mercoledì 7 aprile 2010

L'ultimo dono

Non erano più alti dei Terrestri, eppure costruirono il Tempio, questo eterno monumento esteso su due astri, sul Pianeta Sede e sul suo satellite più piccolo chiamato, ormai da millenni, semplicemente Tempio. A collegare il pianeta e il suo satellite, una serie di quattordici stazioni di purificazione nelle quali i pellegrini partiti da Sede che intendono visitare Tempio e scorgere, anche se solo per pochi attimi e da distanze incommensurabili, la Sacerdotessa Madre, devono sostare per elevare lo spirito e liberarsi dalle scorie dell’esistenza. Non erano più alti dei Terrestri, e si estinsero milioni di anni addietro, ma lasciarono in eredità a tutti i popoli la loro religione, la quale, nel corso delle ere successive, assorbì tutte le altre e divenne, di fatto, l’unica dell’universo esplorato, il Culto dell’Immenso. E, ovviamente, lasciarono il Tempio o, almeno, il primo nucleo che fu ristrutturato e ingrandito e ingigantito nei milioni di anni seguenti sino ad arrivare a ciò che è oggi. Non erano più alti dei Terrestri anzi, forse, addirittura un po’ più minuti, ma il loro nome è ricordato milioni di anni dopo la loro estinzione, e sarà ricordato sin quando nell’universo abiterà vita.
Da molti giorni aveva lasciato la quattordicesima e ultima stazione di purificazione e ora attendeva il momento dell’udienza privata, raro onore riservato a pochi, in un salone contiguo alla sala degli omaggi. Era un Terrestre e aveva un bauletto vicino a sé al quale rivolgeva sovente lo sguardo, forse nell’assurdo timore che qualcuno potesse sottrarglielo, lì, in quel luogo. Un gruppo di pellegrini attendeva ormai da tempo, snocciolando i grani di un’antica corda di preghiera e salmodiando in coro mentre silenziosi automi scivolavano su cuscini d’aria con composta e frettolosa solerzia. Il Tempio è permeato di tecnologia, e non vi è nulla, dalle pulizie all’illuminazione, alla regolazione dell’atmosfera che non sia diretto centralmente dalle intelligenze sintetiche sottoposte ad un incessante mutuo controllo per evitare ogni sorta di errore. Può capitare, ma assai di rado, che per caso si generi un’istruzione sbagliata, seppure in routine di scarso rilievo, che non comprometta l’integrità del sistema che è salvaguardata da millenni, e ha resistito ad attacchi e attentati di ogni sorta provenienti dai più disparati e disperati gruppi caotici. Un errore, però, un errore insignificante, si generò proprio mentre il gruppo di pellegrini stava arrivando all’ultimo grado della corda, una minuscola disfunzione nel database dell’archivio, in una routine considerata di quinto livello, un livello per il quale non sono previsti i controlli più rigorosi. Si aprirono le pesanti e smisurate porte, senza un cigolio, senza sforzo apparente e si avvicinò il ciambellano, circondato da un gruppo di automi guardiani, che con gesto solenne, ma cortese, invitò il Terrestre a seguirlo all’interno.
La Sacerdotessa Madre, minuta e diafana, quasi trasparente, era al centro della sala, vasta da contenere un’astronave. Era sospesa a una certa altezza dal pavimento, sostenuta da invisibili e delicate forze. Il Terrestre arrestò il suo trasportatore ad una certa distanza da lei e si inginocchiò portando la mano al petto, capo reclinato, in attesa, il bauletto accanto.
«Alzati, Terrestre» lo invitò la Sacerdotessa, e la sua voce, un sussurro appena, era perfettamente udibile in ogni angolo della sala, senza eco. Quando si fu rialzato «Mi dicono che sei l’ultimo del tuo popolo. E’ vero?»
«Sì, Veneranda Madre, è vero. Siamo rimasti per lungo tempo in due, ma la mia compagna è mancata da un anno. Ora sono io l’ultimo»
«Qual è il tuo nome, Terrestre?»
«Ha importanza, Veneranda Madre? Da chi dovrò distinguermi, ora?»
«Comprendo la tua amarezza, Terrestre, giacché desideri essere così chiamato, ma il tuo non è il primo popolo che manca. Guarda questa sala, fu iniziata da mani estinte da milioni di anni. I popoli hanno vita, come gli individui, nascono, maturano, chi più a lungo, chi meno, ma un giorno muoiono. Altri popoli nascono e si evolvono in loro luogo, secondo leggi che solo l’Immenso conosce. Ma sai bene, Terrestre, che l’Immenso non dimentica, né i popoli né i singoli individui. So che ciò non risarcirà la tua perdita, ma mi auguro consoli il tuo animo.»
«Sia fatta la volontà dell’Immenso, Veneranda Madre, ma il mio animo sarebbe meno esacerbato se non fossi consapevole che non fu la volontà dell’Immenso a decretare la nostra fine, quanto la scellerata condotta dei nostri avi sciagurati.»
«Conosco. So che gli umani non si mostrarono riconoscenti all’Immenso per il prezioso dono della Terra, e che lo sciuparono ingrati.»
«Così fu, Veneranda Madre. E noi, peregrini su altri pianeti, lontani dalla nostra casa ormai inabitabile e infuocata, per millenni abbiamo maledetto l’insensatezza dei nostri padri. Per millenni abbiamo sognato di ritornare sulla Terra ma, come ben sai, il nostro popolo si è assottigliato sempre più col passare del tempo. Elementi forse non conosciuti del nostro Pianeta, elementi non presenti nelle atmosfere sintetiche per noi ricreate altrove, hanno reso sempre più sterili le generazioni che si succedevano. Sino a che siamo rimasti solo in due. E ora solo io, l’ultimo dei Terrestri.»
Si fece silenzio nella grande sala, un silenzio rispettoso e partecipe che fu interrotto, con voce dolce, dalla Sacerdotessa Madre.
«So che hai un dono per me, Terrestre…»
«Sì, Veneranda Madre – l’uomo si riscosse dal suo breve torpore, si chinò verso il bauletto e lo sollevò – Eccolo, il lavoro di innumerevoli generazioni di esuli. Tutte le nostre fortune, tutto il tempo che ci è stato concesso, tutti i nostri sforzi sono qui, Veneranda Madre. Abbiamo racchiuso in questo scrigno tutto il sapere che siamo riusciti a raccogliere sul popolo della Terra. Non tutti, invero, furono dei folli incuranti e sprezzanti il futuro. Avemmo artisti, filosofi, scienziati, pensatori. Tutto ciò che ci è stato possibile raccogliere è qui, tradotto nei principali idiomi della Galassia, memorizzato in indistruttibili celle di cristalli di santeno, per acquistare i quali abbiamo devoluto tutte le nostre risorse. »
«Ti ringrazio del tuo dono, Terrestre. Vi siete mostrati figli migliori dei padri. Custodiremo qui nel Tempio questo scrigno, nei nostri archivi, perché vi sia sempre memoria del tuo popolo.»
Ad un cenno della Sacerdotessa, lo scrigno si sollevò e, scivolando nell’aria, fu diretto verso un lato della sala, là dove si apre un passaggio secondario che porta agli edifici di servizio. Superata la parete, lo scrigno continuò per un lungo cunicolo, sospinto e sorretto da atmosfere compresse, sino a quando giunse alla stazione di controllo dell’archivio dove sarebbe stato protocollato mediante un’incisione indelebile. E fu in quel momento che la disfunzione, del tutto insignificante per il generale funzionamento del Tempio, si manifestò, generando una differenza tra il codice inciso sullo scrigno e quello, che avrebbe dovuto essere uguale, memorizzato nei banchi di memoria dell’archivio.
«E ora, Terrestre, cosa intendi fare? Puoi fermarti qui nel Tempio, se lo desideri, sino a quando l’Immenso ti donerà la vita. »
«Ti ringrazio per l’offerta, Veneranda Madre, ma preferirei ricongiungermi al mio popolo, e alla mia compagna.»
«Come preferisci, Terrestre. Verrai condotto nelle nostre stanze del sonno e presto rivedrai i tuoi. E non passerà molto che anche noi ci rivedremo, nella gloria dell’Immenso. Fa’ buon sonno, fratello Terrestre, e possa l’Immenso accoglierti benigno».
L’uomo si inchinò ancora e si avviò, premurosamente diretto e scortato, attraverso una moltitudine di edifici e costruzioni, verso una delle stanze del sonno compatibili con la fisiologia umana. Si distese su un comodo giaciglio e gli vennero proposte immagini e suoni dolci della sua Terra. Immagini che aveva visto innumerevoli volte e che conosceva a memoria, e che raccontavano un mondo che non aveva mai visto.
Lo scrigno, mentre scorrevano nella mente del Terrestre visioni di tramonti su coste intatte, fu diretto non verso il cunicolo ad esso destinato dal codice memorizzato dai banchi ma, passando attraverso gli innumerevoli rilevatori che verificavano il codice che recava inciso, terminò la sua lunga corsa in una collocazione assai differente da quella stabilita in origine. Non era infatti, come previsto, collocato a fianco dell’estinto popolo dei fiori poeti di Stara, ma vicino a quello dei mai rimpianti vermi cannibali di Durti, in un angolo dell’archivio dove nessuno, per quanto ricercasse a lungo, avrebbe mai potuto riconoscerlo, neanche un ipotetico studioso di paleontologia a cui potesse sorgere, nei successivi millenni, il desiderio di effettuare una ricerca sul morto Pianeta Terra e sui suoi antichi abitanti.
Una fiala di calmante era già stata delicatamente iniettata nelle vene del Terrestre, preludio ad un quieto sonnifero a cui poi sarebbe seguita una sostanza letale che, rapidamente e dolcemente, l’avrebbe riportato tra i suoi. I riflessi si facevano meno pronti, all’avanzare del sonnifero nel suo organismo, e intanto sognava il mare, e le onde che lentamente, molto lentamente, seempre piùù leentaameeente accaaarezzaaavaanooo laaa spiaaaaa…

Pubblicato su:
gli Italiani

Numero 78 di Ucuntu

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