venerdì 22 febbraio 2013

Sensi di colpa

Di tanto in tanto veniva colto da sensi di colpa. Talvolta la mattina, appena svegliato, quando il sole dei tropici premeva contro la tendina della finestra. Oppure poco dopo, scendendo le scale del bungalow, diretto al patio per consumare la sua colazione circondato dalla spiaggia bianchissima, bagnata dal turchese dell’Oceano. A volte, invece, quel senso di colpa lo coglieva nel corso della giornata, magari mentre nuotava nella laguna del suo atollo verso la barriera corallina, in cima alla quale si appostava per ore perdendosi a guardare i pesci angelo che volteggiavano sui coralli oppure a scorgere, nel blu, le ombre veloci dei delfini che passavano. Persino in certe sere poteva provare quel disagio, un’ombra sulle sue cene in compagnia della donna più bella che avesse mai conosciuto e corteggiato. Non era stato facile vincere le sue resistenze, all’inizio, ma poi era riuscito a convincerla, allettandola con la prospettiva di vivere lì, in quel paradiso in terra, la maggior parte del tempo. Erano passati già due anni, volati come una sola settimana, da quando si erano trasferiti. Avevano a disposizione, solo per loro, un villaggio intero di bungalow e capanne mentre il personale di servizio, discretamente, abitava fuori dagli sguardi, nascosto dal fitto dei palmeti.
In fondo non era del tutto scontento di quel senso di colpa, era un’ulteriore prova del suo animo gentile. La sua vita era quella di un privilegiato, non poteva certo negarlo: per fortuna, abilità, intelligenza, a lui era concesso ciò che gli altri potevano solo sognare. …Gli altri, quel resto di umanità che popolava affollati dormitori, se non baracche di favelas, che si alzava la mattina per andare a sprecare la giornata in occupazioni noiose e alienanti al solo scopo di guadagnare quel minimo di sostentamento per un’ulteriore giornata sprecata. E così per tutti i giorni e tutti i mesi e tutti gli anni, senza speranza di un cambiamento e col solo conforto di un’oretta di collegamento in realtà virtuale la mattina o la sera, sempre che le forze lo permettessero. Quell’ora di realtà virtuale, che concedeva il sogno e l’illusione di essere l’imperatore del mondo o un grande sportivo o un acclamato divo era l’unico conforto ad una povera esistenza.
Proprio pensando al resto dell’umanità, di tanto in tanto, veniva colto dai sensi di colpa, magari quando, come ora, ammirava la spuma bianca delle onde cavalcare le acque cobalto. Anche se, a guardar bene, quel blu tendeva a scolorirsi mentre una nebbia sembrava calare sul mare, densa, che annullava la differenza dei colori coprendo tutto di grigio. Il mormorio della risacca, un lieve sussurro poco prima, cresceva di intensità, copriva la brezza tra le palme e ad aumentava, ancora, sino a diventare un rumore, un frastuono, stridente, insopportabile, acuto, un urlo, quasi, una sirena.
Le sette. L’ora di realtà virtuale era terminata; aveva dieci minuti, non di più, per prepararsi, correre alla lurida metropolitana e precipitarsi nel suo cubicolo dove avrebbe sprecato le prossime ore affannandosi per nulla. Dodici ore, doveva resistere dodici ore prima di tornare alla sua isola, nel suo atollo, tra i suoi pesci angelo che guizzano tra i coralli.
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