lunedì 15 febbraio 2010

Le lettere non dette

Navigazione tranquilla, oggi. Le correnti mi hanno portato verso il sole che sorge, verso est. Il mare era calmo, solo qualche lieve e monotona ondulazione mi levava e mi abbassava. Sono incappato in un branco di sardine. O forse erano acciughe? Mai riuscito a distinguerle bene. Mi hanno avvolto come una nuvola, una frenetica nebbia. Le ho guardate da vicino, argento vivo, a migliaia; poi, ad un tratto, sono scappate via. Forse un pesce più grande le inseguiva? O un richiamo a me incomprensibile le ha attirate altrove? Non so: non ho visto nulla, nessun pesce grande, nessun inseguitore. Sono sparite e mi sono ritrovato di nuovo nel blu senza fine. Nient’altro da segnalare.

Il mare è un po’ più mosso, oggi: vedo le increspature delle onde. Salgono lentamente, in cima si increspano, diventano schiuma bianca e poi ridiscendono. E ancora e ancora, per chilometri e chilometri, per arrivare a morire su una spiaggia che non conoscono, di un continente di cui ignorano il nome. Nient’altro da segnalare.

Le piccole onde di ieri sono diventate burrasca. Non c’è solo la spuma bianca in cima; tutto è bianco, ovunque. Il mare ruggisce arrabbiato sotto un cielo percosso da cupi tuoni rimbombanti che partoriscono agili e veloci saette. E, come scosse da molte mani, disordinate e caotiche, da dritta e da mancina, le onde corrono l’una verso l’altra, si incontrano, si scontrano, si rompono e si frantumano in una miriade di spruzzi. Acqua che rompe l’acqua, e i frammenti cadono ancora nell’acqua e si fanno onde che crescono, montano, si rompono ancora e riformano acqua che ancora cresce e ancora si rompe sino a che la tempesta non cessa.

Lentamente s’è acquietato il mare. Passati due giorni il cielo è tornato blu come l’acqua. Solo qualche nuvoletta, laggiù, rompe di bianco l’azzurro. Non dovevo essere molto lontano dalla costa: vedo tante cose diverse attorno a me. Un ramo d’ulivo, per esempio. Caduto per colpa del temporale che qui ha generato la tempesta e lì, per il vento, ha sradicato rami che poi la pioggia ha fatto scivolare giù giù, sino al ruscello. E questo, poi, aprendosi nel torrente ha fatto scendere il mio ramo sino al fiume che, con più calma e forza, senza massi che lo intralciassero, senza anse nelle quali arenarsi, alla fine lo ha portato al mare ed è arrivato qui, vicino a me. Dal vetro della bottiglia, la casa mia, l’ho visto passare e sfiorarmi. Mi ha quasi avvolto, con le sue foglie plumbee spesse e dure, resistenti ai mari e agli anni.

Guarda… Accanto a me, poco lontana dal ramo d’ulivo, un’altra bottiglia: la corrente ci ha portati vicino. Stupito, e meravigliato, l’ho fissata a lungo. Era lì, che scrutava oltre la nebbia che l’appannava e quando poi s’è rischiarata mi ha salutato, e mi ha sorriso. Le ho fatto ciao con la mano e mi ha risposto, e un calore dimenticato mi ha carezzato e abbracciato. Allora l’ho salutata due volte, poi tre, e credo che sembrassi una marionetta al gabbiano che ci volava sopra in cerca di qualcosa di vivo da mangiare. E lei anche, in risposta, ha cominciato a salutarmi, a farmi cenni, ma non capivo cosa volesse dirmi, salvo il fatto che voleva comunicare con me. Ma come? Ci sorridemmo e cominciò lei mostrandomi come fare la A. E quindi fui io a dirle la B. Annuiva energicamente, il volto intento, corrugato e pensieroso, e mi mostrò la C. Non la capii, sulle prime, ma poi, riflettendo, compresi. Mi sbracciai ancora , per quanto lo stretto spazio della bottiglia me lo permettesse e le proposi la D. Non fu semplice, aveva forse un’altra idea di D in mente ma, alla fine, riuscimmo a intenderci. Appoggiammo le mani ai vetri, entrambi. Non ci potevamo toccare ma la sentivo vicina, quasi che le bottiglie non esistessero, non fossero più una barriera. E allora fu lei a cominciare con la E, ma non era una lettera facile. Mi sforzavo di capire cosa volesse dire, ma ogni volta che mi sembrava di avere afferrato il significato, ecco che mi sfuggiva. E’ così? – gesticolavo - O invece in quest’altro modo? E lei assentiva o diniegava ad ogni mio tentativo, cercando di farmi cogliere il senso di quella lettera. Mi parve, alla fine, di aver, se non compreso, almeno intuito il significato delle sue parole quando il mare s’ingrossò ancora. Ritornò la spuma, dapprima delicata, quasi una coroncina alle onde, poi sempre più prepotente, a mangiarsi il blu e l’azzurro. Si formarono le onde, timide all’inizio, poi sempre più pronunciate fino a diventare alte, altissime. E fui sballottolato ancora di qua e di là, giù e su.

La burrasca è cessata. E’ ritornato il blu senza fine e il bianco, ancora, si limita a qualche nuvoletta in cielo. Le acque si vanno calmando, ma non vedo il ramo d’ulivo e l’altra bottiglia è stata trascinata altrove, dalle sue correnti.

Navigazione tranquilla, oggi. Le mie correnti mi portano verso il sole che tramonta, verso ovest. Mi guardo attorno e la cerco, mi sporgo, per quello che mi è consentito, ma proprio non la vedo. Non credo di aver capito bene la E, e non credo che la capirò più. Nient’altro da segnalare.





Scritto ascoltando un antico disco di Tom Kazas che non suonavo da lustri. Cercavo un’atmosfera eterea, calma e un po’ malinconica che desse il la a questo raccontino. Sulla mia pagina di Facebook alcuni link.

Pubblicato su La poesia e lo spirito





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1 commento:

  1. Non so perchè la fine del tuo racconto mi ha fatto pensare ultima scena de La Dolce Vita.
    bello.

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