di saluto, cui si rispose con un boato da stadio. «Commissario! - chiamò il Questore - E lei, agente (indicando Bortolazzi) e lei (indicandone un altro), seguitemi!». «Ma dove?» domandò timido il Commissario. Il Questore si accese un'altra sigaretta «Andiamo a parlamentare» soffiò spegnendo il fiammifero. «Parlamentare? - ringhiò il secondo agente al suo vicino - Ma io voglio menare!». «Non fare così, sù». «Ma io devo menare qualcuno stasera». «Ma dai, mi sembra che esageri! In fondo non è la fine del mondo essere lasciati dalla ragazza...». «Ma io non voglio parlamentare...». «Andiamo!» ordinò secco il Questore. E si incamminò sentendo su di sé lo sguardo della folla affacciata alle finestre.
Man mano che si avvicinavano, però, sentivano crescere i rumori all'interno. E quando ormai erano sulla soglia si resero conto che lì dentro stava succedendo qualcosa di poco regolamentare. Il Questore, per non tradire il suo pubblico, frenò la voglia di chiamare rinforzi e, trascinandosi i tre, entrò risoluto nel Centro. Nella prima stanza poco o nulla da segnalare. La percorsero cautamente, a furia di «Prego, prima lei» e arrivarono finalmente alla soglia della seconda. Frattanto, nella cantina, i quattro del Centro avevano scovato una stanzetta per metà ancora piena di carbone. Carmelo ci si avventò sopra spalandolo con i primi attrezzi di fortuna che avevano trovato. Finalmente, alla luce della pila che avevano, apparve una specie botola. La spalancarono e trovarono una scaletta che portava in una locale ancora più in basso.
Il Questore era rimasto a bocca aperta, immobile. Accanto a lui il Commissario e i due agenti inebetiti. Davanti a loro il drago continuava a menar unghiate e sputar fiammate mentre i lupi l'aggredivano con la bava alla bocca. «Bortolazzi - sussurrò il Questore - identifichi i presenti». Ma in quel momento Marco, scacciato da una zampata del Duca, volteggiò (era in forma di pipistrello) per la stanza e andò ad aggrapparsi ai capelli del Commissario. «Oh, Commissario - gli disse - lei qui?». Il Commissario svenne mentre Bortolazzi, diligente, chiedeva a Marco «Documenti, prego».


CAPITOLO XIII

Approfittando del momento di distrazione causato dallo svenimento del Commissario, il Duca sputò una fiammata che mancò di un pelo Tommaso ma che attecchì rapidamente al bancone. Il calore del fuoco e il ruggito dei quattro lupi che si erano avventati sul dragone risvegliò per un attimo il Commissario che aprì gli occhi, gemette «Ma allora non era un incubo» e si riaccasciò al suolo. «Signor Questore - chiese trafelato l'agente Bortolazzi - chiamiamo rinforzi?». Sfoggiando un residuo di sangue freddo «Nessun problema, Bortolazzi - lo rassicurò il Questore - la situazione è sotto contr...» ma fu interrotto da un pezzo di intonaco che, per il troppo calore, si staccò dal soffitto e gli cadde in testa.
Nel frattempo, nello scantinato, Anna, Giovanni, Carmelo e Piero si erano infilati nella botola che partiva dal vecchio deposito di carbone. Era una stanzetta piuttosto angusta. «Perfetto! - esclamò Carmelo - Qui non ci può succedere proprio nulla!» E con la torcia elettrica cominciò ad illuminare le pareti quando «Aiuto!» strillò con voce al limite dell'umano Anna. «Hai sentito qualcosa?» chiese Marco a Tommaso nel corso della mischia. «Mi sembrava Anna..». «Aiuto! - continuò ossessa Anna - Qui c'è uno scheletro! E ha pure un anello!». La battaglia si interruppe. «Anello?» ronfarono all'unisono i vari esseri coinvolti nella lotta prima di scagliarsi in direzione della voce. «Signor Questore - domandò Bortolazzi - Devo verbalizzare il ritrovamento di un anello?».
I corridoi erano angusti e, nonostante il vantaggio, in breve il tozzo dragone si fece raggiungere da Marco. Arrivarono insieme nella stanzetta del carbone e, mentre il dragone cercava di allargare il foro saltando sul pavimento, Marco volò giù per la botola, si avventò sul braccio del (fu) Duca di Palombara e acchiappò l'anello. E quando finalmente il dragone riuscì a precipitare anche lui nella stanza, il pipistrello risalì passandogli sopra la testa.
Indemoniato il Duca Bonifazio si guardò attorno, ma vide solo Carmelo che con aria il più possibile distaccata cercava di convincerlo che loro si trovavano lì per caso.
Marco risalì volando i corridoi, volteggiò sopra Tommaso e i quattro lupi che sopraggiungevano in soccorso, risalì nella sala centrale, gettò un saluto ad Anna e s'involò, attraverso una finestra. Di lì a poco un terremoto scosse il pavimento. Incavolatissimo il Duca Bonifazio si lanciò all'inseguimento abbattendo, nella furia, tutti i muri e i soffitti che incontrava prima di uscire anche lui all'aperto. E, per la prima volta da molte ore, un silenzio irreale calò nel Centro Sociale.
Tommaso raccolse Anna, Giovanni e Carmelo, i quattro lupi mannari si ritrasformarono in compagni olandesi e, sospirando per la fatica, tutti risalirono lentamente scavalcando cumuli di macerie e mattoni divelti. Arrivati nella sala centrale fecero in tempo a scorgere le Forze dell'Ordine che, approfittando della disattenzione, cercavano di mettere in atto una ritirata onorevole. «Questore! - li richiamò Tommaso inchiodandoli sull'attenti - Ma non dovevate sgomberarci?». «Ecco - farfugliò il Questore - Noi si pensava che si potrebbe anche rimandare...». «Rimandare? Ma se ormai crolla tutto! - si scandalizzò Tommaso indicando le voragini aperte dal Duca Bonifazio - Signor Questore! E'un suo preciso dovere intervenire a difesa dell'incolumità degli stessi occupanti!». «Lei dice? - il Questore guardò il soffitto e il buco che si era aperto - Ma forse non è così grave...». «Non è grave? Ma è gravissimo! Venga, venga, signor Questore: credo che abbiamo bisogno di rilassarci qualche momento». «Esatto! - confermò Carmelo raccogliendo una bottiglia di gin rimasta miracolosamente incolume - Magari potremmo anche sentirci qualche buon nastro...» mugugnò cominciando a rimestare nel mucchio di cassette. «No! - implorò Anna - Non mettere una delle tue cassette!». «E perché? - si offese Carmelo - ê una cassetta di blues. Non mi vorrai dire che ora ti da'fastidio anche il blues? E cosa sei diventata! Guarda, guarda, se non ci credi: è la Jon Spencer Blues Explosion» e, senza attendere repliche mise il nastro nel registratore. E dopo qualche nota, alzando gli occhi affranta «Lo sapevo, lo sapevo che tanto metti sempre rumore» gemette Anna sconsolata. «Esagerata - la rimproverò Carmelo - Forse non è blues classico, ma è sempre blues... ».
E in fondo non aveva tutti i torti. E'vero che chi si aspetta un blues classico alla Willie Dixon rimarrebbe sconcertato, e chi invece un blues rock alla Savoy Brown o Canned Heat molto sorpreso, ma, diciamolo, quello di Jon Spencer è un autentico blues di oggi. Certamente vi sono forti echi noise (e come potrebbe non essere così, visto che Jon Spencer era un membro dei devastanti Pussy Galore?) ma le influenze e le discendenze blues sono preponderanti. Non è un blues del Delta, né di Chicago, ma di New York, nell'anno di grazia 1994. E cosa ci si può aspettare, oggi, da un disco che, nello spirito, sia autenticamente blues? Solo i richiami formali e filologici ad accordi e suoni nati col proibizionismo? Sarebbe ancora blues, nell'epoca del crack e dell'Aids? O solo accademia? Credo che sia un gran disco, questo della Jon Spencer Blues Explosion, un gran disco di blues. E se qualcuno si lamenta perché i suoni sono più distorti e aspri, se la prenda con il mondo con cui viviamo (casomai non avesse altri motivi per farlo) e non con un gruppo onesto e, a suo modo, innovativo. Ma di tutto ciò ad Anna, in quel momento, importava ben poco.
«Basta!» urlò dopo qualche minuto alzandosi e spegnendo il registratore a viva forza. «Dicevo, Signor Questore - riprese Tommaso - il fatto è che il collettivo non può continuare ad occupare questo posto». Gli occhi del Questore s'illuminarono di speranza «Volete dire che ve ne andate da soli?» E già vedeva i titoli dei giornali: «grazie all'oculato intervento del Questore eccetera eccetera...». «In un certo senso - confermò Tommaso - ma mi lasci spiegare...».
Frattanto Marco, diventato a tutti gli effetti il Custode dell'Anello, svolazzava come un forsennato sopra la campagna alla ricerca di un posto appartato dove nasconderlo. Il dragone, perse le sue tracce, lo inseguiva con scarso profitto non trascurando, talvolta, di domandare il più educatamente possibile a qualche passante se, per caso, avesse visto un vampiro che portava un anello stratto tra i denti. Generalmente i passanti interpellati svenivano e solo una suora di clausura, visitata nella sua cella, rimase impavida a pregare. (E nei giorni successivi si vociferò ch'ella avesse resistito alle tentazioni del demonio e, di lì a qualche anno, morì in concetto di santità). Fatto sta che dopo ore di affannose ricerche, il Duca dovette ammettere di averlo perso e, scornato rientrò in Germania a preparare la rivincita.
«Ma lei è pazzo! - protestò il Questore - Lei sostiene che io dovrei cercare un nuovo posto per il Collettivo!». «Esatto - rispose gelido Tommaso - E dovrà essere di loro gradimento» soggiunse scheletrico e minaccioso.
Finalmente Marco trovò il posto: era una grotta nascosta, in aperta campagna. Nascose l'anello e, soddisfatto si fermò a riposare, in attesa dell'alba ormai vicina e della sera successiva. Frattanto il Questore (dietro insistenze di Tommaso) s'era finalmente deciso ad accompagnare a casa Carmelo e Piero con la sua macchina d'ordinanza. E già era in attesa al volante (doveva guidare lui, secondo i patti) quando terminarono i saluti. «Bè allora ci vediamo» concluse Carmelo. «Forse» sorrise Tommaso. «Come, forse?». «Ho detto forse. Ma adesso andate: il Questore vi sta aspettando». Anna abbracciò Tommaso (era praticamente la prima volta da due secoli) e, trattenendo una lacrimuccia, s'incamminò con Giovanni verso la loro 126.
La macchina del Questore si mise finalmente in moto e Tommaso e i quattro olandesi li salutarono commossi quando si allontanarono nel sole dell'alba (prego notare il kitsch) e poi, mentre rientravano nelle rovine del Centro per preparare i bagagli, nella macchina: «Signor Questore - propose Carmelo - perché non ci porta a fare un giro?» E mentre i quattro olandesi lasciavano il Centro per ritornare a Rotterdam «Bello!» esclamò Carmelo. «ê il Quirinale, quello» spiegò paziente il Questore. «Ah». E dopo un po'anche Tommaso raccolse il suo borsone e s'incamminò: gli era giunta notizia che Haiti stava ritornando ad essere un posto interessante. «Allora quello! - esultò Carmelo - Sarebbe perfetto per un Centro Sociale!». «No, quello no! - implorò il Questore - Quello è Palazzo Chigi!».
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