martedì 24 ottobre 1995

Rutilio

Era il tramonto l'ora peggiore. Quando il sole illuminava con gli ultimi suoi raggi le colline che a Occidente chiudevano l'orizzonte e lento e struggente girava il disco dei Tindersticks, allora ripensava a quella Roma che aveva lasciato e che, ora ne era certo, non avrebbe visto mai più; e nella sua mente la riviveva e la ricordava meravigliosa come gli era apparsa la prima volta, vent'anni prima. Era solo un ragazzo, allora, di buon ingegno e molti ideali. Per tutta la sua fanciullezza si era imbevuto di Cesari e Giuli, di consoli ed eroi, e quando, passata la Porta Ostiense, si rese conto di essere proprio là dove quei grandi vissero, due lacrime gli solcarono il volto. E altre due glielo solcavano ora, ma per la nostalgia. Persa, persa per sempre.

Non era un gran periodo quello, e non era difficile che un ragazzo intraprendente riuscisse a salire in alto. Divenne praefectus, scrisse versi, pubblicò anche qualcosa. Ma poi, un giorno, arrivarono le tragiche notizie: i barbari erano passati in Gallia e avevano messo a soqquadro le sue terre. Il 400 era già passato, e periodi foschi si annunciavano all'orizzonte.

Ma Rutilio non era un disfattista. Litigava con quelli che, mettendogli una mano sulla spalla, gli dicevano «A Ruti', datte 'na carmata». S'infervorava, allora «Calmarmi? Ma come? Come potrei? Ora che la Patria è in pericolo! Devo partire! Subito! Devo ritornare presso i miei Lari. E' giunta l'ora di ricostruire, di sanare la Madre ferita!». «A Ruti', ma 'ndo vai? Ma nun te sei reso conto che è finita?». Al che Rutilio alzava gli occhi al cielo, si portava una mano al petto e, con voce ispirata «Mai. Roma è eterna e immortale». «Poraccio».

E partì. Da Ostia, costeggiando, arrivò fino a Marsiglia e durante il viaggio scrisse pure un poemetto sul Ritorno. Sbarcò a Marsiglia e si rese subito conto che il tempo era passato: una processione di cristiani percorreva salmodiando le vie del porto annunciando, tanto per cambiare, la fine dei tempi. «O Dei, anche qui!».

E questo perché Rutilio era tanto idealista da essere rimasto uno dei pochi che ancora sacrificava ad Apollo e agli dei dell'Olimpo. I cristiani non gli piacevano. O meglio, non li capiva: non riusciva a capacitarsi del fatto che dovessero sacrificare, al riposo, un giorno a settimana, un settimo della loro breve vita. E perché? Perché il loro Dio il settimo giorno era stanco e voleva riposarsi. «Non avete un Dio molto resistente...» cercò di ironizzare una volta con un giovane patrizio da poco convertito. Ma quello gli mise un tal broncio e si offese così tanto che a Rutilio passò la voglia di scherzare su queste cose. «E non hanno nemmeno il senso dell'umorismo...» si lamentava tra sé e sé.

E ora se li trovava persino nella Narbonese. Qualche suo amico d'infanzia s'era convertito, nel frattempo, e ora godeva di alta stima e considerazione. Come Aulo, per esempio. «Ma come - gli diceva Rutilio - e Voltaire? E Lucrezio? E tutti gli autori che leggevamo da giovani? Non ricordi? Virgilio, Marx, Ovidio.... ». «Cose da ragazzi» gli rispondeva l'amico scacciando oltre le spalle un lontano ricordo. «Aulo, non ti riconosco più...». «E io invece sì. Sei sempre il solito, Rutilio Namaziano. Non sei cambiato di uno iota. Idealista, romantico... Sempre lo stesso. Ma non ti rendi conto che il tempo di Catullo e Leopardi è finito per sempre? - Poi Aulo gli si accostava e, tirandolo per un braccio - Ascoltami bene, Rutilio: ciò che fai non conviene, né a te né ai tuoi. Ascolta il mio consiglio: convertiti, fatti battezzare, vai a riverire il Vescovo e ritorna ai tuoi poderi. Credi che Zeus si offenda per questo? Se non è stato in grado di fermare un falegname giudeo cosa pensi possa farti?». Ma Rutilio si alzava, tra l'impacciato e lo sdegnato. «Non posso - ribatteva col viso di porpora - ho ancora degli ideali, io».

Ma ora, quando il sole tramontava ripensava a Roma. Ai suoi marmi bianchi, ai templi, ai capitelli dorati, alle terme. Tutto gli appariva sublime e il disco dei Tindersticks gli trasmetteva tanta triste dolcezza. E' raro, infatti, imbattersi in un disco così commovente. Settanta minuti di belle canzoni, lente e struggenti. Una bella voce bassa, sul timbro dell'inarrivabile Leonard Cohen, e arpeggi continui, e una sezione di archi che, quando si manifesta, dà alle canzoni una maestà e una solennità rara. E Rutilio ripensava a Rubria, rammentava le passeggiate in sua compagnia nei portici del Campo Marzio, le gite sui colli Albani, quando il sole d'estate infuocava la città e, dopo aver sacrificato due colombe a Diana cacciatrice, si inoltravano nel fitto dei boschi per celebrare i riti appartati e cari ad Afrodite dolcissima. Era il disco dei Tindersticks, che, come le frecce di Cupido, trapassava il suo cuore e la sua memoria. Figurarsi, è un disco in grado di commuovere un ippopotamo e volete che su di lui non producesse quegli effetti? Siano ampiamente lodati i Tindersticks, gruppo inglese giunto al secondo disco. Siano conosciuti e videant lectores che non manchi loro il sostegno che meritano.

E quante volte le aveva promesso che l'avrebbe portata nella Gallia Narbonese? Che l'avrebbe fatta regina delle sue terre e dei suoi uomini? Quante, prima che le Parche decidessero di reciderle il fragile filo che permetteva a Febo di innamorarsi del suo sorriso? Oh, ma forse è stato meglio così. Come avrebbero potuto gli occhi di Rubria sopportare quello sfacelo? I templi in rovina, le terme aride, i teatri chiusi a Eschilo ed Euripide per impedire che si celebrino i falsi dei. In compenso nuove costruzioni, sgraziate e pesanti, buie e malferme, che nemmeno si reggerebbero in piedi se non fosse per le colonne che trafugavano a quei templi che l'ingegno degli architetti di Roma aveva eretto. E lì dentro consolano la stanchezza del Dio. Meglio, molto meglio, che Rubria non sia più.

Cosa avrebbe detto se avesse assistito alla prima riunione del Senato Cittadino a cui aveva partecipato dopo il suo ritorno? S'era preparato un gran discorso, retorico e veemente come si conveniva, ma non aveva nemmeno iniziato con «Cittadini!» che, dalle prime file, un gran rutto lo interruppe. «Dica?» domandò Rutilio al barbaro ricoperto di pelli caprine che tracannava birra dal corno. «Piantala» ingiunse quel satiro. Ed era un gran capo, pareva. E non vedeva l'ora di entrare nelle sue terre e nella sua villa per far da padrone.

«Vai dal Vescovo - lo consigliò Aulo - invoca la sua protezione. Di' che sei disposto a pentirti di tutti i tuoi peccati e che, volentieri, elargirai un decimo dei raccolti ad maiorem Dei gloriam. Questi barbari sono supertiziosi, ascoltano ciò che il Vescovo dice loro». Ma Rutilio rifiutava. «Mai. Sono rimasto fedele agli ideali della mia giovinezza, io».

E ora, mentre già scendeva la sera, si rese conto che non solo non avrebbe mai più visto Roma, ma nemmeno il sole. Si pentì di non averlo salutato come si conveniva, di non averlo ringraziato per tutte le volte che aveva illuminato il viso di Rubria. Si alzò dalla veranda posando il bicchiere di whisky. Anche quello, forse, era l'ultimo. In un angolo del giardino sorgeva un tempietto dedicato ad Apollo. Bruciò sull'altarino un po' d'incenso, ripensando a quanto Rubria amava il sole, la primavera. Le ombre cominciavano a calare e dal villaggio si poteva distinguere una processione di fiaccole che si avvicinava. Entrò in casa e si recò dai Penati. Quattrocento anni prima un suo avo si stabilì in quel luogo: era il premio per aver servito sotto Giulio Cesare. E i suoi avi avevano costruito quella città, l'avevano adornata di preziosi monumenti, quelli stessi ora ridotti a cave di marmo e colonne. Anche agli antenati bruciò dell'incenso e si raccolse in preghiera. Era stato degno di loro e di Roma? Aveva serbato memoria dei loro insegnamenti? Li aveva onorati come si conveniva? Le fiaccole erano giunte, ormai. Guidavano la processione degli incappucciati che inveivano contro i falsi dei e, dietro di loro, quel barbaro gonfio di birra che già soppesava con lo sguardo il valore della casa. E un luccichio di lame, uno snudar bastoni. Anche Aulo faceva parte del corteo. Rutilio era solo, i servi erano fuggiti sin dal pomeriggio, e si fece avanti, avvolto nella sua migliore toga, fin sul portico. Qui si fermò e, guardando le molte decine davanti a lui «Benvenuti, ospiti, - li accolse - benvenuti nella casa di Rutilio Namaziano». E furono le sue ultime parole.
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