lunedì 4 ottobre 2010

Al mio vero amore

Mia cara Anna, sono certo che il piccolo Matteo non abbia nulla di serio: nei bambini è normale accusare, ai cambi di stagione, dei piccoli malanni. Il nostro caro amico, il Dr. Alberti ti ha già confortato: non c’è nulla da temere. E come si potrebbe mai temere qualcosa con una Mamma premurosa e amorevole come te? Tesoro mio, maledico la lontananza, non perché nutra chissà quale preoccupazione per la salute di Matteo, ma per non poterti essere vicino a rincuorarti e rassicurarti. Indovino, anche se nelle tue lettere non ne fai menzione, notti insonni accanto al lettino del nostro piccolo. Vedo, come se fossi lì, il tuo volto sussultare ad ogni suo colpo di tosse, ad ogni starnuto. Tesoro, già molte volte l’ho detto, ma lasciamelo ripetere ancora: sei la moglie migliore che mai potessi sognare. Non mi sbagliavo, quella sera di dieci anni fa quando, scorgendo il tuo volto nella moltitudine di ragazze presenti a quella festa, trovai il coraggio, vincendo la tua dolce timidezza e suscitando quel rossore sul tuo viso che mi fece subito innamorare di te, di invitarti a prendere un gelato e poi di lasciarti il mio numero di telefono. Tesoro, presto sarò lì con te e rideremo insieme di queste piccole preoccupazioni.

Dolce Rebecca, i tuoi versi appena giunti mi hanno commosso come non mi capitava da tempo o, forse, non è mai capitato nella mia vita. Mi chiedo quale uomo possa definirsi fortunato se non io, destinatario modesto se non indegno della tua arte e, ciò che conta maggiormente, del tuo amore. La stima e l’ammirazione che provo per te cedono il passo solo alla gioia di saperti mia per sempre. Il mio cuore è tuo, dolce Rebecca. Non potrò mai ricambiare come vorrei la tua poesia con pari moneta ma, di certo, posso rassicurarti che il mio amore per te non teme, e non temerà mai, modestie e tentennamenti. Resto in trepida attesa del tuo nuovo poema a me dedicato del quale mi hai accennato nella tua ultima. Conto i giorni, mi dicesti che sarebbe pronto entro la settimana: mi sarà meno penoso trattenere il respiro che sopportare l’attesa. A presto, mia Cara, a prestissimo. Tuo per sempre.

Adorata Carmen, ripenso a ieri sera e mi chiedo come possa attendere ancora una settimana senza morire, senza impazzire. Rivivo il tuo profumo, i tuoi occhi che si socchiudono mentre le tue labbra si avvicinano alle mie, le tue mani che mi accarezzano, e le mie che ricercano affamate i preziosi tesori che mi riserbi; la passione sfrenata segue la tenerezza, come il temporale che, fragoroso, segue le prime goccioline di pioggia. E, consumata la notte, l’arcobaleno del mattino, la luce e la serenità dei sentimenti dopo la tempesta degli abbracci. Ti amo, mia adorata. Morirò, sì, morirò! prima di mercoledì. Ma per quest’oggi, che io possa ancora pensare ai tuoi capelli e ai tuoi occhi…

L’acqua gli lambiva i piedi. Era già il tramonto, la marea tornava ancora a salire e di lì a poco avrebbe cancellato i nuovi amori, nati quel giorno e narrati con uno stecchetto sulla sabbia appena umida. Da quando era naufragato, vent’anni prima, su quell’isolotto sperduto nel Pacifico, unico superstite di una bagnarola al suo ultimo viaggio, aveva via via esaurito la carta, e le penne e anche le bottiglie.
Rimaneva lo stecchetto, e la sabbia, un’immensa lavagna che, al ritmo delle onde, ogni sera dimenticava, e ogni mattina immaginava.



Pubblicato su
gli Italiani

e sul numero 88 di Ucuntu

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