giovedì 15 luglio 1993

Tema: Raccontate una giornata della vostra estate

Compiti per le vacanze. Tema: “Raccontate una giornata della vostra estate.”. Svolgimento. Al posto dell'inverno in estate fa molto caldo e poi le scuole sono chiuse perché‚ sennò la gente suda tutta e non riesce a fare niente. A me la scuola mi piace molto anche poiché voglio molto bene alla mia maestra che è molto buona e mi ha pure promosso l'anno scorso ma anche l'estate mi piace molto perché‚ così posso stare in piedi fino a tardi a vedere i cartoni animati e i telefilm che mi piacciono alla tele mentre il mio papà invece ascolta il suo disco degli Outskirts of Infinity.

Da quando è cominciata l'estate e i miei amici sono quasi tutti via il mio papà si alza ogni mattina e dice che lui è veramente molto molto intelligente perché ha deciso quest'anno di rimanere in città e non ha fatto come i papà degli altri amici miei che magari li hanno portati tutti al mare o in montagna o dalla nonna. Poi il mio papà esce a comprare il giornale e ci mette mezz'ora perché quello dell'edicola che non è molto intelligente è andato in vacanza anche lui e allora è chiuso e il mio papà deve andare a tre edicole dopo per trovare il giornale. Quando poi torna a casa è tutto sudato e tinto d'inchiostro e il giornale è tutto bagnato. Allora la mia mamma ci ha detto al mio papà di fare attenzione a non mettere il giornale sotto il braccio sudato perché quelle macchie non vanno più via. E poi il giornale è anche un po' strappato ma il mio papà riesce a leggerlo lo stesso dicendo che lui è veramente molto molto intelligente.
A un certo punto però il mio papà continua a sudare e allora anche se stiamo chiusi in casa con la luce perché sennò entra tutto il sole lui non ce la fa più e allora se ne va in bagno e si mette l'acqua fredda che tanto lui dice che a Rimini è quasi la stessa cosa solo che nella vasca da bagno non ci stanno le alghe. E poi rimane per molto nella vasca a leggere tutto arrabbiato il giornale perché in genere il mio papà si arrabbia sempre quando legge il giornale. Pure qualche mese fa lui leggeva lo stesso i giornali ma si arrabbiava un po' meno anche perché lui faceva un po' di politica ma questa estate mentre lui sta in bagno dice che lui non sa più che accidenti fare perché oggi ci sono solo ladri o fascisti o imbecilli e allora lui li manda tutti a quel paese.
Da quando fa molto caldo lui fa così quasi tutte le mattine ma poi però esce perché è quasi l'ora di pranzo e tanto noi mangiamo spesso insalata perché l'insalata è fresca e al mio papà adesso ci piace molto mentre prima fino a qualche mese fa non gli piaceva per niente mentre adesso dice che è un prodotto naturale e che non ci ha tutte quelle cose chimiche dentro che la fanno diventare una schifezza anche se a me mi piacciono lo stesso molto i gelati e tutte le merendine che lui non mi compra perché lui dice che fanno schifo mentre non è vero. Mentre noi mangiamo vediamo quasi sempre la tele e oggi c'era il telegiornale e parlavano di un sacco di gente che stava tutta in fila sull' autostrada come era capitato anche a noi l'anno scorso che ci avevamo macchine da tutte le parti e noi ci stavamo in mezzo e il mio papà dice che ancora se lo sogna di notte mentre quest'anno è stato intelligentissimo.
La mia mamma invece spesso non parla mai ma oggi ha detto che anche a costo di farci veramente la figura della scema forse quest'anno voleva andare un po' fuori per vedere qualcosa che magari non ha ancora visto. Allora il mio papà si è arrabbiato e ha detto che non capiamo niente nemmeno io anche se non avevo detto una parola e si è seduto in poltrona ad ascoltare quel disco degli Outskirts of Infinity che a lui ci piace moltissimo e allora ce lo fa sentire dieci volte al giorno. E poi il mio papà era uno che fino a qualche mese fa di dischi se ne comprava parecchi mentre ora dice che la musica è finita e morta e quindi non ne compra più uno e fa anche così una cosa molto intelligente.
Questo disco qua gliel'ha portato un amico di lui che ancora invece i dischi continua a comprarli. Per esempio l'altra sera è venuto e ci ha portato al mio papà questo disco dicendo che invece questo a lui gli darebbe piaciuto perché quello che ci suona è un tipo chiamato Bari Watts che è poi lo stesso che un tempo suonava la chitarra mentre suonava in un gruppo che era di Bevis Frond che era poi uno che faceva un sacco di psichedelia che al mio papà ci piaceva molto. Anche adesso che è tutto solo e si è fatto il gruppo suo continua a suonare le cose che al mio papà ci piacciono molto perché gli ricordano molto le cose antiche che ascoltava quando ancora era giovane mentre adesso ci ha addirittura quaranta anni. Anche l'amico del mio papà ce lo diceva che questi proprio sembrava di stare ad ascoltare gente come i Crim o Gimi Endrics e che facevano tutto un rock vecchio e pieno di blus con un sacco di chitarre e che al mio papà dice che gli piace parecchio.
E allora quando il mio papà si è sentito tutto arrabbiato e diceva che noi non capivamo proprio niente e allora si è messo a sentire il disco ed era così arrabbiato che non voleva manco vederci e allora ha girato la poltrona e si è messo a guardare il muro e allora la mamma gli ha chiesto se credeva poi di essere intelligente ma il mio papà non ha risposto. Allora la mia mamma ha cominciato a sparecchiare l'insalata che tanto a noi non ci piace e io mi sono messa in camera perché la nostra casa è così piccola che se il mio papà ascolta il disco allora io non posso guardare la televisione.
Allora la mia mamma poi ha fatto il caffè e ce l'ha portato al mio papà e si è seduta vicino a lui ad ascoltare la musica. Poi quando il disco è finito allora il mio papà le ha chiesto se si ricordava di quell'estate di tanto tempo fa quando tutti e due erano andati a Milano perché c'era il festival di Parco Lambro e allora mia mamma ha detto che se lo ricordava benissimo. Allora sono rimasti un poco zitti e dopo un po' il mio papà si è alzato ed è andato a cambiare il disco perché era finito a metà e ancora non ci abbiamo il compat che non finisce mai ma il mio papà dice che con il disco si sente molto meglio e che solo gli stupidi comprano il compat.
Poi si è rimesso a sedere ma aveva anche abbassato il volume così si riusciva a capire se uno parlava. E allora la mia mamma diceva che in fondo ci aveva nostalgia di quei tempi quando ancora c'era Andreotti e la Diccì le bombe il divorzio e i fascisti ma almeno si poteva fare un festival in santa pace e soprattutto non erano ancora vecchi. E allora il mio papà si è alzato in piedi e ha alzato ancora il giradischi e intanto diceva: “Oh Gesù”.
Io non ci capisco molto della musica che ascolta il mio papà perché la sente solo lui mentre alla televisione ce ne è sempre un'altra ma quella doveva essere molto bella e commovente perché anche alla mamma allora gli sono scese le lacrime e si è messa a piangere un po'. Del resto quell'amico del mio papà ce l'aveva detto al mio papà: “Guarda che è veramente bello sai”. E poi gli aveva detto che se anche non era musica molto originale e poi non era proprio come il primo che avevano fatto era comunque un disco che il mio papà doveva proprio sentire soprattutto se gli piacciono tutti quei gruppi vecchi lì. Il mio papà all'inizio non ci voleva credere ma poi quando ha capito che quell'amico il disco glielo regalava allora ha iniziato a sentirlo e non la smette più. Anche alla mia mamma piace la musica vecchia ma non credevo che questo disco le piacesse così tanto.
Poi finalmente il disco è finito tutto anche la facciata che sta sotto e allora il mio papà ha spento il giradischi e ha detto che questa è veramente una bella estate la migliore che ha passato in vita sua ma lo diceva per finta perché non ci credeva. Allora la mamma ha cominciato a ricordarsi di tutte le estati che hanno fatto insieme di quando sono andati in Sardegna con la tenda e si lavavano la faccia nel mare o quella volta che erano partiti ed erano andati a vedere il festival giez in Umbria e dormivano in sacco a pelo con un sacco di altra gente sotto le cattedrali e fumavano un sacco di sigarette oppure quando erano partiti con una scassata cinquecento ed erano andati in giro per vedere com'era fatta l'Europa e avrebbe continuato anche con quella volta che erano andati in Corsica o in Inghilterra ma il mio papà allora si è alzato ancora e ha detto che doveva proprio vedere la televisione e allora l'ha accesa e l'ha messa così forte che la sentivo benissimo anche se ero in camera mia.
Allora la mia mamma si è alzata anche lei ed è tornata con le tazze del caffè in cucina e le ha lavate e poi è ritornata dal mio papà e si è messa seduta vicino a lui guardando la televisione. E dopo un po' la mia mamma allora ha chiesto al mio papà: “Senti ma se l'hanno prossimo ti finisce la cassa integrazione o ti riassumono ce la facciamo una vacanza? Magari anche solo una settimana al mare..”
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martedì 15 giugno 1993

Le Termopili della I Repubblica

Questo racconto fu pubblicato nel giugno del 1993, quando i rappresentanti della I Repubblica, sgretolata da Mani Pulite, tentavano un'inutile quanto strenua resistenza.
Era alle Porte Calde, alle Termopili. Gli Immortali del Gran Re avanzavano sui cadaveri dei compagni ormai insepolti da giorni, e ancora valorosi guerrieri cadevano, e ancora le Parche recidevano fili troppo corti. Gli Spartani, ormai spezzate le lance e le spade e frantumati gli scudi resistevano scagliando pietre e bastoni, opponendo l'inutile valore alla preponderanza del numero. E gli Immortali, cubito dopo cubito, guadagnavano terreno e si avvicinavano, perplessi e increduli, a quel manipolo riparato sotto le rocce della gola. Ancora qualche passo, tre, due, e finalmente il primo Immortale poté alzare la scure per colpire il volto del nemico. Era uno spartano della tribù di Nusco, Kiriakos era il suo nome. Guardò la barba lunga del Persiano, imbrattata di sangue e sudore, il volto contratto dalla fatica e dalla ferocia, il braccio pronto a colpire.
«Forse dovremmo sviluppare un ragionamento» propose Kiriakos, ma la scure si abbassò sul suo cranio e spense la sua mente, quella mente che gli spartiati consideravano più consona a Mileto che non a Sparta.


Daniele pensò che quell'esame non l'avrebbe mai superato. Si alzò dal letto ormai spiegazzato e si avvicinò al giradischi. L'idea di prendersi un pomeriggio di pausa, alla vigilia, forse non era stata delle migliori. «Tanto quello che sai, sai. - s'era detto - Non è certo un pomeriggio che cambierà la situazione».
E tanto valeva passarlo ad ascoltare i dischi trascurati da ormai troppe settimane. I Butthole Surfers, per esempio: quel gruppo apparentato (ormai lo si può dire) con i Ministry. In un mondo che si prende troppo sul serio, qualunque idiozia commetta, almeno un gruppo, uno ogni tanto, che fa dell'ironia la sua arma vincente. In generale un'ottima cosa, l'ironia, ma non il giorno prima dell'esame. Sicuro: le Termopili le chiederanno, in una maniera o nell'altra. In fondo ne continuiamo a parlare da 2500 anni, perché si dovrebbe smettere proprio domani mattina?
Perché proprio domani non si dovrebbe parlare di quel luglio, quando Leonida e i suoi furono mandati da Sparta a difendere quel muro che divideva la Grecia dalla Tessaglia? Forse anche quel giorno faceva caldo, e forse anche gli Spartani (con la S maiuscola) sudavano quando, raccolti a piccoli gruppi, attendevano l'arrivo del Gran Re. Si pettinavano, si ravvivavano i capelli: Sparta aveva loro ordinato di difendere quel passo, e il giorno dopo loro, i trecento, l'avrebbero fatto. Non capitava di frequente che Sparta chiedesse qualcosa di così importante: era un onore, una festa, e non sarebbe stato decoroso presentarsi ad una festa con i capelli in disordine. Anche Leonida tentava di mettere ordine a quei capelli che il viaggio dal Peloponneso e la permanenza lì al campo avevano ridotto a setole ispide e polverose.
Fu un ilota, forse, che lo avvisò. «Re Leonida - gli disse - guarda là: una spia dei Persiani». Non credo che Leonida si sia scomodato ad alzare lo sguardo.
«Lascialo andare - rispose - Riferisca pure a Serse che gli Spartani hanno di meglio da fare che preoccuparsi di lui e del suo esercito.»
«Dimmi, Demarato - chiese Serse - che uomini sono mai questi?».
«Sono Spartani, Gran Re.».
«Spartani? Ma chi saranno mai al confronto dei miei Immortali? Vero Mardonio?».
E Mardonio sorrise, schernendo quello spartano rinnegato di Demarato che osava confrontare gli Spartani con gli Immortali del Gran Re. Ma avrebbe riso meno, Mardonio, se solo avesse saputo che ormai le Parche avevano pronte le cesoie per il suo filo, e che quegli stessi Spartani che ora derideva non gli avrebbero permesso di vedere un'altra estate.
La spia di Serse era ancora guardinga, in attesa, quando dal muro delle Termopili uno spartano (con la s minuscola) si scoprì l'inguine urlando «Ridi, ridi su questo, stronzo!». Era Kirinos o Pomicios, chiamato così perchè teneva troppo alle donne. Gli efori ne diffidavano: quando ci fu la guerra con Argo tutti gli altri portarono indietro chi vasellame, chi tripodi, chi oro o argento. Lui portò solo donne. Sette, in aggiunta alle quattro che già possedeva. Undici concubine erano troppe, anche per uno spartano che pareva nato a Sibari, tanto che Andreottida, il Re, un giorno gli chiese se non pensava di esagerare. Kirinos promise, s'inchinò e, di ritorno da Corinto, condusse la dodicesima concubina.

Si alzò nuovamente dal letto. Era necessario un bicchier d'acqua. Quando ritornò in camera gli occhi gli caddero sulla copertina dei Butthole Surfers. Il disco girava ancora.
Quanti anni avranno avuto quegli Spartani? Venti? Venticinque? Trenta? Difficilmente di più. Eppure credevano di aver già vissuto una vita sensata. O forse non si ponevano il problema. O, forse ancora, non erano sicuri di morire: non sapevano che un verme di nome Efialte li avrebbe traditi.
Erano baldanzosi, quando si riordinavano le chiome. Solo Megistia, l'indovino, appariva turbato. Discendeva da Melampo, sapeva leggere i disegni del Fato, e sapeva che per la vita di Sparta gli Spartani sarebbero dovuti morire. Ma forse Leonida era ancora convinto di vincere, forse contava sul valore dei suoi alleati.
Come dimenticare i tespiesi di Craxos? Fino all'ultimo combatterono e morirono (tutti) con gli spartani di Andreottida. Perché avrebbero dovuto pensare alla sconfitta, loro che avevano vinto tutte le battaglie, loro che difendevano quel passo dal fianco sinistro ormai da decenni? Loro erano gli immortali, non quei confusi barbari di cui tanto si parlava. Martinistia solo, il tetro indovino, si aggirava cupo tra un lazzo di Kirinos ‘o Pomicios e un rutto di Gavas la Belva.
Ma su Martinistia lasciatemi spendere qualche parola, ché nobile è la sua genealogia. Di certo un suo antenato fu a scuola dal satiro Sileno da cui imparò il famoso detto poi diventato filosofia di vita per Martinistia: «per l'uomo la cosa di gran lunga migliore sarebbe non esser mai nato; ma subito dopo, morire il più presto possibile». Si dà per acquisito che tra i suoi antenati Martinistia possa vantare quel Laocoonte che predisse la distruzione di Troia, nonché quella Cassandra che anticipò la rovina della casa di Priamo. Molto probabile è che un ramo della famiglia, trasferito in Egitto, abbia generato quel tal scriba che un giorno disse «O Faraone, se fossi in te farei partire questi ebrei». Ma il Faraone non fu del medesimo avviso e seguirono, in ordine:
1) acqua mutata in sangue;
2) rane;
3) zanzare;
4) mosconi;
5) mortalità del bestiame;
6) ulcere;
7) grandine;
8) cavallette;
9) tenebre e
10) morte dei primogeniti.
Inoltre pare assodata la parentela con quell'Artabano, zio di Serse, protagonista, col nipote, di un dialogo che ben s'inquadra nella visione del mondo di Martinistia. Si era sull'Ellesponto e Serse, dall'alto di un monte, osservava le moltitudini del suo esercito che muovevano alla conquista dell'Ellade.
Serse: «Buahh!».
Artabano: «Perché piangi, mio Re?».
Serse: «Buahh...(Sniff..) Penso al fatto che tra cent'anni di tutti costoro nessuno sarà rimasto in vita. Buahh.».
Artabano: «Ma questo è nulla, mio Re. Pensa a quanto ben altro noi soffriamo nella nostra miserevole esistenza. Le disgrazie che ti piombano addosso, infatti, ti fanno sembrar lunga la vita pur se è breve, e così, dato che la vita è penosa, la morte è diventata per l'uomo il più desiderabile rifugio.»
Lascio al lettore immaginare di chi fu discendente quel tale che disse a Cesare «Guardati dalle Idi di Marzo».
Tale era la genealogia di Martinistia, e ad esso ricorsero gli spartani di Andreottida per discernere il proprio futuro. Il minimo che potesse loro capitare era lo sterminio in massa. Per quattro lunghi giorni Re Serse fece attendere il suo esercito ai piedi delle Termopili, simile al cacciatore che trattiene i suoi seguci dall'inseguire la preda appena annusata e dilaniarla tra le zanne: era sicuro, il Gran Re, che al solo vedere la sua moltitudine di armati i Greci avrebbero abbandonato il passo, magari di notte, magari di soppiatto, lasciandogli aperte le vie d'accesso alla Grecia. Per quale ragione questi uomini avrebbero dovuto comportarsi in maniera differente da quegli altri greci, dai Traci, che al vedere le moltitudini che marciavano compatte sul soggiogato Ellesponto avevano implorato «O Zeus, perché prendi l'aspetto di un Persiano e il nome di Serse se vuoi distruggere la Grecia conducendole contro il mondo intero?» Per nessuna ragione, se non che i difensori delle Termopili non erano Traci, ma Spartani.

Erano ormai quattro ore che Daniele aveva chiuso i suoi libri. Era stato subito dopo pranzo, nel giorno prima dell'esame. Inutile studiare ancora, opprimere ancora la mente: meglio lasciarla correre libera. Si alzò ancora dal letto e cambiò disco. Avrebbe voluto sentirsi più leggero, ma in realtà si vedeva come un Atlante reggitore di date e nomi, battaglie e dinastie. Scelse il disco dei Dr. Phibes, un gruppo psichedelico, uno dei migliori degli ultimi anni. Un inizio lento, quasi d'attesa, e poi i pensieri cominciano a farsi più leggeri, volteggiano liberi e ritornano a quelle Termopili appena studiate, all'alba del quinto giorno.
Dienece osservava dall'alto l'esercito del Gran Re, quella moltitudine immensa di Periani, Medi, Assiri, Egiziani, Indi, Arabi, e poi, nei vestiti e con le armi più diverse, i Parti, gli Etiopi, i Libici, i Paflagoni e innumerevoli altri popoli e infinite altre ciiviltà. Tutti radunati ai piedi di quel muro delle Termopili, tutti animati da un solo scopo: conquistare la Grecia.
Dienece scosse la testa: in quella strettoia il numero contava poco, comunque si sarebbe combattuto uno contro uno. E da questa parte c'erano i suoi concittadini di Sparta e il suo Re, Leonida.
«Stanno freschi. Noi qui stiamo e da qui non ci muoviamo». Kirinos o pomicios sorrise sprezzante guardando quella massa informe di barbari che premeva dal fianco sinistro del muro sul quale s'erano abbarbicati.
Gavas, la belva, assentiva: «E chi c'ammazza, a noi?».
Kirinos rise ancora: «Lo vedi, non c'attaccano. Te lo dico io, c'hanno paura». Anche su questo Gavas era d'accordo: «C'hanno fifa».
Si sentivano potenti questi spartani, indistruttibili, inattaccabili. Chi avrebbe mai potuto sconfiggerli? E come? Re Andreottida non sembrava per nulla turbato, e continuava la sua vita d'ogni giorno, inconsapevole della rovina che gli Dei stavano per abbattergli sul capo. S'intratteneva con i suoi, conversando fitto, e pareva che la sua unica preoccupazione non fosse quella di difendere la Grecia dai Barbari quanto, piuttosto, quella di difendere il suo ruolo di Re dalle insidie dei suoi stessi concittadini. Sa poco aveva stretto un segreto patto con Forlandro ai danni di Kiriakos del quale temeva l'eccessiva ambizione.
Intanto, ai piedi delle Termopili, i Barbari cominciano i preparativi della battaglia.
Dienece era Spartano, e dei più valorosi. E il quinto giorno, quando Febo ancora non aveva iniziato la sua corsa folle e monotona per la sfera celeste, era già al suo posto, sul muro. Sentì dei passi. La sua mano corse all'elsa, ma si avvide in tempo che era Megistia, l'indovino.
«Megistia - gli chiese - cosa fai qui? Da quando gli indovini sono anche dei soldati?».
Megistia sorrise a fatica. Dienece lo scrutò interrogativo
«Megistia, mi nascondi forse qualcosa?».
Megistia s'avvicinò ai bordi del muro, e, per lungo tempo, guardò quel formicaio che si stendeva ai suoi piedi.
Sospirando rispose «I presagi non sono favorevoli, Dienece.».
«Tu scherzi, Megistia.».
L'indovino lo guardò con uno sguardo da cui era bandita qualunque ironia.
«Come potrei, Dienece? Come potrei in momenti come questo?». Per lunghi minuti si udì solo il rumore ferrigno di spade e lance: erano gli Spartani che, destatisi, cominciavano una nuova giornata. In lontananza uno sciacallo ululava solitario, forse sentiva approssimarsi l'odore del sangue.
«Cosa vuoi dirmi? - riprese Dienece - Serse conquisterà la Grecia?».
Megistia sorrise «Oh no. Sarà sconfitto..».
«E allora? Come possono essere negativi i presagi? Non ti capisco, Megistia».
«Non saremo noi a sconfiggere Serse..».
«Non saremo noi, gli Spartani? E chi allora?».
«Altri greci».
«E chi? Gli Ateniesi, forse? Quel popolo dedito all'oro dei tripodi più che al ferro delle spade? Quel popolo che quale capo ha Temistocle, forse l'uomo più corrotto della Grecia? Come può vincere un uomo come lui, un uomo che nasconde per sé le prede di guerra e inganna gli alleati?».
Megistia si appoggiò ancora al muro. Ancora udirono lo sciacallo.
«Non lo so, Dienece: io sono solo un povero indovino, riesco solo a prevedere i fatti, e non le cause di questi. Rassegnati: Temistocle vincerà, e grazie alla sua vittoria godrà di fortune quali tu non immagini. Per noi sarà diverso: una lapide sarà il nostro eterno futuro. Ma non rammaricarti: peggiore è la sorte di coloro che moriranno nella vergogna e nel disprezzo dopo una vita di onori e adulazioni.»
Quando improvvisamente fecero capolino i volti di Gavas e Kirinos o pomicios, Daniele capì che era il caso di alzare il volume dello stereo e di prendersi un caffè. Inutile: steso nuovamente sul suo letto, non poteva scacciare quell'immagine tediosa degli spartani di Andreottida che parevano preoccupati da mille cose fuorché dall'unica che importasse.
A parte le tetre previsioni del cupo Martinistia, regnava un clima di spensierata e irragionevole allegria. Sicuri della vittoria brindavano anzitempo, compiacendosi della propria forza e astuzia. Dall'alto del muro Gavas beveva boccali di vino, ruttando ad ogni sorso troppo abbondante. Guardava la moltitudine dei Barbari, che a lui pareva informe e disordinata, e diceva, con aria di supremo schifo, «Questi non vinceranno mai».
Fu preso da un conato di vomito e, quando si fu ripreso, evidentemente più sollevato e disteso, continuò «E sapete perché? Guardateli: sono barbari. Non tengono cultura.»
Ma, in disparte, un uomo singhiozzava in solitudine: era Forlandro, il pavido, una vergogna per la città. Nessuno aveva mai capito come potesse esistere uno spartano così, e gli anziani sottovoce sussurravano di uno straniero giunto qualche mese prima della sua nascita, un uomo della Ionia.
«Voglio tornare a casa» gemeva Forlandro, ma il suo lamento era soverchiato dai canti volgari e licenziosi degli altri. Sì, quella fu una giornata di festa. Ma fu l'ultima.
«Dici il vero?» domandò Re Serse a quell'omuncolo che giaceva prostrato ai suoi piedi. Efialte era il suo nome, figlio di Euridemo e cittadino della Malide. Un traditore. Forse quando nacque fu per la sua casa un giorno di festa: immagino che fu dato un banchetto per celebrare l'avvenimento. E, nel mezzo della cena, i genitori, passando tra i loro concittadini, mostravano orgogliosi il loro erede, ricevendo in cambio auguri e felicitazioni.
E forse quei genitori, fieri e orgogliosi, guardando il nuoovo nato pregustavano per lui un grande e valoroso futuro. Poveretti: meglio sarebbe stato se quel bambino non fosse mai nato.

Già da alcuni giorni Re Serse aveva dovuto ricredersi circa il valore di quegli uomini che, al di là del muro delle Termopili, impedivano a lui e alle sue moltitudini l'accesso in Grecia. Già aveva scagliato contro di loro i Medi, ma inutilmente. Di giorno i cadaveri s'ammucchiavano sui cadaveri, e di notte gli spiriti degli insepolti s'aggiravano tra le tende urlando ubriachi il loro terrore. E ora quel verme, quell' Efialte, era venuto da lui a rivelargli, in cambio di oro e denaro, che in realtà esisteva un altro sentiero, poco conosciuto, che avrebbe permesso ai barbari di aggirare le Termopili e cogliere gli Spartani alle spalle. Re Serse guardò con disgusto quell' uomo. «Dici il vero?» gli chiese ancora. Il verme annuì.
Daniele fece partire il disco dei Fugazi. A Mileto, forse, tra fisici e filosofi, si sarebbero trovati a loro agio i gruppi psichedelici. E a Sibari, tra un banchetto e l'altro, avresti scovato la dance e l'house. E a Delfi, ai piedi del Santuario, di certo avrebbero alloggiato gli Hawkwind, sommi sacerdoti del rock mentre ad Eleusi, credo, avrebbero vissuto e suonato i dark di ogni genere. Ma se un gruppo poteva dirsi spartano, quel gruppo erano i Fugazi. Semplici, essenziali, diretti, spietati. Non si perdono in fronzoli chitarristici, non amano i voli pindarici dei riff. Puntano dritti alla sotanza delle cose. Di poche parole, come gli antichi abitanti della Laconia, gli Spartani.
Si narra che una volta un ambasciatore giunse a Sparta per chiedere aiuto. Fu accolto nell'assemblea e l'ambasciatore, sfoggiando retorica e abilità dialettica, cominciò a raccontare in lungo e in largo le disgrazie sue e della sua gente. A metà del discorso gli Spartani si alzarono e se ne andarono. Troppo lungo, dissero, a metà del discorso avevano dimenticato ciò che l'ambasciatore aveva detto all'inizio. Si replicò il giorno dopo. Questa volta l'Ambasciatore fu estremamente stringato, due o tre frasi, giusto per dire «Abbiamo bisogno di voi» e mostrò loro un sacco vuoto. Gli Spartani questa volta lo ascoltarono, ma giudicarono comunque il suo discorso troppo lungo: bastava presentarsi con il sacco vuoto, senza tante parole.
Così erano gli Spartani. A modo loro, così sono anche i Fugazi.
I barbari s'incamminarono nel cuore nella notte lungo quel sentiero impervio che, partendo dal fiume Asopo, corre lungo la cresta del monte Anopea per terminare al di là delle Termopili. Seguivano la loro guida, Kossigalte, che muto li precedeva pregustando in cuor suo i futuri privilegi che gli sarebbero giunti quale ricompensa del suo tradimento. Non incontrarono ostacoli lungo il cammino, a parte un gruppo di focesi. Li comandava Intinos, un valoroso. Quando da lontano scorse l'avanzata dei barbari, certo che quei soldati venissero lì per loro, i focesi, raccolse le povere truppe e si rifugiò sulla vetta più alta del monte. E lì i focesi si barricarono, aspettandosi da un momento l'assalto dei barbari. E giurarono fedeltà sino alla morte, e Bonivame, la loro sacerdotessa, svolse un rito funebre in onore di Artemide.
I Barbari s'avvicinavano, recando la morte, Intinos strinse l'elsa della spada, rivolse un tacito pensiero a Craxos e si disse che era dolce morire da eroi. I barbari avanzavano ormai a poca distanza, erano ormai a un tiro di frombola quando Idarne, il generale dei Barbari, li scorse. (Intinos intonò un peana). Al vederli Idarne chiese chi fossero mai quei tipi lassù, e al sentire da Kossigalte che si trattava solo di focesi, girò le spalle dall' altra parte.
Pensava agli spartani di Andreottida, come avrebbe potuto perder tempo con dei focesi, per di più capitanati da Intinos e Bonivame? E li lasciò lì, incolumi e scornati, con il peana tra i denti e le vittime mezze cotte sull'altare.
Frattanto, mentre Kossigalte conduceva Idarne e i barbari alle spalle delle Termopili, asserragliati sul muro, gli spartani di Andreottida rendevano nuovo significato alla parola valore. Omero supremo e insuperato, ti prego, prestami per un solo momento un millesimo della Tua Voce, affinché possa io degnamente cantare le gesta di siffatti eroi. Aiutami a cantare di Gavas la Belva, di come egli, inseguendo e braccando il nemico, gli trafigge da tergo il collo con la lama acuminata sicché l'infelice, nel momento di rendere lo Spirito all'Orco, può scorgere, nefanda visione!, la spada ostile che gli sorge dalla bocca e gli oscura la vista. Ed è solo l'inizio, poiché, anelante sangue e morte, una volta abbattuto l'avversario, Gavas gli si avventa addosso, lupo famelico, e, a mani nude, gli strappa il cuore sanguinante e lo addenta feroce. Aiutami, divo Omero, a raccontare di Kirinos o pomicios, di quando, sommo sberleffo, prima di uccidere i nemici, egli sechi loro le vergogne e le inanelli e le esponga, la sera, lorde di sangue barbaro e rappreso. Aiutami ti prego, a narrare dell'infelice Martinistia che si aggira nel campo di battaglia profetizzando, comunque, la morte di tutti, e consolando i pavidi. E tra essi (doloroso a dirsi!) v'era Forlandro.
«Voglio tornare a casa. Al mio paese».
E Martinistia: «Fatti animo, Forlandro».
E Forlandro: «E' bello il mio paese, sai? L'ho fatto ristrutturare tutto..Ho fatto costruire un busto per mio nonno, e una fontana per mia madre. Era maestra, sai?».
«Coraggio Forlandro.».
E Forlandro si scioglie in un pianto vergognoso e tremebondo, china la testa sul petto di Martinistia.
«Consolami, Martinistia» implora sconsolato.
E Martinistia, guardandolo nel profondo, gli accarezza le chiome (sempre pettinate, quelle chiome) e gli parla grave.
«Animo, Forlandro, oggi siamo solo morti eretti. Domani saremo morti distesi: qual differenza fa?».
E Forlandro, singhiozzando ancor più sommessamente
«C'è nessun altro che mi può consolare?».
Daniele ritornò ai Fugazi, almeno quella era gente seria. Che altro si può dire? Solo parole inutili, e a loro non piacerebbe. A modo loro i Fugazi sono Spartani. Inutile discutere di loro, meglio ascoltare il loro disco.
Nemmeno quando fu annunciata la presenza dei persiani alle loro spalle, gli Spartani sprecarono tante parole. Fu un cittadino di Trachis che li avvisò. «Re Leonida! - urlò con quanta voce aveva in corpo - Stanno arrivando! Sono in tal numero che le loro frecce oscureranno il sole!».
Quel tipo di Trachis si aspettava, forse, di leggere il terrore sui volti degli Spartani. Ma vide solo l'indifferenza.
Solo Dienece, il valoroso, commentò: «E allora? Meglio, vuol dire che combatteremo all'ombra.».
Ma quando la notizia che Kossigalte avanzava sul lato destro si diffuse tra gli spartani di Andreottida, l'atteggiamento fu ben altro. Rimasero in silenzio, questo sì, ma non indifferenti. Percossi e attoniti vedevano cedere quel fianco che credevano loro di diritto, acquisito in virtù di volontà divina. Gavas e Kirinos smisero di uccidere, e Kiriakos interruppe a metà un profondo ragionamento. Forlandro alzò i suoi lamenti al cielo e nessuno, nel raggio di duecento stadi, poté fare a meno di udirli. Martinistia sorrideva cupo, quasi soddisfatto. «Ve l'avevo detto» disse infine rivolgendosi ad Andreottida.
Ma fu una voce che si perse nel nulla: stava per iniziare la carneficina.

Già da alcuni mesi Re Serse aveva ingoiato, sul mare a Salamina e sulla terra a Platea, l'amaro fiele della disfatta. Come un ladro, quel Re che aveva sottomesso tutte le genti tra l'Indo e il Nilo, carico di vergogna e terrore era fuggito al di là dell' Ellesponto, recando con sè quel rancore destinato a tormentarlo invendicato per tutta la vita: il rancore verso quel popolo che unico fra tutti aveva sdegnato di donargli acqua e terra in segno di sottomissione, i Greci. E per tutta la vita sarà torturato dalla visione di quei trecento Spartani che, di fronte alle sue moltitudini, non indietreggiarono di un solo cubito ma preferirono morire liberi che vivere servi. Per molti anni ancora sarà destinato a ricordarsi di quel suo generale che, dopo le Termopili, pieno di stupore e sconforto, esclamò «Contro quali uomini ci hai condotto a far guerra? Uomini che combattono non per denaro, ma per valore!».
Ma alle Termopili, passato qualche mese, regnava la calma. Come ad un santuario, i popoli della Grecia si recavano a far voti presso quei tumuli che raccoglievano, gettate alla rinfusa, le ossa di quegli Spartani che erano morti, inconsapevolmente, perché un giorno nascesse Platone. Era un mesto pellegrinaggio, si erigevano tumuli e Simonide incideva sui cippi funebri i suoi versi.
«Qui, un giorno, quattromila uomini del Peloponneso ne impegnarono a battaglia trecento miriadi».
Il sole tramontava quieto, e a stento si sarebbe potuto credere che proprio lì, in quella verde valle tra i monti, solo pochi mesi prima regnavano il sudore, il sangue e le grida.
Terreo in volto, Re Andreottida guardava i barbari che ormai lo assalivano da due fronti. E attorno a lui Kiriakos, Gavas, Kirinos, Formigobulo e una moltitudine di altri condivideva, senza osar pronunciarli, i suoi stessi pensieri: era giunta la fine. Durò poco l'imbarazzo, ché violenta e sanguinosa subito s'accese la mischia. cadde per primo Kitaristis, un uomo probo che aveva fatto della modestia la ragion d'essere e che per tutta la sua esistenza aveva vissuto appartato all'ombra dei Capi. Fu una freccia, scagliata da lungi, quella che gli trafisse il petto. E non l'unica, ché tosto ne seguirono innumerevoli altre: due, tre, otto, venti, trenta. Chi può contarle tutte? Chi può contare i granelli della sabbia di Libia? E quando Kitaristis cadde riverso al suolo e il suo cadavere annegò nel suo stesso sangue, allora la Furia colse gli spartani di Andreottida e, qual lupo a lungo trattenuto in gabbia che, per un malaccorto custode, inopinatamente si vede restituire la libertà e fugge sbavando rabbia e furore, così Kiriakos e Gavas e Kirinos e lo stesso Formigobulo imbracciate le scuri e le spade si lanciarono contro il nemico.
Formigobulo: persino lui, il pio sacerdote di Dioniso che ora, abbandonate le processioni e gli abiti sacerdotali, si gettava nella mischia con gli altri, conscio di difendere se stesso e la sua gente.
Ma non tutti partecipavano alla pugna. Triste a dirsi, un uomo isolato gemeva la sua fine. Era Forlandro che, incurante della battaglia piangeva la triste sorte sua, e della sua discendenza. «Che sarà di noi? - chiedeva affranto a Kiriakos - Come saremo ricordati?».
Avresti potuto dire, guardando quella verde valle che solo pochi mesi prima si era lì consumata una tragedia di cui ora rimaneva solo il ricordo? Avresti potuto immaginare quella quiete rotta dal furore della pugna? Daniele, avresti potuto immaginare che quello stesso giradischi che ora ti permette di ascoltare Neil Young solo pochi momenti prima ti trasmetteva l'impeto dei Fugazi? E avresti potuto immaginare che a quel rigido furore sarebbe succeduto il miele del ricordo?
A egregie cose il sensibile animo accendono i solchi dei dischi, o Daniele, e miti e cortesi fan i tuoi altoparlanti. Quando tu vedesti la copertina con la foto di quel tale che l'Harvest cantò fatale e che la diversa Y aggiunse a Crosby, Stills e Nash, e quando leggesti, nel retro di copertina, che antiche e pie canzoni eran lì contenute, quelle stesse onde imperituro sarà il nome suo, e quando di diverse versioni capisti che si trattava, quando leggesti che Helpless era tra le canzoni e che, eccelsa schiera, l'accompagnavan fedeli The needle and the damage done nonché quella Mr. Soul primigenia per tacer di Hurricane e molte altre: «Me beato» gridasti, per il fatto che quest' uomo deciso s'è a riscoprir lo passato suo, che nol disdegna per inseguir sterili mode e futili costumi.
E Simonide saliva sui tumuli, guardando silenzioso le ossa di Leonida e degli Spartani. In trecento furon lì mandati da Sparta, e di trecento eran lì le ossa. Di trecento, salvo uno: Aristodemo. Fu l'unico che scampò a quella morte e, ritornato a Sparta, comprese che meglio sarebbe stato per lui morire. I concittadini non lo degnavano di una parola, e quando nelle serate ventose il focolare gli si spegneva non uno, tra gli Spartani, gli regalava una stilla di fuoco per accenderlo nuovamente. Visse spesso al freddo, in quell'anno, ma nulla era in confronto al gelo che sentiva nel cuore. Straniero in Patria, disonorato. Ma poi ci fu Platea. Si arruolò, fu mandato in battaglia. E raccontano che come un ossesso si lanciò contro i nemici e combatté fino a trovare quella morte che lo inseguiva dalle Termopili. Allora fu sepolto tra gli altri, e il suo nome fu ricordato, e da allora il suo spirito riposa in pace.
Quella pace che avrebbe voluto trovare alle Termopili, nell'infuriare della mischia, quando Gavas la Belva si lanciò da eroe contro i nemici e fu abbattuto da una una scure che gli squarciò il cranio.
Anche Andreottida si lanciò da eroe, e fu una lancia vigliacca quella che lo abbatté. Subito si accese una mischia sul suo cadavere e Formigobulo e Kirinos si azzuffarono per impossessarsi dello scudo. Opera mirabile, degna d'Efesto. Vinse Kirinos, ma godé per poco della vittoria, ché una freccia gli trafisse il suo diletto inguine. Ferita dolorosa, cui non v'è rimedio. E cadde rovesciando il suo corpo tra gl'infiniti altri.
«O Straniero, riferisci agli Spartani che siamo qui per obbedire ai loro ordini». Questo incise Simonide sul tumulo di Leonida, conscio che per mille e mille anni quella valle, e quegli eroi saranno ricordati come esempio di ciò che si deve fare. Non di ciò che è santo, giusto, nobile, o non so cos'altro, fare: semplicemente l'esempio di ciò che si deve fare. E basta.
«Kiriakos - singhiozzò Forlandro - dimmi ti piace?».
Kiriakos depose per un momento la spada e si chinò. Durante la battaglia Forlandro aveva inciso, con la punta di un temperino, una pietra. Aveva scritto: «Qui giacciamo noi. Fummo potenti, un tempo. Abbiate pietà di noi».
«Bello» disse Kiriakos, ma i Medi avanzavano ormai a pochi cubiti. Minacciosi, assetati di sangue. Propose un ultimo ragionamento, ma un'ascia pose fine, una volta per sempre, alle sue congetture e ai singhiozzi di Forlandro.
Fu la vacca di un certo Trazibulo, un pastore di Alpena, figlio di Astrigene, che scovò, qualche tempo dopo, quella pietra. La trovò molto stimolante e vi espletò sopra. Trazibulo accorse, raccolse l'espletato e la stele e buttò il tutto nella concimaia. Era una buca profonda nella quale, nelle notti di plenilunio, vedevi biancheggiare, nel marrone denso e scuro, le ossa di Kirinos, Gavas, Forlandro e persino di Re Andreottida.
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giovedì 3 giugno 1993

Per la Gloria di Sebat

Anno 2043, nella tranquillità d'una casa signorile italiana, un uomo di colore è seduto davanti al suo Computer, e, parlando nel suo dittafono, scrive una pagina di un suo diario. Accanto a lui, sulla scrivania, un antico Compat Disc risalente, evidentemente, all'ultimo decennio del secolo scorso. E' quello dei Farafina, un portentoso gruppo di percussionisti del Burkina Faso. Ogni tanto, da una stanza in fondo al corridoio, si alza una voce che lo chiama e allora il nostro uomo lascia il dittafono e si precipita via. Ma poi, dopo qualche minuto, ritorna e ricomincia a scrivere.


10 giugno 2043

Da qualche giorno il Dottore si è ripreso, e finalmente ho qualche momento di pausa che utilizzo per continuare questo mio diario. E’ stato molto male, e temo che nonostante l'ultimo trapianto di rene ormai i suoi giorni siano alla fine. In fondo è un brav'uomo, e anche se non è illuminato, io spero che Allah, che è grande e misericordioso, voglia accoglierlo nel giardino dei beati. Spesso mi sorprendo a pregare, di nascosto, per lui. Una volta mi sono confidato con il nostro imam, nel corso di una riunione nei sotterranei, e anche l'imam mi ha confermato che la Misericordia di Allah è infinita. Ma se il Dottore lo sapesse, sono certo che si arrabbierebbe moltissimo. Da qualche tempo, infatti, forse perché‚ sente avvicinarsi la fine, ha aumentato la sua devozione Sebatista. Ormai i suoi cicli di litanie sono tre al giorno, il numero proprio del Perfetto, e rimane impegnato a volte per sette o otto ore consecutive. “Perché‚ non diventi anche tu un Sebatista?” mi ha chiesto proprio ieri. Credo di non avergli risposto, o comunque di essere stato vago: non vorrei deluderlo in maniera eccessiva. E l'altro giorno, guardando un documentario sulla Guerra del Polo mi ha confidato che sente prossima la sua fine e la sua reincarnazione in un pinguino. In tutta fretta ha quindi chiamato Marian, la sacerdotessa Sebatista del quartiere, e Marian, dopo avergli a lungo letto la mano, e dopo aver per ben tre volte distribuito le carte sul tavolo ha confermato che sì, era possibile: forse si sarebbe reincarnato in un pinguino. “Forse nella tua vita sei stato troppo ardente, fratello?” gli ha chiesto Marian. E al Dottore che timidamente rispondeva che forse sì, in effetti, talvolta si era anche lasciato trasportare, Marian ha confermato che talvolta Sebat si serve di reincarnazioni di contrappasso, giusto per riequilibrare l'Umore del Cosmo. In ogni caso, ha proseguito Marian, è solo un passaggio: con tre serie di litanie al giorno la Perfezione futura è assicurata.
Il Dottore pareva molto sollevato, dopo quell'incontro, e penso che in parte dipenda da esso il suo ritrovato stato di salute. Oggi poi si sente davvero in forma: già per tre volte mi ha chiesto se è arrivato al computer il nuovo Catalogo...Ma sento che mi chiama, devo andare.

11 giugno 2043

La sua salute è ancora migliorata, tant' è che oggi si è alzato col proposito di arrivare alla quarta serie di litanie. Circostanza, questa, che gli farebbe acquisire il diritto di scegliersi in parte la prossima reincarnazione. Adesso desidererebbe diventare un bisonte delle praterie. (Ritengo che ieri abbia visto un film western del secolo scorso). Nei momenti di intervallo, tra una litania e l'altra, continua a chiedermi del Catalogo: questo mese sembra in ritardo. Nel complesso comunque, grazie alla sua devozione, ho più tempo per me.
Il mese scorso mi è capitato tra le mani un vecchio disco di un gruppo del Burkina Faso, certi Farafina e ho impiegato molto tempo per cercare di trasferirlo con risultati soddisfacenti nella memoria del computer del Dottore. E' un disco di sole (o quasi) percussioni, e mi è sembrato di livello decisamente superiore. Ho consultato qualche banca dati musicale, ma non ho avuto molte informazioni.
Questi Farafina avevano precedentemente inciso un paio di dischi, uno da soli e un altro in collaborazione con Hassel. Poi, nel '93, erano stati messi sotto contratto dall'etichetta di Peter Gabriel.
La Banca dati ricorda che questi era anticamente il cantante di un gruppo chiamato Genesis ma poi, a metà del decennio '70, si mise in proprio. E alla fine del decennio ancora successivo, divenuto un
appassionato di musiche etniche e popolari, realizzò un'etichetta allo scopo di produrre gruppi e suoni poco conosciuti, tra cui i Farafina.
Ecco, ogni qual volta mi capita di ascoltare un disco del genere, non posso fare a meno di chiedermi se i miei nonni lo ascoltassero. Ammesso poi, che avessero tempo per ascoltare musica. Mi piacerebbe conoscere il luogo d'origine della mia famiglia. Da dove venivano? La mia analisi genetica non scioglie il dubbio: il responso è molto incerto, segno che la mia mappa risulta essere la commistione di numerosi ceppi. Chi erano i miei nonni e i miei genitori? Perché mi hanno abbandonato all' orfanotrofio? Cosa facevano? Forse erano solo dei poveri disgraziati, costretti a vivere di espedienti, in baracche di fortune che s'incendiavano regolarmente una settimana sì e l'altra no? Un giorno il Dottore mi ha detto che sono stato molto fortunato a capitare con uno come lui. Forse non ha tutti i torti. In fondo non mi ha mai messo le mani addosso, e solo Allah (che è
grande) solo sa a quanti ragazzi è capitato. Inoltre non mi ha mai adibito a mansioni troppo gravose, e solo quando s'arrabbiava (cosa che avveniva in verità di rado) minacciava di ritirarmi il nulla osta alla permanenza e di rispedirmi da qualche parte in Africa. Ricordo ancora, quando s'arrabbiava, come diveniva rosso in volto. “Ti faccio rispedire in Africa! - urlava - Lo sai quanti sarebbero disposti a venire a lavorare molto più duramente di te per un pezzo di pane? Lo sai, Bongo? (quando s'arrabbiava mi chiamava così) Lo sai, vero?” Certo che lo sapevo. Migliaia, addirittura milioni di persone dal Senegal e dall'India, dal Pakistan e dal Congo, se solo potessero venire qui, magari a lavorare per cinquant'anni nella più profonda delle miniere, si precipiterebbero di corsa. Dev'esser brutta la fame. Ma il Dottore chiama ancora, ormai il Catalogo è diventata un'ossessione.

12 giugno 2043

Il disco dei Farafina. Mi pare proprio che si tratti di un capolavoro. Ma sono io a giudicarlo così, magari in virtù di un qualche legame di sangue inconscio? Eppure no, credo che lo sia oggettivamente. Quasi solo percussioni, a parte qualche inserto vocale o di flauto. Eppure non si sente la mancanza di nulla: quelle percussioni, da sole, valgono un'orchestra. E così già il secolo scorso l'Africa era in grado di produrre opere d'arte del genere. Strano, leggendo i libri di storia si ha quasi la sensazione che in quel periodo l'Africa sia stato solo un Continente mosso dalla necessità di riempire lo stomaco. Ma forse i nostri storici attuali non sono troppo informati.

13 giugno 2043

Oggi finalmente è arrivato il Catalogo. Il Dottore mi ha chiesto di portargli di là lo schermo del Computer per guardarlo meglio, e si è così interessato che oggi si è limitato a due serie. E' strano pensare che solo qualche decennio fa il Catalogo era una cosa quasi proibita. “E' stata una lunga battaglia” mi raccontò una volta il Dottore. Una battaglia vinta per aiutare migliaia di povere ragazze del quarto mondo condannate ad una vita in fabbriche mortali. “Una lunga battaglia” mi ha ripetuto oggi guardando il catalogo. Un' immagine più delle altre lo attirava, era una ragazza cambogiana di sedici anni. Non riusciva a distinguere le scritte. “Quanto costa?” mi ha chiesto. Non era nemmeno troppo cara, la scheda riportava una lieve imprecisione nell'andatura. Tutto sommato era un affare: la sua famiglia si accontentava di un prezzo piuttosto basso pur di farla volare in Europa. Ho cercato di dissuadere il Dottore: alla sua età rischierebbe di compromettere il cuore. Tra l'altro ha già effettuato tre trapianti, e i rovesci finanziari oggi non gli permetterebbero che un cuore di seconda scelta, magari di un uomo già in là con gli anni. “Pensi alle preghiere” l'ho invitato. Il Dottore ha sospirato, e riusciva a stento a staccare gli occhi dallo schermo. Ma poi s' è lasciato convincere, e ha ripreso le sue litanie.
Non disdegnerebbe di diventare un koala.

14 giugno 2043

Il Dottore ha trascorso l'intera giornata a pregare. Ormai nessuno più lo viene a visitare, da quando ebbe le sue piccole traversie politiche. Eppure da giovane era un uomo molto ricercato ma il Dottore è un filosofo, non recrimina sulle sue sventure. “Vedi - mi disse una volta - io credo che questo nostro mondo oggi sia migliore. Sì, lo credo proprio. I tuoi genitori chissà chi erano, magari sono morti di mala morte, mentre tu, invece...Sì, il mondo è migliorato”. E questi pensieri pare che lo consolino non poco. In fondo È un buon uomo. E poi c'è la sua fede, non la condivido ma lui ne è infervorato. Oggi pomeriggio per l'ennesima volta ha cercato di parlarmene. “Perché‚ non ti converti? - mi ha chiesto - Magari potresti reincarnarti biondo e con gli occhi azzurri.”

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lunedì 15 febbraio 1993

La ballata del Ragioniere

Questa filastrocca fu scritta per i Siciliani nel febbraio del 1993, quando i partiti della I Repubblica si sgretolavano nell'era di Mani Pulite e quotidianamente nascevano nuovi movimenti politici. Non era diffile immaginare che, all'interno di questi nuovi movimenti, avrebbero finito per prendere il sopravvento coloro che avevano fatto strada negli anni precedenti. Forza Italia sarebbe nata un anno dopo.

1
Diva, perché mai i ragionier non canti?
Solo morti in gloriosi accadimenti
tu stimi e di virtuosa luce ammanti:
eroi, guerrieri, persone eminenti.
Dimmi allor, chi il mondo manda avanti,
gli illustri morti o vive e piatte genti?
Da te ignorata, per gli altri val niente,
tal è del ragionier vita dolente.
2
Musa antipatica assai e silenziosa:
d' eroismi ignoti si nutre ogni vita,
persin d' un ragionier. E se sdegnosa
tu sei, sarà a me condur la partita,
mostrar come qualmente esser curiosa
può la canzon da te così impedita.
Narrar andrò colui che nulla vale
ché‚ di sua vita a niuno gliene cale.
3
Schiva gli spassi, da donne è schivato,
un uom tranquillo, una casa modesta.
Ama il lavoro, ma non ricambiato,
mai tu l' immagini a levar protesta.
Non ha ambizioni, s' inchina al suo fato
un solo dogma: tener vita onesta.
Così durò per quasi quarant' anni,
per sua colpa nessun pianse danni.
4
Ma giunto ormai nel mezzo del cammino
nel far la barba si guardò allo specchio:
ben ricorda quand' era ragazzino
ma vede il volto suo diventar vecchio.
Fece tardi in ufficio quel mattino
e l'immondizia si scordò nel secchio.
Evase pratiche, controllò un rientro
eppur qualcosa gli gemeva dentro.
5
E per quanto forzasse l'attenzione,
lo sguardo suo fuggiva le fatture:
solo pel muro provava attrazione.
Severo il capo: “L'influenza ha pure?”
chiese irritato da sua distrazione.
“No” rispose ingoiando congetture,
ed una scusa s'inventò di getto
che del suo capo placasse il sospetto.
6
“Così non va, ragionier, così spreca
tempo, denaro e pur l'intelligenza!
Mi dica, ha visto già quell'ipoteca?”
“Ancor no”.”Ragionier, la mia pazienza
è lieve. Qui non siamo in discoteca!
Vuol lavorare o vuol beneficenza?
Se di più non sa far, al bar giù scenda,
sforzi il cervello ed un caffè mi prenda!”
7
Il siberian anticiclone arreso
s' era ad atlantici venti piovosi
e già rombava il temporale atteso,
quando, rientrando a sera, di gravosi
turbamenti sentì lo strano peso
quel ragionier, sì che parea in ipnosi.
Sua vita vaglia e crede vagliar nulla:
cos' ha costruito da quand' era in culla?
8
Per cosa mai sarà lui ricordato
dieci minuti appresso il funerale?
(Se pur..) E chi mai avrà sua cassa a lato?
Questa è la paga per 'esser leale?
Inquieto si sentiva ed umiliato.
(Bagnato anche, a cagion del temporale)
Per risparmiare allora il suo cappotto
vide un balcon e riparò lì sotto.
9
Mentre aspettava che infine spiovesse
da un manifesto gli occhi suoi fur tratti.
Di politica non avea interesse,
anzi, stimava in fondo un poco matti
quei che credevano che ideali avesse
e non capivan ch' eran sol baratti.
Non che per ciò temesse il progresso
solo che fosse non troppo sconnesso.
10
Era il tempo del gran rinnovamento
e ognuno ovunque star saggio credeva
o, nel caso, fondar un movimento.
Proprio su ciò il manifesto verteva:
annunciava serale appuntamento
che sul moral senso farebbe leva.
(Avevano accordato lor presenza
solo onesti al ripar d'ogni sentenza).
11
Lesse e rilesse il ragionier l'avviso
finché la pioggia tregua non concesse.
Allora verso casa volse il viso
come la storna di cui a scuola lesse.
Giunto infin nel modesto paradiso
al capezzal di due patate lesse
“Così non va - disse - devo cambiare!
Oltre non voglio la vita sprecare!”
12
Già: ma a dir è facile, a far non tanto.
Da soli poi! Cimento da titani,
non da chi del diploma sol fa vanto.
Che far? Ancor rimandare a domani
sperando l'intervento pio d'un santo?
In prigione s'era messo con sue mani...
Eppure no: non stavolta. Cambiare
dovea. Mutare. Fare e rinnovare.
13
Quel manifesto...Quella gran riunione...
Se fosse? Quel che a singolo è divieto
conquistare lo può l'associazione.
Perché‚ no? In fondo a tentar non c'è veto.
Ancor tuonò quando uscì dal portone
e il marciapiede gli pareva un greto.
Ma risoluto era ormai il ragioniere:
non certo il clima lo potea tenere.
14
Si rifletteva sull' umido asfalto
il bel teatro e, falene incantate
da lampade notturne, all'assalto
movean persone serie e timorate,
riformator cortesi e senza appalto.
Incerto e timido alle gran vetrate
s'avviava il ragionier: ché‚ resistenza
spesso opponea a nuova conoscenza.
15
Ma quella sera un' aria respirava
diversa e strana. Sorrisi auguranti,
cordialità: l'un l'altro salutava
(anche se ignoto o quasi) e tutti quanti
il comun sentir affratellava.
“Che piacer! Prego, ma vada lei avanti!”
Il ragionier vinse infine l'esitare
e nel teatro entrò senza indugiare.
16
Molti eran già seduti nell'attesa
dell' intervento nobile e importante:
parlar dovea un'eccellenza mai arresa
e prevedevan discorso vibrante
che al governo lanciasse aspra contesa.
Guardò quindi la fila retrostante
il ragionier, cercando una poltrona
libera e un po' discosta in quella zona.
17
Quando una scorse rimasta ancor vuota
s'incamminò, ma “Ragionier lei pure”
da prime file udì una voce nota.
Subito gli tremaron le giunture
ché vide il capo, a suo agio in una ruota
d'eleganti person di sé‚ sicure:
illustri professori e dirigenti,
notai, avvocati insigni e presidenti.
18
Desiderò d'un tratto sprofondare
giù nell'inferno più basso e lontano,
e di vergogna si sentì avvampare
quando il capo con cenno della mano
democraticamente a presenziare
il benestar diede con far sovrano.
Con morituro incedere e depresso
s'avvicinò al dirigenzial consesso.
19
Disquisivan tra lor amabilmente
di sorti patrie con scelta eloquenza,
paventavan il deficit crescente
e delle istituzion l'obsolescenza,
l'esportazion tenean bene a mente
non trascurando sindacal vertenza,
sul quadro generale sospiravano,
per l'avvenir de’ figli s'angosciavano.
20
Eran persone assai belle a vedere:
vestiti in tinta, gesti rilassati.
Forte imbarazzo provò il ragioniere
nel dar la mano a un di quei avvocati
e nel sentir il capo “Che piacere
vederla qui tra i nostri associati.”
Sorrise timido a quell'adulazione,
ma di fuggir cercava l'occasione.
21
L'aiutò la fortuna quella volta
ché un grande applauso annunciò l'ingresso
dell'eccellenza sì famosa e colta.
Si levò in piedi esultante il congresso
e lui la gente intorno a sé raccolta
salutava garbato e senza eccesso.
“Grave è il momento - dicea turbato -
l'atteggiamento teniam moderato.”
22
E qual colui che al suo dover s'inchina
al grande palco l'eccellenza andava
tra applausi della folla a lui vicina.
Sol quando prime file attraversava
parve recuperar la parlantina:
comuni studi con lor ricordava,
mutue amicizie e simil esperienza,
facendo ritardar la conferenza.
23
Per general distrazione scordato,
il ragionier ben pensò d'arretrare,
ma sol due metri aveva conquistato
che “Ragionier” chiaro udì bisbigliare.
(Era il capo) “Sol ora ho notato..
- diceva - L'acqua mi sembra mancare!
Trovar bisogna un'acqua minerale!
Veda se ancor è aperto il bar del Viale.”
24
Partì per la missione il ragioniere
mentre iniziava l'atteso discorso
e si trovò da solo nel quartiere:
non c'eran macchine per via del Corso,
luci ogni tanto sol potea vedere
d'autoambulanze e mezzi di soccorso.
E finalmente giunse al bar del centro
ma ancor qualcosa gli gemeva dentro.
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giovedì 21 gennaio 1993

Un cadavere interessante per l'Ispettore Callaghan

CAPITOLO 1

«Cal, hai visto il cadavere?» chiese O' Neil. Buon vecchio O' Neil, per lui era una forma di cortesia, come dire «dopo di lei». «No - rispose Callaghan - raccontamelo tu.».
A Callaghan i cadaveri non piacevano. O'Neil partì facendosi largo tra i flash della scientifica. Per un momento sembrò un attore famoso. Scostò il lenzuolo, guardò con aria esperta (buon vecchio O' Neil, se ne intendeva di cadaveri, lui..) e riabbassò il lenzuolo. Ritornò verso Callaghan che lo aspettava fumando la solita Camel.
«Cal - disse O' Neil - credo che tu lo debba vedere.».
«Devo proprio?».
«Credo di sì, Cal, questo ne val la pena..».
«Uomo o donna?» chiese Callaghan.
«Una via di mezzo» rispose O' Neil.
Buon vecchio O' Neil, conservava il pudore del vecchio irlandese cattolico e lentigginoso.
«Travestito?» chiese Callaghan.
«Già» rispose O' Neil.
S'incamminarono giù per la scarpata. Quello che rimaneva del travestito era immerso in un fosso pieno di fango e lattine da riciclare. Attorno una folla eterogenea di agenti di polizia e variopinti transessuali. Qualcuno piangeva. L'agente Wilcox scostò il lenzuolo. Callaghan odiava i cadaveri. Soprattutto quelli resi tali da un maniaco.
«Mio Dio» disse Callaghan.
«Già» confermò O' Neil.
Callaghan guardò meglio il cadavere, ciò che restava dei seni al silicone, del ventre.
Nel Colorado aveva visto panorami migliori.
Gettò la Camel nel fango. Si spense sfrigolando.
E poi: «Ma il braccio, che fine ha fatto?».
«Non lo sappiamo. Amputato via.» rispose O' Neil.
Cadavere interessante.


La visita turistica era conclusa. Tornarono al Commissariato. L'edificio del Commissariato era una schifezza. Quando furono ultimati i lavori l'architetto si suicidò. Ma prima aveva voluto lasciare al mondo una prova tangibile del suo odio per l'umanità. In questo senso il Commissariato era un'opera pienamente riuscita.
Anche la macchinetta del caffè del Commissariato produceva schifezze. Almeno erano schifezze calde. O' Neil era stanco, gli mancava poco per la pensione. Si era seduto su una panca, sonnecchiando davanti al registratore. Strana musica, quella sera.
«Non sapevo che ti piacesse la musica classica» gli disse Callaghan.
«Nemmeno io» rispose O' Neil.
O'Neil era rimasto a Fats Domino.
«Ma che disco stai ascoltando?» chiese Callaghan.
«Un disco in cui suona Spillane...- rispose O' Neil e, quasi a scusarsi - Non credevo che fosse una cosa così classica».
David Spillane era uno dei grandi del folk irlandese.
O'Neil non era mai stato in Irlanda, ma questo non era un buon motivo per non riempirsi la casa di dischi irlandesi e trifogli. A casa sua aveva fatto mettere le carte da parati verdi. I vicini sospettavano che fosse daltonico.
Bussarono alla porta. Era l'agente Jefferson. Era irrequieto, l'agente Jefferson.
«Novità?» chiese Callaghan.
«Abbiamo fermato un..una...insomma: è qui. Dicono che conosceva bene il cadavere».
«Beh? Che aspetti? - chiese Callaghan - perquisitelo e portatelo qui.».
Jefferson esitò: «E' questo il problema, Ispettore..».
Chioma fluente, pantacollant attillatissimi a pelle di leopardo, uno stretto gilet rosso da cui scaturivano due tette magnum. Molto rossetto, sulle guance, sulle labbra, e molto trucco. Gli agenti, in semicerchio, guardavano perplessi. Wilcox era sicuro: «Per me è una donna».
Frazer no: «Scommetto un caffè che è un uomo.»
La Baumann era d' accordo con Frazer: «Quello è un uomo come è vero che io sono una donna».
I nonni della Baumann venivano dalla Westfalia. Quando Wagner vide la bisnonna della Baumann decise di comporre la cavalcata delle Walkirie.
«Tu saresti una donna?» chiese Wilcox alla Baumann.
La Baumann gli mollò un pugno sulla guancia destra. Era una donna: non c' erano dubbi.
«Calma ragazzi» li separò Callaghan.
Guardò la chioma fluente cercando di evitare le tette.
«Tu - chiese Callaghan - da chi vuoi essere perquisit... cioè.. insomma, da chi?».
Un indice con tre anelli puntò la Baumann.
«Vai tu» disse Callaghan alla Baumann.
«Ispettore..» cominciò a protestare la Baumann.
«Vai» confermò Callaghan.
La Baumann non replicò: obbediva agli ordini. I suoi nonni erano della Westfalia.
Trascinò le gambe di leopardo in una stanza. Chiuse la porta. Gli agenti erano in attesa. Dopo pochi secondi la porta si spalancò. Era la Baumann. Con le mani tese all' altezza del viso indicava una distanza di trenta centimetri.
«Ve l' avevo detto - disse - grosso così».
«Vai tu» disse allora Callaghan a Frazer.
«Ispettore! - si oppose Frazer - Con quelle tette!».
«Facciamo così - propose O' Neil - tu perquisisci la parte di sotto e la Baumann la parte di sopra.».
Buon vecchio O' Neil: cercava sempre di mettere d' accordo tutti. Callaghan tagliò il nodo di Gordio.
«Lasciate perdere: portatela nel mio ufficio».
Entrò sculettando depressa.
Si accasciò affranta sulla sedia. Volto devastato dalle lacrime e dai rigagnoli di trucco nero. Cominciava ad assomigliare ad un quadro di Pollock.
«Come ti chiami?» chiese O' Neil.
«Miguelita» rispose.
«Conoscevi quello che hanno ucciso?».
Crollò in un pianto dirotto.
«Ohi Sancita! Oh sì que la conoscia. Ohi Sancita! Nos vivevamos en mismo apartamiento».
Fu sopraffatta dalle lacrime.
«Coraggio» le disse Callaghan.
Si alzò dalla sedia e le poggiò la mano sulla spalla. Miguelita era un torrente di lacrime, un uragano di singhiozzi, un ciclone di disperazione.
Ma con la coda dell'' occhio sbirciò la mano di Callaghan.
«Inspector - chiese - no tiene mujer?».
Callaghan ritirò la mano.
«No, non sono sposato».
«Acaso - chiese ancora Miguelita - volés una mujer (si leccò il labbro) especial?».
«No grazie» declinò Callaghan.
Miguelita riprese le lamentazioni: «Ohi Sancita!»
«Mi scusi, Madame - chiese O' Neil - ha idea di chi può aver ucciso la signorina Sancita?».
«Ohi Sancita!» .
«Si faccia forza, Madame. Ha qualche idea?».
Miguelita disse «Bueno».
Le lacrime s' arrestarono.
Aprì la borsetta. Tirò fuori un crocefisso di plastica, una zampa di coniglio, tre preservativi, un rosario e, infine, uno specchietto. Si guardò a lungo, con disappunto. Poi, con il rossetto, tentò di ripristinare il disastro tardo espressionista. Terminata l' opera di restauro richiuse tutto nella borsetta. Poi si guardò attorno, controllando che la porta fosse ben chiusa. Chinò la faccia quasi a toccare la scrivania.
«No es un assassino» sussurrò sottovoce.
«Ah no, eh? - chiese Callaghan - E Sancita? Si è suicidata?».
«Noo! No suicidio: Sancita ha stata matata!».
«Ma chi è stato?».
«Shh! Silencio!» intimò Miguelita.
Si guardò ancora una volta attorno.
Poi abbassò ancora di più la voce, costringendo Callaghan e O' Neil a chinarsi verso di lei, e farfugliò «fgfffelofffffnator».
«Eh?» chiesero all' unisono Callaghan e O' Neil.
«Fgfffelofffffnator» ripetè Miguelita.
«Ma che diavolo sta dicendo?» chiese Callaghan.
Miguelita rialzò impettita la testa e, a sprezzo del pericolo, scandì coraggiosamente
«Es l' Angelo Exterminator».
Poi si fece il segno della croce.
«Chi? Chi è costui?» chiese Callaghan.
Miguelita abbassò ancora la voce: «No es 'costui'!. Es un Angelo venido por punir todos peccatos.».
«Ma come diamine ti viene in mente?» chiese O' Neil.
Miguelita lo guardò (idealmente) dall' alto in basso.
«No soy io que dicere: es Micales. ».
«Micales? Chi è Micales?» chiese Callaghan.
Miguelita abbassò ancora la voce. Callaghan e O'Neil dovettero chinarsi un'altra volta. O'Neil era imbarazzato, aveva un posto di prima fila sulle tette.
«Micales es una maga potente. - sussurrò Miguelita - Muy potente e muy maga. Micales dice que Angelo es venido por destrozare esto mundo depravado..»
O'Neil si rialzò.
«Beh sì, in effetti, un po' depravato è» commentò O' Neil guardando Miguelita.
«Muy depravado - confermò Miguelita con foga -. Todos me diceban que in esto pais estaban todos maschiones virilones. Ma yo no trobar: todos clientes me fare macho e ustedes far la mujer. Comprendes? Mi far el macho!».
«Ohh!» commentò O' Neil.
Ma l' interrogatorio fu interrotto: bussarono alla porta. Questa volta era Wilcox.
«Ispettore, è arrivato un pacco per lei. Il detector dice che c' è qualcosa di metallico: lo attendeva o chiamo gli artificieri?».
«Non aspettavo nessun pacco» disse Callaghan.
Arrivarono gli artificieri vestiti da palombari. Tutti si ripararono, chi dietro un muro, chi dietro una scrivania. Un palombaro tagliò la carta mentre l' altro passava e ripassava una specie di sonda. Erano delicati, quei palombari, nonostante le tutone.
Momenti di tensione. La Baumann imprecava contro gli islamici.
E dopo cinque minuti un palombaro annunciò: «Non c' è esplosivo».
I presenti tirarono un sospiro di sollievo.
Il palombaro aprì il pacco. E poi guardò il contenuto. Sulle prime rimase immobile, come impietrito dallo stupore. Poi cadde al suolo svenuto. Il rumore di ferraglia si sparse per tutto il Commissariato. Gli agenti presenti estrassero le pistole. Il Commissario scappò in bagno. Callaghan e O' Neil si avvicinarono al pacco. L'altro palombaro continuava a roteare la sonda. Il sogno della sua vita era interpretare una puntata di Star Trek.
Callaghan guardò il contenuto. C' era una teglia, e dentro delle patate al forno. E, tra le patate, cotto a puntino, un braccio. A fianco un biglietto: «Buon appetito, Ispettore Callaghan». Era firmato. L' Angelo Sterminatore. Callaghan rimise la pistola nella fondina e si accese una Camel. Il gioco si faceva duro.


CAPITOLO 2

Il caffè bolliva. Era pronto. Callaghan no: in genere si svegliava due ore dopo il risveglio. Uscì dal bagno pensoso. Spense il fuoco sotto il caffè e cercò una tazza nella credenza. Erano finite. Anche i piatti. Al ritorno sarebbe dovuto passare al supermercato e prenderne una dozzina. Quelli economici: tanto non riceveva mai nessuno. Per fortuna aveva ancora un vecchio bicchiere.
Si avvicinò al lavabo e scrutò l' immensità di piatti e posate e tazze e bicchieri che attendevano invano una goccia di detersivo. Una settimana di quelle si sarebbe dovuto decidere a lavarli.
Il caffè faceva schifo. Mancava solo una cosa per rendere peggiore quella mattina: una telefonata del Vice Capo della Polizia, il suo ex Commissario. Il telefono squillò.
La solita voce unta e cicciona.
«Ben alzato, Callaghan».
«Umph».
«Ho saputo che ti occupi tu del caso di quel travestito, di quel Sancho Hernandez. In arte Sancita. Uah Uah!» cominciò a ridere grassamente da solo. «Ma di', ma l' hai capita. Uah Uah. Capisci? In arte! Uah Uah».
«Che c' è Capo?».
«Uah Uah (oh Signore..) Volevo dirti (uah) che è proprio chiaro: un regolamento di conti tra froci. Artisti però. Uah Uah...».
«E allora, Capo?».
«E allora (Uah uah) volevo dirti che forse non è il caso che un investigatore come te sprechi il suo tempo dietro un caso così..».
«Capo, ieri sera mi hanno spedito un braccio arrosto.».
«Lo so, lo so, ma cosa vuol dire? Dopo l' inchiesta sulle tangenti sei diventato famoso (e io Vice Capo)... no, credi a me: un regolamento di conti. E quel braccio è solo per creare polveroni. Buona giornata, Callaghan, pensaci».
E riattaccò. Callaghan prese il pacchetto di Camel e ne tirò fuori una. Staccò il filtro e mirò al cestino. Canestro, come quasi sempre. Peccato che il tiro del filtro al cestino non sia una disciplina olimpica.
Perché il ciccione s' era fatto vivo? In genere se ne fregava di delitti di questo genere, li lasciava al nuovo Commissario, quello che aveva voluto al suo posto quando era stato nominato Vicecapo. Un tipo che non gli avrebbe mai dato problemi. L'unica cosa di cui gli importava qualcosa era la sua collezione di francobolli. E le piante del suo ufficio. Perché s'era fatto vivo? Cosa c'era sotto?
Callaghan prese la scatola di fiammiferi e si accese la sigaretta.
Quella storia non piaceva. Sentiva puzza di bruciato.
Guardò il tappeto per terra: il fiammifero non s' era spento.
A qualche miglio di distanza anche Samantha si era risvegliata pensosa. Aveva dormito male quella notte: era agitata.
Samantha abitava in una di quelle case a tre piani in mattoni rossi di Back Bay. La via degli artisti e degli antiquari. Samantha era convinta di essere un'artista, una grande attrice.
Samantha era una splendida ragazza. Era il suo mestiere. E girava qualche film. Piaceva molto ai suoi fan. Molto meno alle mogli dei suoi fan. Ma lei si sentiva un'attrice vera, un' attrice da film a tre stelle. I suoi avevano tre X.
Samantha veniva dall' Idaho.
Era inquieta, Samantha. Doveva parlarne con qualcuno.
Erano quasi le dieci quando Callaghan entrò nel suo ufficio. Brutto ufficio. Due sedie malmesse e una poltrona spelacchiata. La scrivania poi sembrava una reduce di Waterloo. Sulla poltrona c' era O' Neil, il buon vecchio O' Neil. Verbalizzava qualcosa.
«Novità?» gli chiese Callaghan.
«Poche: tre stupri e quattro omicidi».
«E Miguelita?».
«Wilcox e Frazer l' hanno riaccompagnata a casa.».
«E lei?».
«Ha detto che si sentiva sola. Ha chiesto a Wilcox di fermarsi con lei la notte, per proteggerla.».
«E Wilcox?».
«Vuoi la versione ufficiale o l' ufficiosa?».
«L' ufficiale».
«La prego Madame, mi lasci: sono di servizio».
Furono interrotti da Jefferson. L' agente Jonas Jefferson. Era nero, alto due metri, largo un po' meno.
«Ehi man, c' è un altro pacco per te».
Callaghan guardò Jefferson. Sul braccio aveva tatuato Black power.
Dopo la Baumann era l' Agente più duro del Commissariato.
Se volevi conoscere la realtà ospedaliera della città dovevi avvicinarti all' Agente Jefferson e chiedergli: «Jefferson, eh? Mica sarai un discendente del Presidente?». Callaghan era affezionato a Jefferson.
«Quale man?» gli chiese.
Anche Jefferson voleva bene a Callaghan, ma si sarebbe fatto impiccare piuttosto che ammettere di voler bene a un bianco.
«Tu, man» rispose indicando Callaghan.
«Non aspetto pacchi: chiama gli artificieri».
Samantha si aggirava nervosa nel salotto. Moquette azzurra. Bei mobili. a sigaretta dopo l'altra. More. Forse faceva meglio a restare nell' Idaho. A quest' ora avrebbe già sposato un avvocato, o un ricco mandriano. Samantha si guardò allo specchio: il tempo passava. Qualche ruga era già comparsa. Le rughe volevano dire molto nel suo lavoro.
L' Idaho. Forse non era così male, a ritornarci adesso..
Gli artificieri ricominciarono la danza del palombaro. Non erano gli stessi del giorno prima. Gli agenti occuparono meno tempo per mettersi al riparo. Il Commissario aveva fatto sapere di avere un impegno urgente.
Il pacco veniva dall' Italia.
«La vendetta degli uomini di Joseph 'Fat Fingers' Caranzano?» si chiese Frazer.
La Baumann non lasciva tradire nessuna emozione. Era una dura, lei.
Ma nemmeno questa volta c' erano esplosivi.
Un disco, e una lettera.
Glieli spediva Pino, un poliziotto italiano che Callaghan aveva conosciuto ai tempi delle indagini su Caranzano. Ma ora era un bel po' di tempo che non lo sentiva. L'avevano trasferito. Era simpatico, Pino. E anche un bravo poliziotto. Forse troppo bravo. Perciò l'avevano trasferito. Ora si occupava di centri sociali. E poi si stupiscono che prendono i mafiosi con una ventina d'anni di ritardo.
Quando lavorarono insieme, Callaghan gli disse che ascoltava rock e, da allora, ogni volta che sgombrava un centro sociale, Pino spediva qualche reperto a Cal. Il disco era quello dei Kina. Callaghan li conosceva: Pino gliene aveva mandato altre copie. Erano dei pasdaran dei centri sociali.
Il Commissariato tirò un sospiro di sollievo: niente bombe o arti umani.
Samantha entrò in bagno. Aveva la Jacuzzi. Samantha non aveva impegni quel giorno: li aveva disdetti tutti. Doveva pensare, quel giorno. Non le capitava troppo spesso. E quando lo faceva pensava all' Idaho. Lì però non aveva la Jacuzzi.
Nel pomeriggio O' Neil entrò nell'ufficio di Callaghan.
«Abbiamo individuato Micales.» gli annunciò sventolando un indirizzo. Brutto quartiere.
Micales abitava in un tugurio, con entrata sulla strada.
Il giardino era malmesso. Callaghan e O'Neil entrarono nella prima stanza. La sala d'attesa: mura scrostate, macchie d'umidità sul soffitto, umanità dolente in attesa di un filtro, un tarocco, una lettura della mano.
«Loro permettono?» chiese educatamente O' Neil ai clienti. Non c' era bisogno: al veder la divisa s' erano tutti ricordati di impegni improcrastinabili.
Una tenda nera e spessa separava la sala d'attesa dall'antro di Micales. Era una stanza poco più grande dell'altra. In un braciere fumavano incensi. Un teschio sulla libreria, un librone aperto sulla scrivania e un potente pentacolo tracciato per terra. Luce fioca: solo candele. Micales gemeva in trance. Era stesa su un arcano tappeto comprato al supermercato. Si dimenava. Evocava spiriti.
«Vieni potente dei potenti» evocò senza specificare. «Vieni da Micales!».
Un mazzo di tarocchi su un tavolino. La morte.
Quando vide i due si rialzò in piedi investendoli di fiammeggiante disappunto.
«Chi siete?» chiese con voce imperiosa.
Callaghan e O' Neil si inventarono due nomi a caso.
«Lei chi è?» chiese poi O' Neil.
«Micales! Sacerdotessa delle tenebre!». (Al Commissariato confessò di chiamarsi Concetta Santosuosso).
«Conosce l' Angelo Sterminatore?» chiese Callaghan.
«Ma certo: io l' evocai». (Al Commissariato negò tutto tra le lacrime.)
«Madame, potrebbe seguirci al Commissariato?» chiese O' Neil.
«Io? Una Sacerdotessa di Nuberus? - rise di scherno - Come osi, verme? (Al Commissariato chiederà scusa). Scaglia pure i tuoi incantesimi, verme, non li temo!».
«Madame, avrebbe una copia della sua ultima dichiarazione dei redditi?».
«Oh Gesù!» gemette la Sacerdotessa delle Tenebre
Micales era una pista falsa: un' onesta truffatrice, ma nulla più.
Un pomeriggio sprecato.
Callaghan rientrò la sera a casa sua, dai suoi surgelati. Aveva con sé il disco dei Kina.
Voleva sentirselo in pace. Temeva una nuova chiamata del ciccione.
Staccò la spina la spina del telefono. Mise gli hamburger sul fuoco, e i Kina sul piatto.
E finalmente Samantha prese la decisione. Gli avrebbe parlato. Cercò la sua agenda: Cantor, Caruso, Coyle. Callaghan.
Il numero gliel' aveva dato Ursula, tanto tempo prima.
«Se sei nei guai chiamalo - le aveva detto Ursula - E' un amico.».
Compose il numero. Il telefono squillò a lungo. Non rispose nessuno. Samantha riattaccò la cornetta.
E fu solo allora che notò un' ombra sulla porta.
«Cosa vuole da me?» chiese terrorizzata.
L' ombra tirò fuori un coltello. Luccicava, le persiane non erano chiuse bene.
«Ucciderti» rispose.
Samantha non fece in tempo a gridare. Vide solo il bagliore avvicinarsi agli occhi.
E cadde a terra, e prima di sprofondare nel buio si ricordò di quella volta che, da bambina, entrò in una grotta nelle montagne dell' Idaho.
La bottiglia di whiskey era arrivata a metà quando Callaghan decise di andare a dormire.
Riattaccò la spina.
Non era ancora a letto quando il telefono squillò. Era O' Neil.
«Cal, conoscevi una certa Samantha?».
«No, non mi pare. Perché?».
«L' Angelo Sterminatore... S' è rifatto vivo.»
«Continua..»
«Cal, qui c' è un agendina, aperta al tuo numero e l' Angelo ha sottolineato...il tuo nome. Sottolineato in rosso.»
«Rosso?»
«Già. Ha usato sangue di questa qui...».
Callaghan rimase in silenzio.
«Ci vediamo domani mattina al Commissariato» disse alla fine.
Riattaccò e si accese una Camel.
Il gioco si faceva veramente duro.


CAPITOLO 3

Il giorno dopo, quando uscì di casa, Callaghan trovò O'Neil che lo aspettava.
Diceva che passava di lì per caso, che era di strada. Balle: O'Neil aveva paura per Callaghan. Buon vecchio O'Neil, sempre paterno lui, sin da quando, quindici anni prima, lui era l' agente anziano e Callaghan una giovane recluta.
«Dormito bene?» gli chiese.
«No» rispose Callaghan.
O'Neil guidò in silenzio fino al Commissariato. Suicidandosi quell'architetto aveva compiuto una scelta saggia. Salì le scale. Brutte scale.
E mentre si avvicinava al suo ufficio, Callaghan sentì della musica. Qualcuno stava usando il suo registratore. Era Jefferson.
«Cosa ci fai qui?» gli chiese Callaghan.
Jefferson saltò sulla sedia: era in trance. Si riprese.
«Usavo il tuo registratore, man» rispose duro. Non voleva dimostrare debolezza nei confronti di un bianco.
Callaghan rimase in silenzio.
«Chi sono?» chiese Callaghan.
«Chi, man?».
«Quelli che stai ascoltando».
Jefferson lanciò un' occhiata al registratore acceso.
«I Burma Jam» rispose superiore.
«Mai sentiti nominare».
«Per forza, man. A te non piace il reggae.».
In effetti il ritmo era reggae. Ma erano qualcosa di più. Più heavy. In certi punti psichedelici.
«Questi mi piacciono» disse Callaghan.
Jefferson stava per rispondere ma entrò O'Neil.
Porse a Callaghan un foglietto di carta. Un indirizzo.
«L'hanno trovato i ragazzi questa notte. Era nell'agenda di Samantha. Doveva trovarsi in questo posto in mattinata.».
Era una villa verso Nord, isolata.
Si fermarono al cancello e suonarono. Non rispose nessuno. Controllarono le 45. Aprirono il cancello.
«E' permesso?» chiese educatamente O'Neil.
Silenzio.
S' incamminarono lungo il viottolo d' accesso. La villa era grande e bianca, immersa in un parco verde e non più curato da anni.
Salirono le scale che portavano al patio. Una finestra cigolava. Bussarono. Callaghan estrasse la 45.
«C' è nessuno in casa?» chiese O'Neil.
Ancora silenzio.
Entrarono. Era un set. Un letto immenso, a forma di cuore. Copriletto di velluto rosa. Lenzuola frou frou. Cuscini stropicciati. Specchi no: si sarebbero viste le telecamere. Ce n'erano molte di telecamere. E riflettori.
O'Neil partì in perlustrazione. Ritornò dopo cinque minuti scuotendo la testa.
Infilarono le pistole nelle fondine e si misero ad osservare in giro.
O'Neil si avvicinò al tavolo. Carte sparse.
«Oh Gesù» disse O'Neil.
E arrossì. Aveva trovato foto di scena.
Buon vecchio O'Neil, pudico cattolico irlandese. Passò le foto a Callaghan. Incredibile quante cose si possano fare su un letto. C'erano foto di Samantha.
«Callaghan, guarda qui».
O' Neil indicava tre dozzine di uova e un barattolo di bianco d' uovo.
«Che dici, ci facevano lo zabaione?».
«Non esattamente» rispose Callaghan.
E ritornò a guardare le foto. Non c' erano solo quelle di Samantha.
«Ma scusa, ma che ci fanno? Hanno un pollaio?».
«Finzione scenica».
«Come?».
«Ragiona».
O'Neil ci pensò su.
Poi fece «Ahhhh: ho capito. ».
C' erano anche foto di Ursula, mischiate a quelle di Samantha e a quelle di chissà chi altra.
Ursula. Una cara amica. Callaghan sentì una fitta allo stomaco. Anche lei morta, e senza sapere Perché.
«Cal, guarda questo letto» fece O'Neil.
«Di' - riprese - te lo faresti un pisolino mentre do un' occhiata in giro? hai la faccia stanca...».
Buon vecchio O'Neil.
Callaghan gli sorrise, ma si sentiva molto solo.
MaryLou. Perché era finita così la loro storia? Dov'eri' eri, MaryLou?
Ursula sorrideva come lei. Una cara amica, Ursula, una brava ragazza.
Callaghan sospirò: era proprio uno schifo di giornata.
Si sentì toccare il gomito. O'Neil faceva «Shh» con l' indice sulla bocca.
«Qualcuno sta venendo» disse sottovoce.
C' era un muretto basso al lato della porta. Si nascosero. Si scambiarono un' occhiata d' intesa. Situazione collaudata un mucchio di volte. All'apertura della porta Callaghan avrebbe cominciato a contare con le dita fino a tre. Al tre sarebbe saltato fuori, pistola puntata col braccio destro piegato («Ricordati: se non lo pieghi con una 45 rischi di trovartelo ingessato» gli diceva sempre O'Neil). Con la sinistra avrebbe tirato fuori il tesserino e gridato «Fermo! Polizia!» mentre O'Neil, dall' altra parte, sarebbe sbucato gridando una frase ad effetto.
Generalmente era : «Se ti muovi ti faccio saltare il cervello».
Passi sulle scale. Stava avvicinandosi. Callaghan respirò profondamente. Una mano sulla maniglia. Callaghan trattenne il respiro. La porta si aprì. Uno. Due. Tre!
«Fermo! Polizia!» e O' Neil «Se ti muovi ti faccio....Oh Gesù».
Era una bambina. Forse dodici anni. Terrorizzata. Blu jeans e una magliettina a righe bianche e rosse. Reebok. Capelli lunghi, castani. Fosse stata meno spaventata avrebbe iniziato a piangere.
«Ma...ma...voi... ».
Rimisero le pistole nelle fondine.
«Non ti preoccupare, tesoro sorrise imbarazzato O'Neil - c' è stato un errore, veramente, non volevamo spaventarti.».
«Ma...ma cos' era? U... uno scherzo?».
«Eh sì, diciamo così. Ah ah. Proprio uno scherzo. Ah ah. Buffo, vero? Mica ti sarai spaventata?».
«Bè...un pochino sì».
«Ah ah».
La bambina sorrise poco convinta.
«Come ti chiami?» le chiese Callaghan.
«Lolly» rispose.
E poi: «Siete voi quelli con cui devo girare?».
Silenzio.
«Come?» chiese alla fine O'Neil con voce incerta. Sperava di aver capito male, il buon vecchio O'Neil.
«Siete voi quelli di oggi?» chiese ancora Lolly mentre iniziava a sfilarsi la maglietta.
O'Neil era un agente esperto. Difficilmente impressionabile. Aveva riconosciuto ad uno ad uno i cadaveri lasciati da Joe 'Motosega' Mitchell senza battere ciglio. I vecchi ancora raccontano di quella volta che fece irruzione, da solo, in un covo dei Caranzano.
Ora era sconvolto.
Cadde in ginocchio davanti a Lolly accarezzandole i capelli:
«Oh no, tesoro.. no, no.. Non è come pensi...».
Callaghan non parlava: tossiva per schiarirsi la voce. Si accese una Camel.
«Lolly - chiese alla fine - dove abitano i tuoi genitori?».
Lolly lo guardò intimidita.
«Mio padre non so chi sia. - gli rispose - E mia madre... ecco... qualche tempo fa è partita con un tizio del Montana dicendo che sarebbe tornata presto. ».
«Quanto tempo fa?».
«Beh, non saprei..vediamo...Cinque anni».
«Capisco. E, senti, dove hai vissuto questo tempo?».
«Qua e là... Negli ultimi mesi a casa del mio agente.».
«Agente? - chiese O'Neil - Tu hai un.. agente?».
«Ma certo: un tipo in gamba. Dice che sarò una grande attrice.».
«Ah, bene! Senti, è lui che ti procura queste... parti?».
«Certo!».
«Oh che bravo! Dimmi tesoro, sai dove abita questo... signore?».
«Sì certo» e gli diede un indirizzo. O'Neil guardava Callaghan supplicante. I suoi occhi volevano dire «Cal, ti scongiuro, lascia che lo arresti io.».
Callaghan annuì. O'Neil sorrise.
Ma non era il solito sorriso del buon vecchio O'Neil.
E mentre ritornavano con Lolly al Commissariato, Callaghan pensò che avrebbe dovuto chiamare Carol Goodwill della minorile. Una donna splendida, Carol Goodwill.. Dedicava la vita ai ragazzi e alle loro vite difficili. Un solo difetto: quando ascoltava una nuova storia si metteva a piangere per cinque minuti. Callaghan la chiamò appena arrivati. Nel frattempo O'Neil aveva affidato Lolly alle cure della Baumann.
«Sai - aveva detto in macchina - è meglio che se ne occupi una donna. Hanno lo spirito materno, loro».
«Ma certo, me ne occupo io» - disse entusiasta la Baumann.
E, dando un pizzicotto a Lolly: «Adesso facciamo un bel gioco. Facciamo che eravamo dei soldati. Allora, se dico At-tenti!, tu...».
Cal parlò con Carol Goodwill. Carol scoppiò in singhiozzi dicendo che avrebbe richiamato dopo cinque minuti.
Callaghan si accese una Camel. Fece canestro. Chissà Perché nessuno organizzava un torneo di tiro del filtro.
Dopo cinque minuti squillò ancora il telefono. Era Carol. Era riuscita a trovare un Istituto di Suore disposto ad accogliere Lolly. Una sistemazione provvisoria in attesa di rintracciare la madre.
Erano le Suore della Beata Vergine. Un edificio austero. Uno spesso portone di legno scuro.
Durante il tragitto in macchina Lolly aveva tentato qualche obiezione, ma Callaghan l' aveva minacciata: «O le Suore o il Riformatorio» aveva bluffato.
Lolly non insistette. Conosceva di fama il riformatorio: molti suoi amichetti c' erano entrati e ne erano usciti strani.
Suor Elizabeth li accolse con uno smagliante sorriso. Prese Lolly sotto braccio e stava per incamminarsi verso un lungo e buio corridoio quando Lolly, sorridendo, si voltò e chiese a Callaghan «Di', ma mi verrai a trovare qualche volta?».
Sorpreso Cal riuscì solo a balbettare «Ma sì, certo» mentre si allontanavano.
E sentì ancora la sua voce che si affievoliva nel corridoio.
«Scusa, Suora, ma mi hanno detto cose buffe su di voi. Cioè, che....Insomma: tu sei vergine?».
«Oh! Ma certo, tesoro.».
«Accidenti! Ma davvero?...».
Quando ritornò al Commissariato, Callaghan trovò O'Neil nel suo ufficio.
Buon vecchio O'Neil, era sconvolto. Ripensava a Lolly. Girava e rigirava tra le mani la videocassetta di un suo film. Bambine vogliose.
Probabilmente non avrebbe vinto l'Oscar.
Non si capacitava, il buon vecchio O'Neil.
Callaghan tirò fuori una Camel. Canestro. Buon vecchio O'Neil, doveva rilassarsi. Callaghan guardò il registratore: Jefferson s' era portato via la cassetta dei Burma Jam. Frugò nel mucchio lì accanto.
«Ti va di sentire qualcosa di irlandese?» chiese a O'Neil.
«Magari. - rispose O' Neil - Cosa sono? Ballate folk della verde Irlanda?».
«Non proprio» rispose Callaghan. Fece partire il nastro. Era musica folk nordirlandese. Di Belfast. Niente ballate e cornamuse: quelle vanno bene per i verdi pascoli che si gettano nel mare. Per i fili spinati ci vuole qualcos'altro. Canzoni dure. Come quelle dei Therapy?.
O'Neil rimase deluso. Non era l'Irlanda che piaceva a lui.
Squillò il telefono. Era Carol Goodwill.
«Pronto, Callaghan?».
Callaghan abbassò il volume.
«Sono io. Novità?».
«Volevo dirti che ho telefonato nel Montana e ho avuto informazioni sulla madre di Lolly...».
«E allora?».
Carol Goodwill cominciò a singhiozzare.
In teoria un'agente, anche se della minorile, avrebbe dovuto mantenere un certo contegno. Ma Carol Goodwill era troppo buona per ricordarsene. Tra le lacrime raccontò che la madre di Lolly era morta. Quel tipo che l' aveva trascinata nel Montana con il miraggio di una love story come si deve, una di quelle che si vedono alla televisione, era famoso in tutti bordelli del Montana. Alcuni erano di sua proprietà. La madre di Lolly iniziò a lavorare per lui. Poi cominciò a farsi di eroina. Morì per overdose due anni dopo.
Carol Goodwill non riusciva più a continuare. Si scusò: avrebbe richiamato più tardi. Riattaccò.
Callaghan si accese un' altra Camel. O'Neil lo guardò supplicante.
«Cal, posso andare a prendere l' impresario di Lolly? Per favore... ».
Cal lo guardò a lungo. Come poteva rifiutare un piacere al buon vecchio O'Neil?
E poi lui aveva altro da fare, purtroppo.
Doveva parlare con John 'Lard' Buzzer.
John 'Lard' Buzzer era universalmente considerato la maggiore autorità cittadina in materia di depravazioni sessuali.
John 'Lard' Buzzer era anche universalmente considerato il peggior depravato della città.
Stazionava al parco Perché lì vanno a giocare i bambini. E anche le bambine.
A John 'Lard' Buzzer piacevano molto le bambine, quasi quanto i double beacon cheesburger deluxe.
Ne mangiava a decine.
Era grasso, John 'Lard' Buzzer, molto grasso. E sporco.
John 'Lard' Buzzer era l' incarnazione dell' idea iperuranica del porco. In molti sensi.
Quel giorno, come al solito, era seduto su una povera panca oppressa dal suo peso. Mangiava, e guardava un gruppo di bambine che giocavano alla cavallina.
Sbavava mostarda.
Era in estasi.
Callaghan si sedette sulla panchina, cercando di stargli lontano il più possibile. Gli faceva un po' senso.
«Che mi dici dell' Angelo Sterminatore?» chiese senza salutarlo.
Non ne valeva la pena.
«Assolutamente niente. - rispose John 'Lard' Buzzer senza staccare gli occhi dalle bambine - Nessuno ne sa niente.».
«E di Samantha cosa sai?».
«Un' attrice. Piuttosto in gamba. La sua specialità era....».
«Lascia perdere. - lo interruppe Callaghan - Dimmi piuttosto per chi lavorava. A chi apparteneva lo studio cinematografico?»
John 'Lard' Buzzer staccò gli occhi dalle bambine. Ma fu solo un attimo.
«Adesso non ricordo.» rispose.
Poco convincente.
«Sicuro?».
«Sicurissimo.»
Callaghan tirò fuori il pacchetto di Camel.
Movimenti lenti, studiati. Gran silenzio. Callaghan guardava il laghetto. Era bello, in quella stagione. Quand' era piccolo ci veniva spesso a giocare. Bei tempi, allora.
«Curioso, però.» disse con noncuranza.
E poi tacque ancora. Guardava il paesaggio.
John 'Lard' Buzzer diventava nervoso.
E dopo una lunga pausa «Curioso, però» riprese Callaghan interrompendosi subito.
E ritornò a guardare il laghetto: c' erano i cigni. E anche le papere: una colonia di paperotti che seguiva starnazzando mamma papera.
«Che cosa è curioso?» chiese John 'Lard' Buzzer con voce malsicura.
«Curioso, curioso», rispose Callaghan.
In lontananza un tipo era salito su una cassetta di frutta e annunciava l' imminente Apocalisse. Magari.
«Insomma, vuoi parlare?» lo supplicò John 'Lard' Buzzer.
Callaghan aspirò una boccata. Gli gettò il fumo in faccia.
«Hai un paio d' ore libere?» gli chiese.
«Perché?».
«Così... Volevo elencarti i reati che hai commesso e di cui sono a conoscenza. Vediamo...Cominciando per ordine direi che c' è quella bambina che trascinasti in un cespuglio...».
«Basta così! - lo interruppe John 'Lard' Buzzer - Dove vuoi arrivare?».
Callaghan ritornò a guardare le papere e l' apocalittico. Sembrava interessante: ci credeva pure.
«Curioso, però» disse ancora Callaghan.
«Che cosa?» gli chiese John 'Lard' Buzzer. Era ansioso.
«Curioso. - riprese Callaghan - Pensavo al fatto che abbiamo preso cinque tipi della famiglia Caranzano...Gente strana. Un po' all' antica, sai come sono fatti i Caranzano. C' è uno di questi che ha una cicatrice. Sai Perché? Aveva messo incinta una brava ragazza, e non la voleva sposare. Lo trascinarono in chiesa con i punti. Gente... come dire? Arcaica.».
«E allora?» chiese John 'Lard' Buzzer.
La sua pancia tremava. Non era un bello spettacolo.
«Sai? - riprese Callaghan - sono in cinque. E la loro è una cella da sei. Capisci? Un posto libero. Curioso, vero?».
La pancia di John 'Lard' Buzzer era squassata da un maremoto.
«Soffri di emorroidi?» gli chiese Callaghan en passant.
«No... Perché?».
«E' già qualcosa...».
John 'Lard' Buzzer era sul ciglio dell' isteria.
«Tu faresti questo a me? Uno dei tuoi informatori? Il miglior informatore che...».
Callaghan lo interruppe con un gesto. Si alzò in piedi. Gettò la cicca per terra.
«Un informatore che non m' informa - gli disse schiacciando la cicca con il tacco - non serve a niente».
John 'Lard' Buzzer si accasciò sulla panchina. Era stremato.
«Allora?» gli chiese Callaghan.
«Jesus Santamaria» farfugliò John 'Lard' Buzzer sottovoce.
«E' suo lo studio cinematografico?».
«Ma che dici? Sarà di un prestanome di un prestanome di un prestanome. Ma il terminale è lui: Jesus Santamaria. ».
Callaghan gli volse le spalle e se ne andò senza salutare.
Non ne valeva la pena.
Jesus Santamaria, doveva immaginarselo.
Jesus Santamaria era un postmoderno. Un tipo vistoso, al contrario del vecchio Joseph 'Fat Fingers' Caranzano. Girava con catene d' oro che gli scendevano sulla pancia e un harem al suo servizio: autiste, cuoche, amanti, guardie del corpo.
Su Jesus Santamaria si raccontavano molte storie. Una, per esempio, parlava di un tipo che ebbe una storia con una sua donna. Il tipo sparì. Fu ritrovato che galleggiava nel porto un mese dopo. L' avevano ammazzato a fuoco lento per un mese. La donna non fu mai ritrovata. Dicevano che è stato meglio così.
Un figlio dei tempi, Jesus Santamaria. E non solo dei tempi.
Entrando nel Commissariato Callaghan incrociò O'Neil che trascinava qualcosa. Poco prima era un qualcuno.
«Tu non ci crederai, Cal! - gli fece O'Neil- Un appartamento con scale lunghissime. E lui non ti va a scivolare?».
«Capisco».
«E non è tutto. Si era appena alzato che dal terzo piano cade un vaso da fiori...».
«Capisco».
«E poi (non ci crederai) proprio in quel momento una macchina ha sbandato e lui... Proprio sotto.».
O'Neil scosse energicamente il qualcosa.
«Vero?» gli chiese.
«Verissimo» confermò il qualcosa.
«Capisco» disse Callaghan entrando nel suo ufficio.
Fu accolto dallo squillo del telefono. Era ancora Carol Goodwill. Si era ripresa: non piangeva più. Aveva iniziato la ricerca per l' adozione di Lolly. Ma non era facile.
«E forse nemmeno necessario. Sai, a volte è sufficiente una presenza, un affetto. Un padre...».


CAPITOLO 4

Fu O' Neil che svegliò Callaghan la mattina dopo. Buon vecchio O'Neil, non voleva lasciarlo solo. Sempre paterno, lui. Voleva proteggerlo. Salirono in macchina in silenzio e in silenzio attraversarono la città ancora addormentata.
Solo all' ultimo semaforo prima del Commissariato Callaghan chiese «Di', me lo faresti un favore?».
Domanda superflua.
«Passeresti nel mio ufficio con Jefferson? - riprese Callaghan - Diciamo tra mezz'ora?».
Erano arrivati. Brutto edificio, il Commissariato. E non avete visto l'interno. Forse l'architetto si era suicidato per evitare il linciaggio.
Callaghan non tentò nemmeno di riordinare la sua scrivania. Quella sì che sarebbe stata un'impresa.
Non fece in tempo ad ascoltare il nuovo nastro dei Terrorvision: bussarono alla porta.
Erano Jefferson e O'Neil. Callaghan chiuse la porta. Si accese una Camel. Era già la terza. Quel giorno le sigarette conducevano tre a uno sul caffè. Una volta arrivarono a dieci a zero.
Un irlandese e un nero, O'Neil e Jefferson. Gente fidata.
Callaghan aspirò.
«Ragazzi c'è un lavoretto. Ma non bisogna sbandierarlo ai quattro venti. Per le prossime ore è una cosa tra noi. D'accordo?».
O'Neil e Jefferson annuirono. A loro piaceva Callaghan quando faceva così.
«Si tratta di Jesus Santamaria» riprese Callaghan.
Jefferson sorrise.
Jefferson amava i portoricani. Quasi quanto l' Aids.
«Dobbiamo arrestarlo?» chiese Jefferson.
Ci sperava.
«Magari... - Callaghan scosse la testa - Non abbiamo ancora elementi. Solo mettergli un po' di sale sulla coda...che si senta osservato. Raggiungetelo, e chiedetegli se può passare qui nel pomeriggio...».
«E se rifiutasse?» chiese Jefferson.
Jefferson sperava che Jesus Santamaria si rifiutasse.
«Niente, - lo disilluse Callaghan - non abbiamo ancora niente. Ma non rifiuterà: non è scemo. Nel pomeriggio allora.».
Jefferson e O'Neil si alzarono.
Per quella mattina Callaghan si occupò di omicidi minori. Come al solito ricevette telefonate. Ma una non era delle solite.
«Pronto? E' la Polizia?».
Una voce infantile.
«Sì - rispose Callaghan distrattamente - vuole il centralino?».
«Veramente non so...Volevo l' Ispettore Callaghan..».
«Sono io. Chi parla?».
«Ciao Ispettore, ti ricordi di me? Sono Lolly. ».
Callaghan spense la Camel. E dire che era solo alla seconda boccata.
«Ma certo, come stai?».
«Io? Bene. Ma mi annoio con le suore. E poi non mi fanno telefonare ai miei vecchi amici..».
«Fanno benissimo.» approvò Callaghan.
«..e l' unica persona che mi fanno chiamare sei tu. Senti, ti posso chiamare?».
«Ma sì, quando vuoi..».
«Davvero? Senti, e se una volta mi porti al cinema? Eh?».
«Si può fare...Ma i cartoni animati, però.».
«Dove ti pare, basta che mi fai uscire un po' da qui...Oh! E' finita la ricreazione. Ciao, Ispettore. Allora ti richiamo.».
Fu solo dopo alcuni minuti che Callaghan si accorse di reggere ancora la cornetta staccata a mezz'aria.
Finalmente arrivò il pomeriggio. E anche Jesus Santamaria, in compagnia di due distinti signori. Uno era bassotto, pelatino. Occhialoni.
«Piacere - si presentò - Samuel Keenlaw, della Keenlaw, Keenlaw & Son.».
Era il son, l' avvocato.
L' altro era alto, biondo, aitante. Te lo immaginavi più in palestra che in biblioteca.
«Supplyside, Martin Supplyside.».
Il commercialista. E poi c' era lui, Jesus Santamaria. Quel giorno aveva adottato il look del puttaniere casual. Camicia di seta bianca aperta, petto forestale. Medaglione d'oro. Occhiali da sole.
«... amaria» grugnì.
Callaghan li fece sedere.
«Il mio cliente vorrebbe sapere...» attaccò Keenlaw.
Callaghan lo interruppe. Rischiava di parlare per tutta la durata di questo racconto.
«Niente di formale - disse Callaghan -. Solo due domandine, senza verbale... ».
«Che tipo di domande?» chiese Keenlaw.
«Per esempio, - cominciò Callaghan - che mestiere svolge, Mister Santamaria?».
«L'editore» gli rispose Supplyside.
«.. tore» rincarò Santamaria.
«Prego?» chiese Callaghan.
«L' editore, certo. - continuò Supplyside - Non conosce 'The Santamaria Press'?».
«Veramente no..».
«Oh, mi rincresce.. Provvederemo senz'altro' altro a inviarle qualche saggio omaggio.. proprio in questi giorni è in stampa una nuova traduzione di Catullo.».
«.. ullo».
«Capisco.» fece Callaghan.
E tirò fuori una foto di Samantha.
«Mi dica, Mister Santamaria, conosce forse...».
Santamaria non fece in tempo a prendere la foto in mano. Un ciclone s' era abbattuto sulla porta. Era il Vice Capo, il suo ex Commissario. Un ippopotamo grasso. E unto.
Qualcuno, dal Commissariato, l'aveva avvisato. Forse il nuovo Commissario. Il filatelico.
L'ippopotamo si piazzò davanti alla porta, con aria di sfida. Calò un pesante silenzio.
«Cal, posso dirti due parole?» chiese.
Callaghan si alzò e gli si avvicinò. Puzzava.
«Hai qualche elemento per trattenerlo?» chiese il quintale e mezzo.
«No» rispose Callaghan a malincuore.
Il ViceCapo sorrise. Era brutto quando sorrideva.
Si avvicinò ai tre. Affabile.
Porse le sue scuse. Un equivoco.
Kennlaw ci faceva l' urbano, diceva che non era il caso di preoccuparsi, una discussione istruttiva.
Raccolsero le valigette e i cappotti.
«Proprio istruttiva» fece Santamaria uscendo.
Guardò Callaghan a lungo. Brutto sguardo.
Rimasero soli. Il ViceCapo s' era depositato sulla poltrona di Callaghan. Callaghan chiuse la porta.
«Perché?» gli chiese.
«Perché cosa?» rispose il pondus.
«Perché protegge Santamaria? Soldi? Appoggi? Che cosa?».
«Chi ha detto che proteggo Santamaria? Stavi interrogando una persona senza uno straccio d'imputazione. Ti sembra corretto?».
«Corretto? Lei mi parla di correttezza?».
«E Perché? Cosa c' è di strano?».
«Capo, non mi prenda in giro. Sono quindici anni che faccio questo mestiere.».
Il ViceCapo si accese un sigaro puzzolente. Si sdraiò sullo schienale. Strano, non si spezzò. Aspirò con voluttà. Almeno gli anelli di fumo li sapeva fare.
«Non si direbbe» disse poi.
«Cosa non si direbbe?».
«Che fai il poliziotto da quindici anni....».
«E Perché?».
«...oppure sei un fallito. - continuò l' ippopotamo senza curarsi dell' interruzione - Sì, forse sei proprio un fallito.».
«In che senso? - chiese Callaghan - Forse Perché non accetto regali a differenza...».
Fu interrotto da una grassa risata. Per il ridere il ViceCapo cominciò a tossire e scatarrare. Sputò il denso catarro dentro un fazzoletto. Faceva senso, quel fazzoletto.
«Ma cosa c' entrano i regali...!» riprese quando si fu calmato.
Poi guardò Callaghan a lungo.
«Sai qual è il tuo sbaglio, Callaghan? - gli disse calmo - Tu vuoi sconfiggere il crimine...».
«E allora?».
«E allora sei un fallito, Perché i criminali sono sempre esistiti, da Caino in qua, e sempre esisteranno. Il crimine non potrà mai essere sconfitto. (Anelli di fumo. Cercava l'ispirazione. Probabilmente si sentiva Aristotele) I cavalieri erranti, quelli sì che partivano per sconfiggere il Male... non i poliziotti. Un bravo poliziotto non parte alla ricerca del Santo Graal come fai tu. No, Callaghan: le cose non stanno così. Vedi, un bravo poliziotto sa che ci saranno sempre i criminali e, se è veramente bravo, fa in modo di sceglierli, di preferire un criminale all' altro. Il meno scomodo..».
«E Santamaria?».
Il Commissario non rispose subito. Prese un giornale. Un bambino di due anni era stato ucciso a pietrate da altri bambini di dieci. Perché? Così, per divertimento.
«Se questo fosse successo nel quartiere di Santamaria - riprese il ViceCapo - il giorno dopo quei due assassini in erba sarebbero stati riconsegnati alle famiglie a pezzettini piccoli piccoli. (Posò il giornale sul tavolo). So meglio di te che tipo è Santamaria, ma preferisco aver a che fare con uno solo come lui piuttosto che con diecimila di questi altri. Chi li controllerebbe? Chi controllerebbe i ghetti? Tu? Con l' armatura e la lancia in resta?».
Lentamente il ViceCapo si alzò e si diresse alla porta. Aveva un'aria soddisfatta. La stessa che aveva Cicerone dopo aver pronunciato le verrine.
Ma poco prima che uscisse, «Capo..» lo chiamò Callaghan.
Il ciccione si voltò.
«Sì?».
«Capo, io vado avanti lo stesso.».
Il pondus scosse la testa sconsolato.
«Sei proprio un fallito, Callaghan. - e dopo una pausa - Cerca di controllarti.».
«E se non lo facessi? Cosa farebbe? mi trasferirebbe?».
Il Vice Capo sorrise. Era brutto, quando sorrideva.
«Scherzi? - disse uscendo - Ti promuoverei».
L'Ispettore Callaghan rimase solo nel suo ufficio. Il pacchetto di Camel era sulla scrivania, a portata di mano. Ne prese una. Staccò il filtro. Canestro. E non era facile. Se solo fosse stato un po' più alto. A scuola il suo allenatore di basket glielo diceva «Ragazzo, applicati.».
Ma lui non si era applicato.
Brutta storia. Ora sapeva che se voleva incastrare Jesus Santamaria avrebbe dovuto far da solo. Dal Vicecapo sarebbero venuti solo ostacoli. Aspirò la Camel. Dicevano che faceva male. Anche il ViceCapo ne faceva parecchio.
Bussarono alla porta. O'Neil, il buon vecchio O'Neil. Era imbarazzato, O'Neil, quasi vergognoso.
«Cal» disse.
«Sì» rispose Callaghan.
«Cal - riprese O'Neil - c'è il materiale che abbiamo sequestrato nella villa dove abbiamo trovato Lolly...».
«E allora?».
«Cal, sono più di cento videocassette.».
«E allora?».
«Cal, credo che bisognerebbe visionarle.».
«Mi sembra giusto. E allora?».
«Cal, da solo non ce la faccio. Troppo tempo..».
«Chiedi ai ragazzi».
«Cal sono cose veramente..sporche. Cal, non so se sia giusto.».
Buon vecchio O'Neil, pudico cattolico irlandese. Per spedire i ragazzi in mezzo ad una rissa tra Fish e Chips non avrebbe esitato. Ma far vedere una cassetta porno... Era quasi peccato.
Callaghan finse di prendere la cosa sul serio.
«Non ti preoccupare, O'Neil. - gli disse Callaghan dopo aver fatto finta di pensare - I ragazzi capiranno, vedrai.».
«Tu dici, Cal?».
«Ma sì, vedrai. Chiamali in sala.».
«Cal..».
«Sì?».
«Cal, la Baumann no. E' una donna, la Baumann. Hanno il pudore, loro.».
Callaghan annuì.
Furono convocati ventiquattro agenti.
Rosso di vergogna O'Neil disse di cosa si trattava.
«...Lo so, ragazzi, è uno sporco lavoro.. veramente sporco... ma mi servono lo stesso dei volontari. Rimane una cosa qui tra noi, le mogli non sapranno mai niente. Allora, ci sono dieci volontari?».
Si alzarono ventinove mani. Non si capì mai chi furono i cinque che le alzarono tutte e due.
Si ingaggiò una selvaggia lotteria per stabilire i vincitori.
I prescelti schiamazzarono via con le videocassette.
O'Neil scuoteva la testa.
O'Neil pensava di chiedere la pensione anticipata
Non si erano ancora placate le grida di protesta degli agenti che avevano perso la lotteria che, dall'entrata, arrivarono urla e strepiti.
«Ti dico di no! Sparisci!».
Era la voce di Wilcox quella che urlava.
Gli rispondevano pianti a dirotto. Wilcox era fuori di sé. Non solo aveva perso la lotteria, ora ci si metteva pure quella. Ma lui diceva «quello.».
Miguelita.
I soliti pantacollant a pelle di leopardo. I soliti seni al silicone made in Japan. Piangeva disperata, Miguelita. Chiedeva protezione. Aveva paura. Quando vide Callaghan si precipitò da lui.
«Inspector el dica a usted que me es necesario que venga con mi por me proteger. El lo dica!».
Callaghan le strinse il braccio.
«Calmati, Miguelita» le disse.
Ma non si calmava. (In realtà s'era innamorata dell' agente Wilcox). Suplicaba vigilancia, dia y noche. Sobre todo noche.
«Calmati, Miguelita» le disse ancora Callaghan.
«Madame, non faccia così» la supplicò O'Neil.
Il buon vecchio O'Neil odiava vedere le donne piangere.
Anche se non erano del tutto donne.
Miguelita si lanciò in un acuto. Un potente acuto.
Wilcox disse che doveva proprio andare in bagno. O'Neil era commosso. Jefferson no, a lui non piacevano i portoricani. La Baumann proponeva metodi psicologici.
«E'una crisi isterica - disse la Baumann rimboccandosi una manica - Bisogna scuoterla.»
E si rimboccò l'altra manica. Callaghan la bloccò poco prima che iniziasse la terapia.
Situazione critica.
Ma la crisi passò.
Miguelita era ammutolita: fissava qualcosa alle spalle di Callaghan. Una visione? Callaghan si girò. Era Supplyside, l'aitante commercialista di Jesus Santamaria.
«Non volevo disturbarla, Ispettore. - disse affabile - Solo un momento. Ecco: (gli porse un libro) si tratta di quella nuova edizione di Catullo di cui le parlavo.».
Callaghan sfogliò il libro. Bella carta, di quelle che durano. Bei caratteri. Bella rilegatura. Per non parlare di quello che c'era scritto. Supplyside sorrideva soddisfatto.
«Così spero che non metterà più in dubbio le capacità editoriali del mio cliente. Arrivederla, Ispettore, è stato un piacere conoscerla».
E sorridendo a trentadue denti (bei denti: se li curava, lui) s' incamminò verso la porta. Ma poco prima di uscire lanciò un' occhiata a Miguelita. Anche un imbecille avrebbe capito che quell'occhiata' occhiata significava parecchie cose. Figurarsi Callaghan.
Difatti Miguelita non piangeva più. Sembrava calma. Apparentemente. Senza dire una parola, excusandosi, disse che doveva proprio andare a trabajar.
Callaghan tentò di fermarla. Voleva capirci qualcosa. Ma Miguelita fu irremovibile.
Una crisis. Si excusò ancora. E uscì.
«Visto che i metodi psicologici funzionano?» disse la Baumann.
Callaghan rientrò pensoso nel suo ufficio. Questa non se l' aspettava. Si sedette sulla poltrona e allungò le mani verso il registratore. Bussarono. Era Jefferson.
«Man - gli disse - riusciremo a incastrare Santamaria?».
Jefferson odiava Santamaria. Callaghan si accese una Camel (facendo canestro).
«Non lo so Jefferson. Non abbiamo nulla. Per adesso.».
«Man, ma ci proverai?».
Jefferson temeva l'influenza del Vicecapo.
Callaghan fissò Jefferson a lungo.
Ripensò a Lolly.
«Ci puoi giurare, Jefferson».
Jefferson sorrise. Gli bastava. Stava per uscire soddisfatto. Ma poi si voltò.
«Man - gli disse col tono di chi fa una grande concessione - ho qui una raccolta delle prime canzoni di Clinton.».
«Suonava il sassofono?» chiese Callaghan. Jefferson non capiva.
Poi capì.
«No man, non parlo di questo Clinton: parlo di George Clinton, quando era nei Funkadelic.».
E gli porse un nastro. Era la raccolta dei 45 giri dei Funkadelic, dal 1969 al 1976. Poi uscì. Non si capacitava che che qualcuno avesse potuto scambiare George Clinton per qualcun altro. Fosse pure questo Bill Clinton qua.
Callaghan mise il nastro nel registratore.
Pensava ancora a Lolly. Doveva annoiarsi a morte in quell'Istituto. Domenica forse l'avrebbe portata al cinema. Perché no? A vedere la Bella e la Bestia.
Quanto tempo era che Callaghan non andava al cinema? Dai tempi di MaryLou? E ora ci portava una bambina. Molte cose erano cambiate. L'entropia era aumentata.
Un ciclone s'abbattè sulla porta. Ma non era il ViceCapo. Erano Frazer e O'Neil. Erano eccitati.
Avevano visto videocassette fino a quel momento.
«Cal - disse O'Neil - guarda qua».
Gli porse una cassetta senza etichetta.
«E allora?» chiese Callaghan.
«Non c'erano solo i film - riprese O'Neil. Era veramente eccitato. - C' erano anche registrazioni fatte in casa: festini, orge...».
«E allora?» chiese ancora Callaghan.
«E allora qui ce n'è una al completo.».
O'Neil ci faceva il reticente.
A volte il buon vecchio O'Neil faceva il bambino che sa una cosa importante e non la vuole dire subito per non guastare la sorpresa.
«E allora?» chiese ancora Callaghan.
Ci stava al gioco innocente del buon vecchio O'Neil.
«Cosa ci dai?» chiese O'Neil.
Callaghan li guardò. Due pezzi d' uomo, Frazer e O'Neil. Avrebbero stonato con il chupa chups.
«Due ore di permesso, va bene?».
«Benissimo! (si sarebbero accontentati anche di dieci minuti simbolici) Non puoi proprio immaginarlo...».
«Allora?».
Frazer si passò la lingua sul labbro.
«Keenlaw e Supplyside.»
Callaghan si alzò in piedi.
«Ma dici sul serio?».
«E non è tutto - proseguì O'Neil - con loro ci sono anche Sancita e Samantha».
Callaghan si risedette. Si accese una Camel. Adesso il gioco si faceva interessante.
Callaghan prese in mano la videocassetta senza etichetta. Guardò O'Neil, il buon vecchio ed eccitato O'Neil.
«Sei sicuro che siano Kennlaw e Supplyside?» gli chiese.
«Sicurissimo.» confermò O'Neil.
Callaghan finì in silenzio la sua Camel. Pensava. O'Neil o Frazer lo guardavano in attesa.
«Sono sposati?» chiese Callaghan alla fine.
«Chi? Kennlaw e Supplyside? - rispose O'Neil - Sì. Senza figli, però.».
Callaghan sorrise. Non era un bel sorriso.
«Cal - gli disse O'Neil - mi fai paura quando sorridi così.».
Congedò O'Neil e Frazer. «Controllate ancora quelle cassette e vedete se riuscite a riconoscere qualcun altro. Magari chiedete la consulenza di Miguelita.»
Rimase solo.
Non credeva che Supplyside e Keenlaw fossero implicati con l'Angelo Sterminatore. Che interesse avrebbe Jesus Santamaria a far scomparire la gente in modo così plateale. Non gli mancavano certo gli acidi. Ma questa storia poteva servire a innervosirlo. Magari avrebbe commesso qualche sbaglio.
Ora però gli servivano due tipi duri. Due veri uomini.
Chiamò la Baumann e Jefferson.
Si accese un'altra Camel.
Dopo cinque minuti la Baumann e Jefferson erano già in macchina. Gente dura.
I Keenlaw abitavano su in collina, a un passo dall' edificio federale.
Quartiere nobile, il primo della città. Fondato all' epoca dei Pellegrini o giù di lì.
Stradine acciottolate, costruite per le carrozze. Si respirava l'aria calma della Storia. C'era una casa che risaliva al 1812. Le scolaresche andavano in visita in preda alla sindrome di Stendhal.
Jefferson guidava a passo d' uomo, quasi avesse paura di disturbare.
La cupola d'oro del Palazzo federale. I Keenlaw abitavano in una viuzza là dietro. Una casa di mattoni rossi, a due piani.
Jefferson accostò la macchina e fece per scendere, ma Callaghan lo fermò.
Voleva essere solo.
S'incamminò verso il portone. Legno massiccio. Suonò.
Venne ad aprire una donna di servizio. Vestitino nero. Grembiulino bianco con i pizzi. Faccia di chi ha sbagliato secolo e continente.
Callaghan chiese dei Signori Keenlaw mostrando il tesserino. Fu fatto accomodare in salotto.
Ordinato.
Bei mobili, qualcuno aveva persino i segni delle tarme. Quadri alle pareti, ritratti, paesaggi. E poi soprammobili, statuine. Vasi. Roba antica.
Uno stemma, un braccio che reggeva una spada. E una scritta: In virtute vinces.
Non era un salotto, era un museo. Da perderci una giornata.
Callaghan sentì dei passi alle sue spalle.
Era alta, occhi timidi e azzurri. Senza trucco. Un tailleur normale. Capelli raccolti in una coda.
«Piacere - disse - sono Genevieve Lavertu. La moglie di Samuel Keenlaw. Posso esserle utile?».
Antica famiglia quella dei Lavertu. Si dice che il capostipite, Jean de La Vertu, avesse combattuto al fianco di Carlo il Temerario, Duca di Borgogna. Erano stati pure a Versailles. Poi la Rivoluzione, il trasferimento nel Quebec.
E ora rimaneva solo lei, Genevieve.
E tanti ricordi, e molti soprammobili. Ma soldi pochi. In compenso Keenlaw di soldi ne aveva. E si erano sposati. Un classico.
Callaghan la guardò a lungo. Se la immaginava con la divisa da crocerossina al seguito di truppe a cavallo. Sarebbe stata perfetta. E invece era la moglie di Keenlaw.
«Cercavo suo marito». Voce educata.
Cominciava a sentire il peso del suo lavoro.
«Sarà qui tra un momento...La prego, s'accomodi...Forse gradisce un tè?».
Callaghan si sedette. Si pentì di non aver lucidato le scarpe, due settimane prima.
Parlarono del più e del meno fino all' arrivo del tè. Lo portò la tipa che aveva sbagliato secolo. Tazze di porcellana fragilissima.
Callaghan si sentiva le dita rozze e pesanti.
Non chiese lo zucchero: aveva paura di girare il cucchiaino e buttare tutto per terra.
Genevieve Lavertu parlava di letteratura. Chiedeva a Callaghan se conosceva un tizio chiamato Gide. Callaghan non l' aveva mai sentito nominare, ma fece un gesto come a dire che al momento gli era passato di mente.
Situazione imbarazzante.
Per fortuna arrivò Keenlaw.
Rotondetto e bruttarello come al solito.
In più sembrava preoccupato. La presenza della moglie lo metteva a disagio.
Momento buono per colpire duro. Callaghan si avvicinò al televisore con videoregistratore. Era l'unica cosa che stonava in quel museo.
Keenlaw cominciava a sudare.
Genevieve guardava il marito imbarazzata.
Callaghan guardò Genevieve. Si sentiva un verme. Accese il televisore.
«Volevo solo farle vedere una cosa, Mr Keenlaw» disse infilando la cassetta nel registratore.
Keenlaw era pallido e sudato. Partirono le prime immagini. Callaghan abbassò il volume.
Non era indispensabile: i dialoghi erano essenziali.
Letti, divani. Molta gente, pochi vestiti e molto movimento.
Genevieve distolse lo sguardo.
Apparve l' immagine di Keenlaw. In quel momento era con Samantha.
«Si riconosce, Mr Keenlaw?» chiese Callaghan.
Keenlaw deglutì. Genevieve guardò il televisore. Rimase impietrita. Poi scoppiò a piangere.
Ma non era una cosa rumorosa. «Che vergogna... che vergogna» singhiozzava sommessa.
Callaghan rimpianse di non essersi dedicato all'agricoltura biologica.
«Tesoro, ti posso spiegare» balbettò Keenlaw.
Ma Genevieve era già scappata fuori dalla stanza. Callaghan e Keenlaw si guardarono a lungo in silenzio. Non avevano altro da dirsi.
«Buonasera» lo salutò Callaghan prima di uscire. Brutto mestiere, il suo.
Jefferson e la Baumann, per ingannare l' attesa, avevano organizzato un match di braccio di ferro. Ascoltavano musica, una cassetta di Callaghan. Gli Einsturzende Neubauten. Gente di Berlino.
Callaghan rientrò in macchina. «Ti piace?» chiese a Jefferson indicando il mangianastri.
«Un po' strani.. - rispose Jefferson - Ma qualche canzone è niente male».
Jefferson ondeggiava al ritmo di Die Interimsliebenden. Un funky postnucleare. Chi l' avrebbe detto, solo qualche anno fa, che un nero appassionato di musica nera avrebbe ondeggiato al suono degli Einsturzende?
«E ora?» chiese Jefferson ondeggiando.
Callaghan gli diede l'indirizzo dei Supplyside. Ondeggiando Jefferson mise in moto la macchina.
Al contrario dei Keenlaw i Supplyside abitavano in un quartiere moderno. Molto moderno.
Il loro appartamento era in uno degli ultimi piani di una delle torri del centro.
Cinquantunesimo piano. Una vista che copriva tutto il porto e la baia. Lusso moderno. Moquette.
Anche qui aprì una donna di servizio. Ma questa non aveva sbagliato secolo.
Poco legno, nel salotto. Mobili in plastica e acciaio. Molte luci, poster alle pareti. Nessun libro, niente soprammobili.
Ma due televisori.
Fu una breve attesa. Si fece avanti la padrona di casa. Altro tipo: questa non evocava le crocerossine.
Scollata e attillata. Provocante. Rossetto pesante su labbra carnose.
«Piacere - si presentò (voce sensuale) - Patricia Pornmore. Mio marito sta arrivando».
Più tardi, al Commissariato quelli della buoncostume gli raccontarono una storia curiosa. Si diceva che un tempo la Pornmore fosse molto nota nei loro archivi. Una ragazza sveglia, la Pornmore. Qualcuno diceva che a un certo punto fece un patto con un tizio, un ragazzo di bel fisico e belle speranza senza un quattrino in tasca. Lei l'avrebbe mantenuto agli studi, e grazie alle sue conoscenze avrebbe trovato il modo di fargli trovare clienti danarosi. In cambio lui l'avrebbe sposata. Un bel contratto di matrimonio, con tante clausole scritte in piccolo. Giusto nel caso che lui decidesse di divorziare.
Martin Supplyside arrivò subito dopo.
Martin Supplyside sembrava uscito da un allenamento. Portava una tuta, con l' aria di chi dovesse farne la pubblicità. Avevano attrezzato una stanza a palestra.
Offrirono a Callaghan un long drink.
Conversazione meno impegnativa: per loro Gide poteva essere un sarto di Parigi.
Parlavano del superbowl.
Spiravano aria di classe dirigente.
Ma Callaghan pose fine alla discussione. Si alzò in piedi, pronto a recitare il duro copione.
«Mr Supplyside - disse - volevo solo farle vedere una cosa».
Si avvicinò al videoregistratore. Giapponese ultimo modello.
Impiegò cinque minuti per capire che non era il pannello di una centrale nucleare. Dopo altri cinque riuscì a far partire la cassetta.
I due di bella presenza, intanto sorseggiavano il long drink. Stavano programmando un week end a Miami.
Partirono le prime immagini.
Solito movimento.
Poi le immagini arrivarono a Supplyside. Callaghan bloccò l' immagine.
«Si riconosce, Mr Supplyside?» chiese duro.
Supplyside si avvicinò al televisore.
«Sì, mi pare di sì» gli rispose.
Callaghan sbirciava le reazioni di Patricia Pornmore. Ridacchiava.
Poi la Pornmore gli si avvicinò e gli chiese il telecomando. Sbloccò il nastro e lo fece scorrere in avanti.
Si fermò su un pelosone. Era allacciato ad una bionda.
La Pornmore si avvicinò al televisore indicando la bionda.
«Che dice, Ispettore, - chiese con aria vezzosa - sono o non sono fotogenica?»


CAPITOLO 5

La domenica mattina Callaghan dormiva fino a mezzogiorno. Doveva smaltire il sabato sera.
Per lui il sabato sera consisteva in mezza bottiglia di whiskey e un pacchetto di Camel consumati nei pressi del giradischi. In cuffia.
Non era un tipo mondano, l'Ispettore Callaghan. Il mondo gli faceva un po' senso.
Quella mattina il telefono squillò quando a Callaghan mancavano ancora tre dita da smaltire. Imprecò. Alzò la cornetta preparandosi a sentire la voce unta del Vicecapo.
Invece: «Pronto? C'è l'ispettore Callaghan?».
Una voce infantile. Callaghan si rilassò.
«Sono io... Sei tu, Lolly?».
«Oh, ciao, Ispettore. Come stai?».
«Bene. - mentì Callaghan - E tu?».
«Benissimo, volevo ricordarti che oggi è domenica.».
Callaghan ebbe il sospetto di essersi dimenticato qualcosa.
«Oh grazie. - simulò - Ma... insomma... sì, d'accordo: è domenica.. cioè... E allora?».
«Come non ti ricordi? - fece Lolly offesa - Avevi promesso che mi portavi al cinema!».
«Ma certo! Ma no che non me lo sono dimenticato. Ma come puoi pensare che io...Ah ah. No, certo.. Quando? Oggi pomeriggio? Cosa andiamo a vedere? Ti va la bella e la bestia?».
«Ma l'ho già visto!».
«L'hai già visto? E quando?».
«Un anno fa. Forse più..».
«Ma sei sicura?».
«Ma certo! E' quello con Eva Wolf e quel grosso alano nero...».
Callaghan sospettò che non si trattasse dello stesso film.
Tutto sommato la domenica poteva cominciare peggio. E quando aprì le finestre, Callaghan vide l'albero del cortile in fiore. Era primavera.
Nessuno gliel'aveva detto.
Si sentiva allegro, l'Ispettore Callaghan. Guardò la pila di dischi del sabato sera. Aveva passato una buona serata, quel sabato. Merito del disco dei Walkabouts. Carla Torgerson, la cantante, oltre ad essere brava era anche molto bella.
Bella? Da quando in qua l'Ispettore Callaghan badava a queste cose?
Brutti scherzi combina la primavera.
Callaghan passò a prendere Lolly subito dopo pranzo. Primo spettacolo. Pochi bambini e una marea di adulti che sosteneva di essere venuta al solo scopo di accompagnarli.
A Lolly il film piacque. Le spuntarono pure due lacrimucce. E quando uscirono dal cinema, tra bambini impassibili e madri con gli occhi gonfi, propose di fare un giro al parco. Non ci andava da molto tempo.
In uno spiazzo, sulla solita cassetta di frutta, l'apocalittico preannunciava la consueta fine del mondo. La gente cominciava ad annoiarsi. Di apocalissi cominciavano a vederne troppe, in televisione.
Ma gli scoiattoli sgattaiolavano lo stesso sull'erba e i bambini giocavano o s'ingozzavano di gelati.
Callaghan sperava di non incontrarlo.
Lolly si avvicinò al laghetto. Una mamma anatra nuotava impettita precedendo una scia di anatroccoli affannati.
Lolly si sedette su una panchina per osservarli. Callaghan pregava il Santo dei Poliziotti che lui non ci fosse. E dopo un po' «Senti Ispettore - chiese Lolly - ma come mai gli anatroccoli non stanno anche con il padre?».
Spinosa questione.
Callaghan inventò qualche spiegazione che non convinceva nemmeno lui.
Lolly continuò a guardare gli anatroccoli. Per ogni colpetto di zampa di mamma anatra erano costretti a vogate argonautiche.
Callaghan pregava.
«In fondo sono un po' come me. - disse Lolly dopo un lungo silenzio - Nemmeno io ho conosciuto mio padre, e sono sempre stata con mia madre. Ma adesso non c'è nemmeno lei... Chissà quando tornerà? Prima di partire per il Montana me l'aveva detto: 'Vedrai: ritornerò con un sacco di soldi. E allora io, tu e la tua sorellina vivremo in una bella villa'.».
Callaghan sentì un tuffo al cuore. Doveva dirglielo, prima o poi, che sua madre era morta. Si schiarì la voce.
«Senti, Lolly..» cominciò.
Lolly si voltò. Callaghan la guardò negli occhi.
«Cosa c'è, Ispettore?» gli chiese Lolly sorridendo.
«Senti..io volevo dirti che..che giovedì è il mio compleanno. Che ne diresti di festeggiarlo insieme? Magari con O'Neil? Magari una pizza..».
Si sentiva un vigliacco.
«Una pizza? Ma io so cucinare, sai?».
«Ma dài.».
«Sul serio. Se vuoi facciamo la festa a casa tua. Ti va? Io ci vado il pomeriggio e quando tornate vi faccio trovare tutto pronto. Eh?».
Callaghan acconsentì.
Doveva avvisare la portinaia. Anche se poi lei ne avrebbe approfittato per e spettegolare fino all'autunno. Una volta tanto. Callaghan era un pessimo inquilino. Mai donne, festini, giri strani. Molto deprimente per una portinaia.
Ormai cominciava a far freddo. S'incamminarono verso il cancello. E proprio mentre Callaghan iniziava a sperare che le sue preghiere fossero state esaudite sentì una voce pastosa.
«Ispettore. Che sorpresa».
Callaghan si voltò.
John 'Lard' Buzzer.
Mangiava patatine fritte con mostarda. E guardava Lolly. Poco paterno, John 'Lard' Buzzer.
«Ma io la conosco questa signorinetta.» disse.
E sorrise a Callaghan. Sorriso complice e ammiccante. Callaghan non lo ricambiò.
Non ne valeva la pena
Callaghan frugava nella memoria. Ripensava al codice penale.
Lard accarezzò i capelli di Lolly. Ma li accarezzava pesantemente.
John 'Lard' Buzzer era un porco.
Callaghan frugava ancora.
Era sicuro che ci fosse un articolo che diceva «(comma 1) In genere uccidere un uomo è reato. (comma 2) Ma se si tratta di un porco come John 'Lard' Buzzer, allora...».
Ma non gli venne in mente. Bisognava riformare il codice.
«Era un amico tuo?» gli chiese poi Lolly perplessa. Callaghan si passò una mano nei capelli. Si vergognava.
«No, te lo giuro» disse accostando davanti all'Istituto di Suore. Lolly parve sollevata.
Callaghan sognava il funerale di John 'Lard' Buzzer.
«A giovedì allora» gli disse Lolly scendendo dalla macchina.
«A giovedì» la salutò Callaghan.
Quando rientrò al Commissariato trovò O'Neil era ancora al Commissariato. Praticamente era casa sua.
Aveva problemi con la moglie, il buon vecchio O'Neil. «Ma ti rendi conto? - disse una volta a Callaghan - Una minigonna! Quella ha comprato una minigonna. E pretende che io vada in giro con lei!»
Ma non avrebbe mai divorziato, il buon vecchio O'Neil. Temeva di far peccato.
O'Neil era un pudico cattolico irlandese.
«O' Neil - gli disse Callaghan - ti andrebbe di venire a cena a casa mia giovedì? E' il mio compleanno, e ci sarà anche Lolly. Anzi, lei ci va prima per prepararci la cena. Ti va? Sei Libero?».
O'Neil guardò Callaghan sbalordito.
Non riusciva a credere che pure Callaghan compisse gli anni.
«Allora sei libero?» chiese ancora Callaghan.
«Ma certo. Ovvio. »
Ma O'Neil ancora non credeva alle sue orecchie.
Solo allora Callaghan si accorse di una figura esile e nervosa seduta su una panca.
O'Neil si riprese dallo stupore.
«E' arrivata qui due ore fa» gli sussurrò sottovoce.
Genevieve Lavertu, la moglie dell'avvocato Keenlaw. Salutò dimessa.
Callaghan l'accompagnò in silenzio nel suo ufficio.
Si sedettero l'uno di fronte all'altra.
Era nervosa. Guardava fisso sulla scrivania. Non ce la faceva a guardare Callaghan negli occhi.
«Mi dica» le disse Callaghan.
Sembrò ridestarsi da un brutto sogno.
La famiglia De la Vertu aveva generato guerrieri e badesse.
Genevieve Lavertu apparteneva al ramo badesse.
Solo che era la moglie di uno che si fa riprendere a letto con le prostitute. Capita.
«Veda, signor Ispettore...è per quell'episodio di ieri, per quel film con mio marito e quelle altre.. persone».
Era nervosa, molto nervosa.
«Vada avanti, Signora».
Tormentava il libro che teneva sulle ginocchie. I sotterranei del Vaticano, di quel Gide. Ormai era un cencio spiegazzato.
«Veda Ispettore..non nego che con mio marito abbia avuto dei dissapori, in passato..anche per storie simili a queste, ma...».
Continuò a tormentare il libro.
«Ma?» la incalzò Callaghan.
Genevieve Lavertu sollevò gli occhi per un attimo. Un attimo nel quale a Callaghan parve rivedere lo sguardo di antiche badesse che difendevano il convento da un'orda di mongoli.
«Ma - era stato solo un attimo: aveva ripreso a tormentare il libro - nel complesso siamo una coppia unita. Abbiamo i nostri problemi ma cerchiamo di risolverli. Lei capisce?».
«E allora?» chiese Callaghan.
Genevieve Lavertu deglutì. Le costava fatica parlare.
«Ecco, le chiederei, se è possibile, di tenere la cosa...riservata.».
E lo guardò speranzosa.
Callaghan prese il pacchetto di Camel. Ne tirò fuori una, staccò il filtro e mirò al cestino.
Canestro.
Aspirò due boccate. La guardò.
Begli occhi.
«D'accordo signora. Non volevamo montare uno scandalo.».
Genevieve Lavertu sorrise.
«La ringrazio, Ispettore» disse sobria prima di uscire.
Rimasto solo, Callaghan si chiese Perché l'avesse fatto. Keenlaw era un farabutto, e se voleva innervosire Santamaria avrebbe dovuto colpire duro.
Perché non lo faceva?
Osservava distratto il lento fumo della Camel.
Ripensò a quegli occhi, a quello sguardo.
Brutti scherzi combina la primavera.



CAPITOLO 6

L'Ispettore Callaghan era allegro, quel giovedì. Non gli capitava tutti i giorni di festeggiare il suo compleanno.
Persino la città gli sembrava meno disgustosa del solito. Un paio d'alberi era pure in fiore e qualcuno, per strada, sorrideva. Ma forse si trattava di un ubriaco.
L'unica cosa che rimaneva irrimediabilmente orrenda era l'edificio del Commissariato. Faceva paura anche ai piccioni. C'erano nidi su tutti i palazzi dell'isolato, ma sul Commissariato no.
Callaghan non era ancora entrato che fu investito da una raffica di urla. Voci al confine dell'umano.
Era la Baumann.
Trascinava per il collo un Fish. Grinta dura. Feroce. Espressione spietata.
Anche il Fish, però, non era bello.
La Baumann gli stava impartendo un corso accelerato di rispetto per l'autorità.
Cioè lei.
La Baumann era un' esperta in materia. I nonni della Baumann venivano dalla Westfalia. Suo zio era stato sergente maggiore della Wermacht. Bravi soldati - diceva - la colpa era dei politici.
Invece un antenato del Fish fu portato in America da negrieri tedeschi. Suo nonno morì giovane nelle Ardenne.
Il Fish cominciava a sospettare che la Storia dell'Umanità fosse una fregatura.
Appena vide Callaghan la Baumann gli corse incontro trascinandosi dietro il Fish.
«Ispettore!» urlò scandalizzata.
Paolo Diacono si sbagliava: le Amazzoni non si estinsero.
Callaghan li guardò.
«Ispettore! - riprese la Baumann - Questo disgraziato ha tentato di.. ».
Ma Callaghan non la fece finire. Si avvicinò alla Baumann e le diede un bacino sulla guancia. La Baumann rimase sull'attenti.
Forse contemplava il Walhalla.
Divenne rossa. Callaghan proseguì nel corridoio.
«Si sente male, signora?» chiese il Fish alla Baumann.
Entrato nel suo ufficio gettò il cappotto sulla poltrona. Si sedette alla scrivania.
Tirò fuori una Camel. Staccò il filtro. Questa volta il cestino era particolarmente nascosto. C'era bisogno di tutta la sua abilità. Socchiuse l'occhio destro. Mirò. Strinse la lingua tra i denti. Canestro.
Da tre punti, almeno.
Poi si girò soddisfatto verso il registratore.
Cosa poteva sentire in un giorno così? L' ultimo dei Pere Ubu. Un disco scanzonato. L'ideale. Infilò la cassetta. Mise i piedi sul tavolo. Quel giorno non aveva molta voglia di lavorare. Con quel disco nelle orecchie, poi.
Callaghan cominciava quasi a dimenticarsi di essere in ufficio. Già pensava alla serata con Lolly e O'Neil. Cucinava Lolly.
Chissà cosa sarebbe venuto fuori?
E chissà cosa avrebbe pensato la portinaia vedendo arrivare a casa sua una bambina di dodici anni? Callaghan sorrise: si preannunciava una giornata decente.
Anche il lavoro non era pesante. Qualche omicidio di routine, ma nulla più. Il pomeriggio arrivò in fretta.
E quel pomeriggio, alle cinque, Lolly prese un taxi e si fece portare a casa di Callaghan.
La portinaia (perplessa) le diede le chiavi e dopo cinque minuti Lolly era già davanti al frigo.
Era contenta di cucinare per Callaghan e O'Neil. Le piacevano quei due. Erano diversi dalla gente che aveva conosciuto fino a quel momento. Si chiedeva che tipo dovesse essere suo padre. Non l'aveva mai conosciuto, non sapeva nemmeno chi fosse. Ma sperava che somigliasse a Callaghan.
Adesso tutto il Commissariato era ormai sereno. Sulle prime avevano temuto il peggio. Vedendo Callaghan allegro si era sparsa la voce che avesse deciso di lasciare la polizia. Ma poi, quando si venne a sapere del compleanno, il clima si distese. Gli agenti si occupavano di stupri e rapine col sorriso sulle labbra.
Persino la Baumann si lasciò coinvolgere nella spensieratezza generale. Rilasciò il Fish.
Il Fish si offese: era convinto di essere un pericoloso criminale.
E, alle sette, tra gli auguri di tutti, Callaghan si diresse a casa.
Vicino a casa sua c'era una pasticceria. Torta alla crema, alla frutta o al cioccolato? Questo sì che era un problema.
Lolly intanto aveva terminato uno sbilenco pasticcio di carne. Forse era stata un po' avventata quando aveva assicurato che sapeva cucinare.
Anche l'insalata aveva un aspetto esistenzialista. Ma forse Callaghan e O'Neil non ci avrebbero fatto caso. Gli antipasti, invece potevano andare.
Il formaggio, comunque, era il suo forte.
Suonarono il campanello. Guardò l' orologio: erano un po' in anticipo. Corse alla porta cantando «Tanti auguri a te».
Ma quando l'aprì la canzoncina s'interruppe a metà.
Callaghan non era Amleto: comprò tutte le torte e uscì dalla pasticceria che pareva un albero di Natale.
S'incamminò verso casa e, nel tragitto, incontrò O'Neil. Aveva comprato vino a sufficienza per una locanda di modeste dimensioni. E in più aveva il regalo per Callaghan. Fortuna che il portone era vicino.
«Di' ma ti funziona l'ascensore?» chiese O'Neil dopo cinque minuti passati in contemplazione della lucetta rossa.
«Stamattina sì.».
O'Neil guardò Callaghan pensoso.
«Sesto piano?» chiese.
«Sesto piano» confermò Callaghan.
«Vuol dire che ci metterà appetito» filosofeggiò O'Neil mentre abbordava la prima rampa.
Al terzo piano l' ascensore era ancora fermo da qualche parte e l' appetito era diventato fame. O'Neil sudava. La prossima volta avrebbe comprato i pop corn. Callaghan si chiedeva se era il caso di arrestare l'amministratore del condominio.
Al quarto piano O'Neil si fermò a prendere fiato. Posò le bottiglie a terra. Aveva le braccia anchilosate. Guardò le rampe che salivano ancora. Scrollò la testa sconsolato. Frugò nei recessi della memoria alla ricerca di una citazione appropriata.
«Scale - declamò - scale dappertutto, e tutti gli scalini ripidi».
Callaghan si fermò.
«Chi lo disse?» chiese serio a O'Neil.
«Cosa?».
«Acqua, acqua dappertutto e così via.».
«Non era l'ignoto marinaio di Coleridge?».
Callaghan scosse la testa: «No».
O'Neil ripensò alla professoressa di letteratura. Possibile che si fosse sbagliata?
«E chi era, allora?» chiese O'Neil.
«Un merluzzo prima di essere pescato..».
O'Neil la capì dopo un minuto. Salirono le ultime rampe sghignazzando. O'Neil arrivò per primo al pianerottolo.
«Sbrigati pelandrone: devi dare l'esempio ad un povero agente semplice. Forza! la porta di casa tua è aperta e Lolly ci sta aspettando.».
Callaghan s' arrestò sulle scale.
«Aperta?» chiese.
Gettò a terra le torte e con due balzi salì gli ultimi scalini. O'Neil aveva lasciato le bottiglie. Ora stringeva la 45. Corsero a perdifiato nel corridoio non facendo caso all'ascensore che, nel frattempo, aveva ripreso a marciare portando qualcuno a piano terra. Callaghan entrò dando una spallata alla porta e si gettò a terra con la 45 stretta tra entrambe le mani. O'Neil lo copriva dallo stipite. Nessuno in vista. Allora, trascurando ogni regola imparata ai corsi, si precipitarono dentro l' appartamento. La trovarono subito. Lolly era distesa accanto al frigo. La sua camicetta bianca era macchiata di rosso. Mentre Callaghan le si inginocchiava accanto, O'Neil era già al telefono per avvisare mezza città. Lolly respirava ancora. Cercava di dirgli qualcosa.
«Non ti affaticare, tesoro. Adesso arrivano i dottori» la rincuorava Callaghan stringendole la mano.
O'Neil continuava a chiamare rinforzi. Poco mancava che chiamasse i marines. Callaghan accarezzava i capelli di Lolly.
«Non aver paura, ci siamo noi, adesso».
Lolly gli sorrise debolmente ma la sua piccola mano si afflosciò nella sua.
E poi sorrise per sempre.
Le sirene annunciarono l'arrivo di un esercito. Fecero irruzione con i mitra, arrivarono i medici che non poterono far altro che coprire Lolly con un lenzuolo. E poi i rilievi, i flash della scientifica, i primi cronisti di nera. Tutto passava davanti agli occhi di Callaghan come un incubo.
O'Neil era distrutto. Piangeva, il buon vecchio O'Neil.
«Coraggio, figliolo. - disse abbracciando Callaghan tra le lacrime - Vedrai, lo prenderemo quel bastardo.»
I ragazzi della scientifica lavorarono in silenzio.
Erano turbati.
Eppure era gente pronta a tutto, quella. Raccoglievano pezzi di cadaveri negli angoli più bui della città e li ricomponevano senza battere ciglio.
Ma quella sera erano a disagio. Conoscevano Callaghan. E non l'avevano mai visto così.
Anche quelli del Commissariato erano preoccupati. Non lo volevano lasciare solo, quella notte. Callaghan aveva rifiutato. Preferiva restare solo.
Solo con il suo whiskey.
Quando furono usciti si sedette sul divano a guardare il segno di gesso tracciato per terra.
La sagoma del corpo di Lolly, così come l'avevano trovata. Solo allora Callaghan si rese conto che di Lolly non aveva nessun ricordo. Non una fotografia, non un oggetto.
Niente.
Solo alcuni filmini porno e quella sagoma che la portinaia avrebbe cancellato martedì.
Martedì era il giorno delle pulizie.
Si riempì un bicchiere di whiskey. Non fece caso alla quantità.
Non era il momento di pensare al fegato.
Rimase in quella posizione per delle ore. Quando spuntò il sole aveva finito la sua prima bottiglia. E aveva già ascoltato due volte il disco dei Thin White Rope. Un disco triste: era il loro disco d'addio. I Thin White Rope, uno dei più grandi gruppi degli anni '80, erano morti. Anche loro.
E ora di loro è rimasto solo il ricordo.
Brutti ricordi opprimevano Callaghan.
MaryLou, il suo unico vero amore. Finito. E poi Ursula, una sua cara amica. Uccisa. E ora Lolly. Anche lei morta.
Cosa faceva, lui, alle donne?
Ma Callaghan non era il solo oppresso da neri pensieri. In una casa non molto distante dalla sua l'angoscia tormentava Jane Awface. Non era una bella ragazza, Jane Awface. Anzi.
Sembrava brutta anche a sua madre.
Bassotta, grassoccia. Occhi bovini. Denti strani. Quando sorrideva la gente si spaventava. Era un po' complessata, Jane Awface. Non usciva più di casa: si sentiva un mostro, Jane Awface.
In effetti.
Quella notte aveva pianto. Le succedeva spesso. Non un ragazzo, nemmeno l'ombra di un ragazzo. Giornate di solitudine e lacrime.
Oltretutto Jane Awface non era molto simpatica.
Al Commissariato lavoravano duro. La morte di Lolly li aveva colpiti. Quel giorno tutti gli agenti mollarono i soliti impegni e dichiararono guerra all'Angelo Sterminatore. Formarono gruppi di lavoro. Scartabellarono tutti gli archivi alla caccia di elementi. Ma gli indizi di partenza erano pochi. C'era solo una debole traccia, quella che passava per Keenlaw e Supplyside per arrivare a Santamaria. Non era un granché. Santamaria era un boss potente. Non si sarebbe mai arrischiato a sfidare così apertamente la polizia.
Non era un granché, ma era l'unica.
E allora cominciarono a rovistare nella vita di Keenlaw e Supplyside. I loro studi. I loro amici. Le famiglie. Le case, la villetta nel quartiere storico e l'appartamento sul grattacielo. Le case di villeggiatura a Cape Cod e alle Bahamas. Le macchine, una Mercedes 500 per Keenlaw e una Jaguar per Supplyside. Tutto, insomma. Lavoro febbrile. Senza distrazioni.
Gli estranei che entravano venivano ignorati o invitati a star zitti. Ma non ce n'era bisogno. Chiunque si trovava a passare di lì per caso, vedendo la situazione, pensava bene di ritornare in un altro momento. Fecero tutti così, quel giorno. Tutti meno John Watchrod, il rompiscatole. Un addetto al traffico.
Verso l'ora di pranzo Jane Awface ricevette una telefonata. Era Pat Finesoul, una sua amica. Pat Finesoul l'invitava ad una festa. Jane Awface dapprima tentennò. Non voleva spaventare nessuno con la sua presenza. Ma Pat insistette. Pat Finesoul era impegnata in molte associazioni di volontariato. Jane Awface tentennò ancora. Pat insistette di nuovo. Era molto buona Pat Finesoul.
Quella telefonata fece la gioia della compagnia dei telefoni.
Alla fine Jane Awface accettò. Erano lustri che non partecipava ad una festa. Non sapeva come vestirsi. Gli unici vestiti che aveva le servivano per andare in chiesa la domenica. Per lei era il massimo della mondanità. Le piaceva sentir leggere le Scritture.
Soprattutto quando parlavano di lebbrosi.
Verso sera Callaghan si accorse che aveva finito anche la seconda bottiglia di whiskey. Era l'ultima.
Staccò gli occhi dal segno di gesso e si infilò il cappotto. A due isolati c'era un negozio di spirits. Camminava incerto, Callaghan. A fatica riuscì a centrare il tasto che chiamava l'ascensore. Poi uscì in strada. Camminava rasente il muro. Ogni tanto poggiava la mano per riacquistare l'equilibrio. Nessuno faceva caso a lui. In quella città gli alcolisti erano un esercito.
Al Commissariato John Watchrod parlava. Nessuno lo ascoltava, ma per lui questo non era un problema. Era un rompiscatole John Watchrod.
«..capite, ragazzi, io stavo lì e lui stava là e allora io ci dico: 'cosa fai tu là?' e quello allora mi guarda e mi fa 'Perché?' e allora io 'Perché no!' capite?...».
John Watchrod riusciva a parlare per delle ore senza dire niente.
Rumore di fondo.
Wilcox e la Baumann controllavano il registro automobilistico. I passaggi di proprietà. Cercavano di non badare a Watchrod.
«.. certo che avete proprio un gran daffare oggi dev'essere per quella cosa che è successa ieri a casa di Callaghan certo che è strano proprio ieri ero di servizio a un isolato di distanza buffo Perché poi ho visto Fred conoscete Fred? quello del bar e allora gli chiedo secondo te cosa fanno i Celtics e allora lui mi dice che stava quasi per essere messo sotto da una macchina e che del basket non gliene fregava niente...».
Jane Awface uscì al tramonto. Sperava così di evitare sguardi indiscreti. La casa di Pat Finesoul non era lontana. Tre o quattro isolati. Ci si poteva arrivare evitando le strade e percorrendo i vicoli del retro.
Lì dove ci sono i bidoni dell'immondizia.
Callaghan era riuscito a mantenersi saldo fino al negozio. Ma uscito da lì cominciarono i conati. La passeggiata gli aveva fatto salire l'alcool. Cominciò a temere di non arrivare fino a casa.
La Baumann sperava che a John Watchrod venisse un infarto. Una cosa veloce, di quelli che uno cade e tutti dicono «Toh, guarda, è morto stecchito.».
Purtroppo John Watchrod scoppiava di salute.
«e allora poi vi dicevo che quella volta che andai giù al porto...».
La Baumann tentava di guardare e passare. ma non le riusciva facile. Continuava a sognare il funerale di Watchrod.
«Allora, Wilcox. La macchina di Keenlaw?» chiese la Baumann alzando la voce.
Voleva coprire il rompiscatole.
«Una Mercedes 500. Nera. Immatricolata nel 1992..» Anche Wilcox aveva risposto alzando la voce. Ma Watchrod continuava imperterrito.
«Una Mercedes 500 nera buffa questa sapete è proprio la macchina che stava per investire Fred solo che adesso lui non pensa al basket..».
La Baumann e Wilcox si voltarono.
Watchrod li guardò spaventato. Temeva di aver detto qualcosa che non andava.
La Baumann si alzò. Si avvicinò a Watchrod. Lo prese per il bavero e lo sollevò di cinque centimetri.
«Cosa hai detto?» gli chiese la Baumann.
Watchrod riacquistò l'uso della parola dopo parecchi minuti. Fu il silenzio più prolungato di tutta la sua vita.
Callaghan lasciò la strada. Non ce la faceva più. Ormai gli saliva tutto. Si rifugiò di corsa in un vicolo.
Là dove lasciano i bidoni dell'immondizia.
Generalmente i vicoli sono deserti. Quello non lo era. Una figura bassotta e grassoccia avanzava nell'oscurità. Callaghan la vide solo all'ultimo momento. Cercò di trattenersi ma non ce la fece. La guardò solo un attimo, e poi le vomitò ai piedi.
Jane Awface capì quello che doveva fare.
S'incamminò verso il porto. Nei pressi della banchina c'era un cantiere. Prese una pietra pesante.
Prima s'era comprata una corda.
S'avvicinò al molo e cominciò a legare la pietra.
Poi fece un cappio.
Generalmente al porto non c'è mai nessuno a quell'ora.
Ma quella sera, in quel momento, verso di lei veniva un tipo allampanato e glabro. Curvo, un po' Perché portava un pietrone e un po' Perché era gobbo.
Zoppicava.
Aveva un passato sentimentale agghiacciante.
Quando vide Jane Awface fece per allontanarsi.
Non gli piaceva suicidarsi in pubblico.
Si vergognava.
Anche Jane Awface era imbarazzata.
Ma poi videro ciascuno la pietra e la corda dell'altro. Rimasero un po' a guardarsi a distanza.
Diffidenti.
Poi si avvicinarono e cominciarono a parlare.
Parlarono molto, quella sera.
E anche quella dopo.
E quella dopo ancora.
Si sposarono dopo sei mesi. Fu nel complesso un matrimonio felice.
Ebbero tre figli. Non furono, però, delle gran bellezze.
Ma l'Ispettore Callaghan tutto questo non lo sapeva.
Mentre Jane Awface s'incamminava verso il porto, Callaghan barcollava verso casa.
Ancora due isolati.
Sono lunghi due isolati. Soprattutto se le strade ti ballano attorno.
Al Commissariato, invece, erano sobri. E molto eccitati. Watchrod, era conteso da un agente all' altro. A tutti doveva ripetere la storia dall'' inizio.
Non gli pareva vero. Era la prima volta che tanta gente s'interessava a quello che diceva. Si sentiva finalmente importante, Watchrod.
Dal canto suo, l'Agente O'Neil, il buon vecchio O'Neil, non aveva perso tempo. Aveva raggiunto un procuratore per farsi firmare un mandato di perquisizione per la casa di Keenlaw.
Il procuratore cercò di opporre resistenza. Parlava di garanzie processuali, il procuratore.
O'Neil era in polizia da molti anni. Ne aveva viste di cose, lui. Per esempio aveva visto il procuratore quella volta che usciva da un motel con una ragazza sotto braccio.
«Era proprio una bella ragazza» ricordò il buon vecchio O'Neil al procuratore.
Il procuratore cercò di cambiare discorso. Il procuratore preferiva discutere di filosofia del diritto.
O'Neil aveva altri interessi.
«Proprio una bella ragazza.» riprese O'Neil.
E dopo qualche secondo di meditato silenzio.
«A proposito - chiese con aria innocente - come sta sua moglie, Signor Procuratore?».
Il procuratore firmò l'autorizzazione.
Callaghan, invece, tentava di infilare la chiave nella serratura.
Operazione complessa. Al giorno d'oggi fanno le serrature sempre più piccole.
Pensò quasi di addormentarsi sullo zerbino prima di riuscire ad aprire la porta.
Scansò le bottiglia vuote che aveva lasciato per terra e posò sul tavolo quelle che aveva appena comprato. Prese un bicchiere dalla cucina. Lanciò uno sguardo al ritratto di gesso di Lolly.
Troppi pensieri. Brutti pensieri.
Si avvicinò al giradischi. Una pila di dischi non ancora ascoltati. Non aveva mai tempo di ascoltarli, lui. Troppi maniaci in quella città. Scorse i dischi ad uno ad uno. Gli Optic Eye. Un nuovo gruppo psichedelico. Quello che ci voleva per evadere. Mise il disco sul piatto, e, mentre partiva, staccò la spina del telefono. Non voleva sentire nessuno. A parte gli Optic Eye.
O'Neil si attaccò al telefono. Voleva raccontare a Callaghan le ultime novità. Ma non rispondeva nessuno.
In quel momento Callaghan non ricercava il dialogo.
O'Neil riprovò dopo dieci minuti. Ancora non rispondeva nessuno. O'Neil chiamò due macchine e gli agenti Frazer, Wilcox, Jefferson e Baumann. Tutto molto di corsa.
La Baumann sapeva guidare bene. Troppo bene. O Neil recitò tre pater noster durante il tragitto. Buon vecchio O'Neil, pudico cattolico irlandese. Pregava spesso, lui. Specialmente quando si vedeva ad un passo dalla morte. La Baumann guidava canticchiando. In tedesco.
Callaghan era in cuffia. Fu solo alla fine del disco che si rese conto che picchiavano alla porta. Pareva volessero buttarla giù. Si alzò di scatto, ma la camera cominciò a girargli attorno e il divano si esibì in una danza del ventre. Alla porta picchiavano ancora. Quando il divano si prese una pausa, Callaghan sfilò la 45 d'ordinanza dalla tasca della giacca.
Si avvicinò alla porta sbirciando dallo spioncino. Accarezzò la 45. Sperava fosse l'Angelo Sterminatore.
Invece era O'Neil. Sudava, il buon vecchio O'Neil. Aveva bussato per tutta la seconda facciata. Callaghan aprì la porta.
O'Neil fissò Callaghan a lungo. Sguardo di rimprovero. Era paterno, il buon vecchio O'Neil.
«Cal, ma come ti sei ridotto?» gli chiese. Callaghan si strinse la testa nelle spalle.
«Ragazzo - continuò O'Neil - devi reagire. Quel bastardo è ancora a piede libero. E tu sei qui ad ubriacarti.».
«Ma lasciami perdere.» disse Callaghan agitando l'aria. Voleva scacciare il senso del dovere. O'Neil fece per uscire.
«Come vuoi - disse O'Neil sulla porta - Vorrà dire che l'Angelo Sterminatore lo prenderemo noi.».
Silenzio.
Poi O' Neil sentì alle sue spalle uno scatto metallico. La sicura della 45 di Callaghan.
«Cosa hai detto?» gli chiese Callaghan.
Arrivarono davanti alla casa di Kennlaw in meno di dieci minuti. Guidava ancora la Baumann. Callaghan non credeva che lo stomaco potesse avvicinarsi così tanto al naso.
Suonarono alla porta. Gli agenti controllavano le pistole, nel caso dovessero usarle contro l'Angelo Sterminatore. Gli agenti speravano di usare le pistole contro l'Angelo Sterminatore. Quella sera molta gente considerava di troppo l'esistenza dell'Angelo Sterminatore.
Aprì la cameriera con il grembiulino a pizzi. Quella che aveva sbagliato secolo e Continente.
A momenti sveniva.
«La signora non è in casa..» balbettò smarrita.
«Volevamo vedere il signor Keenlaw» la interruppe Callaghan.
«L'avvocato lavora nel suo studio. Non vuole essere disturbato.».
Fiacca.
«Lo disturbi pure» la consigliò Callaghan.
Tirò fuori la 45. La cameriera schizzò a disturbare l'avvocato.
Bruttarello e grassoccio come al solito. Con quell'espressione stupita era ancora più bruttarello. Sudava.
«Cos'è quest'intrusione?» protestò.
Callaghan gli mise il mandato sul naso. Kennlaw lo lesse più di una volta. Se ne intendeva di scartoffie legali, lui. Rialzò lo sguardo a incontrare quello di Callaghan.
«Questa è la morte dello stato di diritto» arringò convinto.
Quella sera la filosofia del diritto era un best seller.
O'Neil entrò in casa. Keenlaw alzò la voce. Poi si avvicinò gesticolando a Callaghan. Quasi minaccioso. La Baumann lo prese per il colletto.
«Nanerottolo - gli disse - facci lavorare.»
Keenlaw optò per un rancoroso silenzio.
Gli agenti si divisero per la casa. Callaghan si buttò su una poltrona. Poltrona antica, roba d'antiquariato. Molto scomoda. La Baumann si aggirava tra le statuine e i soprammobili. Non era molto delicata, la Baumann. Erano altri i suoi pregi. Una ballerina di porcellana si frantumò a terra.
«Ooops!» disse la Baumann.
La cameriera si accasciò su una sedia con la testa tra le mani.
Piangeva.
Keenlaw sudava. Wilcox e Frazer erano al piano di sopra.
«Ma cosa sperate di trovare?» chiese Keenlaw.
Era depresso, l'avvocato Keenlaw.
O'Neil si aggirava minaccioso tra i mobili del salone. Camminava sotto lo stemma della famiglia De La Vertu. Antico stemma: aveva pure un sacco di tarme.
O'Neil fece un movimento brusco. Anche O'Neil aveva molti altri pregi.
«Mi spiace» disse il buon vecchio O'Neil guardando lo stemma rotto in tre pezzi sul pavimento.
La cameriera vagliava l'ipotesi di farsi prendere da una crisi isterica.
Poi si udì un urlo dal piano di sopra. Era Wilcox.
«Ispettore!».
Era sempre umido dalle parti del fiume. Faceva freddo. Bisognava coprirsi. Ma Miguelita non lo faceva quasi mai. Era una professionista, Miguelita. Quando aspettava un cliente il suo motto era 'trasparenza'. I soliti pantacollant. Il solito gilet più piccolo di due misure. Poca clientela, quella sera. Faceva troppo freddo per una serata caliente con lei.
Ma poi si avvicinò una macchina. Rallentò. Si fermò. Si abbassò il finestrino. Un cenno. Miguelita si avvicinò sorridendo. Quando vide chi la guidava rimase stupita. Molto stupita. Ma poi entrò nella macchina. 'Il cliente ha sempre ragione' era l'altro suo motto.
Era professionale, Miguelita.
Callaghan dimenticò di essere ubriaco. Si precipitò al piano di sopra seguito da O'Neil. Il buon vecchio e ansimante O'Neil. Wilcox aveva rovistato nel fondo di un armadio. Una busta di plastica. Dentro c'era un coltello ancora sporco di sangue. L'avvocato Keenlaw sudava. Si passò un dito nel colletto.
«Vi posso spiegare tutto.» disse.
Miguelita operava in un alberghetto di nessuna categoria dalle parti del porto. Il proprietario era un tipo alla buona. Spesso faceva credito, a volte accettava pagamenti in natura. Ne aveva viste di tutti i colori il proprietario. Non si stupì più di tanto.
La Baumann aveva una particolare propensione per il colletto di Keenlaw. La Baumann era una fine psicologa. La sua teoria era che se un tipo viene preso per il colletto da una donna alta dieci centimetri più di lui, quel tipo dirà tutto quello che sa.
Kennlaw ci faceva il reticente. Aveva studiato legge, lui, non psicologia.
Callaghan continuava a guardare la busta e il coltello. Troppo facile.
Ripensò a quel filmino porno, quello in cui appariva Keenlaw. Era da lì che era partito tutto. Perché Keenlaw avrebbe dovuto uccidere la gente che appariva in quel filmino? E Lolly, poi. Come faceva Kennlaw a sapere che sarebbe andata a casa sua? Del resto chi lo poteva sapere? Solo lui, la portinaia. E O'Neil. Ancora si ricordava di quando l'aveva invitato, quella sera al Commissariato.
Anche Wilcox era un fine psicologo, anche se di una scuola diversa. La sua teoria era che se si ventila a un tipo l'ipotesi di buttarlo giù dalla finestra, alla fine quel tipo dirà molte cose.
In quel momento stava sottoponendo a verifica la sua teoria.
Callaghan pensava.
Quel filmino. C'era Samantha. Uccisa. Sancita. Uccisa anche lei. E poi c'era Miguelita... Callaghan posò la busta per terra.
«O'Neil» chiamò sottovoce.
«Sì?».
«Tu sai dove abita Miguelita?»
«Certo. Ma Perché?».
«Sbrighiamoci.».
Miguelita guardava la persona che era salita con lei. Strana persona. Indossava ancora l'impermeabile. Era perplessa, Miguelita.
«Cosa puede yo obrar por usted?» chiese Miguelita.
Dall'' impermeabile sbucò una mano. Stringeva un coltello.
«Morire» rispose l'impermeabile.
Miguelita invocò mentalmente numerosi santi del calendario. Poi cercò di scappare dalla porta, ma l'impermeabile si piazzò davanti. Miguelita allora scavalcò il letto rovesciando un mobiletto. Il mobiletto si aprì e ne uscirono confezioni intere di preservativi. Miguelita li comprava all' ingrosso.
Era professionale, lei.
Prese un cuscino come scudo e iniziò a gridare. Cuscino vezzoso.
In quell'albergo le grida erano una colonna sonora usuale. Nessuno ci fece caso. Miguelita pensò che forse qualche peccato l'aveva commesso. Però si sentiva buona, Miguelita.
Sperava che anche il Padreterno fosse d'accordo. L'impermeabile si era districato tra i pacchi di preservativi. Ora avanzava inesorabile. Miguelita chiuse gli occhi e si prese la testa tra le mani. Non sentì le urla di Callaghan e O'Neil che risalivano le scale.
Ma le sentì l'impermeabile.
Miguelita abitava al quarto piano. Di ascensori manco a parlarne. Callaghan e Wilcox salivano gli scalini a due a due. O'Neil ansimava. Buon vecchio O'Neil, era vicino alla pensione, lui.
L'impermeabile lasciò la stanza di Miguelita. Scendere era ormai impossibile. E allora salì.
Callaghan e Wilcox trovarono Miguelita in ginocchio. Ringraziava Santa Rita.
Ma poi vide Wilcox, il suo principe azzurro.
Rimandò le preghiere.
Callaghan proseguì la corsa e ordinò a Wilcox di fermarsi con Miguelita. Wilcox obbedì molto a malincuore.
Le scale proseguivano in salita per altre due rampe e, al sesto piano, Callaghan si ritrovò sul terrazzo. Un brutto terrazzo. Estrasse la 45. Ai corsi gli avevano insegnato che in questi casi si doveva aspettare l'arrivo dei rinforzi. Callaghan non era un ottimo studente. Soprattutto quando aveva conti personali da regolare. Avanzò, e, dopo pochi metri vide l' impermeabile. Era in fondo. Guardava in basso.
Callaghan si avvicinò. Si fermò a due metri.
«Voltati». ordinò.
L'impermeabile rimase immobile per lunghi secondi. E poi si voltò. Callaghan guardò i suoi occhi.
Begli occhi.
Azzurri. Gli occhi di Genevieve Lavertu. Generalmente spauriti. Ma ora non lo erano. Forse Jean De La Vertu aveva lo stesso sguardo quando, tanti secoli prima, combatteva al fianco di Carlo il Temerario, Duca di Borgogna. Callaghan abbassò la 45. Non ne aveva bisogno. Guardò Genevieve Lavertu in silenzio.
«Perché?» le chiese alla fine.
Sguardo fiero, quello di Genevieve.
«E adesso? - chiese Genevieve - Cosa mi aspetta? La sedia elettrica?».
Sembrava soddisfatta Genevieve Lavertu. Forse le piaceva l'idea di morire. Perché? Roba da psichiatri. E Callaghan non era uno psichiatra. Era uno sbirro, lui. Riuscì solo a dire «Mi segua signora..».
Nel frattempo era arrivato anche O'Neil. Ansimava. O'Neil pensava che un'altra serata così e lui alla pensione non ci sarebbe arrivato mai. Tirò fuori le manette e fece un passo avanti. Genevieve tirò fuori il coltello.
«Non vi avvicinate» li minacciò agitandolo come fosse una spada di famiglia.
«Cerchi di ragionare..» le disse Callaghan poco convinto.
Genevieve non sembrava in vena di ragionamenti. Salì sul parapetto. Guardò Callaghan sorridendo.
«Mi saluti mio marito» gli disse.
Avevano spirito, i De La Vertu. Si dice che uno di loro, durante la Rivoluzione, raccontò una barzelletta davanti alla ghigliottina. Il boia rise a crepapelle prima di staccargli la testa.
Poi Genevieve si voltò, e s' incamminò nel vuoto. Callaghan e O'Neil non fecero in tempo a trattenerla. Videro cadere giù nel vicolo, ma Genevieve vide la strada che si avvicinava sempre di più, sempre più veloce. E si ricordò di tante cose, cose che credeva di aver dimenticato per sempre. Le suore, il papà. Il matrimonio. Poi vide solo un gran bagliore, come se le avessero scattato una foto di notte. E poi non vide più niente.
Atterrò su un bidone dell'immondizia e lì si estinse la stirpe dei De La Vertu.
Sirene in lontananza. La Baumann aveva chiamato rinforzi.
Callaghan tirò fuori il pacchetto di Camel. Ne prese una. Staccò il filtro e lo mise tra indice e pollice. Non aveva cestini a cui mirare, quella volta. O'Neil gli mise una mano sulla spalla. Non sapeva nemmeno lui se doveva congratularsi o fargli coraggio.
«Ci vediamo domani mattina» gli disse Callaghan.
«Cal?» gli fece O'Neil.
«Sì?» .
«Ti devo ancora dare il regalo per il compleanno..».
«Domani, O'Neil, domani» gli rispose Callaghan.
O'Neil lo vide incamminarsi giù per le scale. E dopo un po' lo seguì con lo sguardo mentre usciva dall'' alberghetto e s'incamminava da solo nella foschia.
Callaghan camminò da solo per quelle strade e si ritrovò nel parco. Era ancora aperto. Per fortuna che John Lard Buzzer era già andato a casa. Anche il consueto apocalittico era andato a dormire. Evidentemente non voleva farsi trovare stanco il giorno del Giudizio.
Callaghan arrivò vicino al laghetto. Le panchine erano deserte ormai.
Era molto umido quella sera. Roba da prendersi una bronchite.
Callaghan si sedette sulla panchina e tirò fuori il pacchetto di Camel.
Le anatre nuotavano in comitiva.
Callaghan si accese una Camel e gettò il fiammifero ancora acceso sull'erba. Si spense sfrigolando. Era umido quella sera.
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