lunedì 30 gennaio 2012

Per chi suona Piazza Tahrir

E’ stata una rivoluzione tradita quella egiziana? Oppure, al contrario, nel corso dell’ultimo anno, da quando, il 25 gennaio del 2011, iniziarono quelle manifestazioni che portarono, l’11 febbraio, alle dimissioni di Mubarak, il paese ha realmente cambiato pagina e si appresta a vivere una nuova stagione? 
Oggi, ad un anno di distanza, Piazza Tahrir si è nuovamente riempita di centinaia di migliaia di manifestanti, forse milioni, ritornati su quest’anello d’asfalto sul lato meridionale di un grande spiazzo chiuso a nord dalla mole neoclassica del museo archeologico al cui fianco sorge il rudere carbonizzato di quella che fu la sede del PND, il Partito Nazionale Democratico di Mubarak. Perché sono tornati? Per celebrare l’anniversario o per trarre nuova forza per riprendere l’opposizione ai militari? I manifestanti erano divisi e, nell’euforia del momento, nei festeggiamenti, è stata messa la sordina alle differenze. Dalla caduta di Mubarak, infatti, da quando il potere è stato preso in mano dai militari costituiti in Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF), il centro della piazza è stato occupato dalle tende degli indignati egiziani ben collegati, grazie a facebook e twitter (da seguire #tahrir) al resto del mondo. Non hanno smesso, in questi mesi, di denunciare la gattopardesca continuità tra i militari e il regime di Mubarak, del quale hanno preso il posto varando una nuova e provvisoria costituzione nella quale, di fatto, i poteri prima attribuiti al Presidente, finivano in mano dello SCAF. Ci sono stati scontri (ultimi quelli di novembre) e vittime, dimissioni di governi ma il potere supremo, per ora, è rimasto nelle mani dei militari. Rivoluzione tradita, quindi? 
I ragazzi accampati a Piazza Tahrir pensano di sì. Eppure alcune cose sono cambiate, in Egitto, anche se in maniera del tutto inattesa dagli indignati. I militari, quando presero il potere, promisero elezioni legislative entro l’autunno 2011 e presidenziali entro giugno 2012. Le elezioni per il Parlamento si sono tenute (nei prossimi giorni inizieranno quelle per la Camera alta) e hanno visto una buona affluenza di elettori. Ma i risultati sono stati una sorpresa, perché si pensava ad un testa a testa tra i fratelli Musulmani e il blocco dei partiti liberali (i più filo occidentali). E’ successo invece che i Fratelli musulmani hanno guadagnato oltre il 47% dei seggi e il secondo partito, con quasi il 25%, è stato quello salafita, una formazione islamica ancora più radicale. I filo occidentali sono stati sonoramente sconfitti, e i ragazzi di piazza Tahrir , i più radicali tra i liberali, hanno portato in parlamento meno di dieci rappresentanti. 
Tutto ciò ha improvvisamente mutato la Fratellanza, da spauracchio delle cancellerie occidentali, in male minore con la quale si può e deve trattare. E i Fratelli, d’altro canto, sostengono che sì, in effetti la sharia sarà introdotta in Egitto, ma saranno molto tolleranti e hanno accolto con molto entusiasmo l’invito di Sheshouda III, il Papa dei cristiani copti, a presenziare alla Messa di Natale. I salafiti si sono rifiutati. E i copti oltranzisti si sono arrabbiati (per l’invito rivolto dal Papa agli islamici). E poi c’era da tranquillizzare investitori e turisti stranieri che, spaventati dal clamore delle rivolte, hanno fatto crollare del 30% le entrate turistiche in valuta pregiata. 
Per la Fratellanza, che in questi mesi ha disertato piazza Tahrir in attesa di vincere alle urne, questo 25 gennaio 2012 è stato fondamentalmente una celebrazione. Sappiamo quindi che il Parlamento sarà dominato dagli islamisti ma, in un Paese nel quale vige ancora una costituzione che, di fatto , è quella precedente, ritagliata sulla figura di un Presidente autoritario al quale delega un’immensità di funzioni, il potere legislativo conta poco. In attesa di una nuova Costituzione, che sarà elaborata nei prossimi mesi, la vera partita saranno le presidenziali Chi vincerà? 
Oggi l’opinione più diffusa è che la spunterà Amr Moussa, un politico di lungo corso, ex ambasciatore all’ONU, ex ministro sotto Mubarak e attuale presidente della Lega Araba. E’ anziano, è del 1936 (l’età di Berlusconi, peraltro, un’età che in un paese giovane come l’Egitto pare vegliarda e patriarcale) e questa è la migliore garanzia che, almeno, non sarà lui l’iniziatore della 34esima dinastia faraonica. Un presidente di transizione, insomma, per garantire un po’ di stabilità, in attesa di riaprire il vero braccio di ferro, quello tra la Fratellanza e i militari. In questa futura contrapposizione i veri esclusi rischiano di essere proprio loro, i ragazzi di Piazza Tahrir, gli indignati accampati su quel cerchio di terra circondato dall’anello d’asfalto, quelli che per tutto questo tempo hanno creduto di incarnare la vera opposizione allo SCAF chiedendone l’allontanamento. 
Eppure la maggioranza del popolo egiziano non sembra condividere questa necessità, è convinta che tra sei mesi i militari se ne andranno. E allora, perché agitarsi? Perché “rovinare quel bel giardino d’erba che c’era lì in mezzo alla rotonda?”. 

Il compattatore umano 

Lasciata Piazza Tahrir, però, pare proprio che l’urgenza del passaggio dei poteri prima delle elezioni in estate non sia considerata questione di vita o di morte. Non sembra essere la principale preoccupazione di Ahmed (nome di fantasia) che, all’ingresso del mercato di Khan el Khalili, svolge con coscienza la sua professione di compattatore umano. Come i vecchi pigiatori di vino, a piedi nudi dentro un cassonetto di immondizie, Ahmed compatta. Pesta e ripesta, per fare in modo che in quel cassonetto entri un po’ di quella sporcizia che in Egitto è ovunque: nelle scarpate ai lati delle strade, nei canali d’irrigazione sui quali si affacciano abitazioni. E in quei cumuli giocano bambini e aironi e ogni tanto, quando i cumuli raggiungono un volume eccessivo, gli si dà fuoco, e i fumi entrano nelle case e, inshallah, “tanto la vita qui in Egitto non è lunga come da voi”. 
D’altro canto, il sistema fognario è carente (eufemismo) e si va avanti a forza di fosse, e non esiste un solo deposito di rifiuti pericolosi in tutto l’Egitto. A questo si aggiunge l’inquinamento provocato dalle macchine, una nube grigia che staziona sul Cairo, alimentata da catorci vecchi di 50 anni (archeologia, altro che Tutankhamon: arcaiche 1300 e 1500, miriadi di 131 e 132, 127 a gogo; una, in vendita, recava con orgoglio il cartello “Model 1980, call XXXXX”; era quasi nuova). E poi motorette cinesi, cloni di vecchie giapponesi, piccole ed economiche, che si diffondono a macchia d’olio, rimpiazzando i somarelli, sino a qualche anno fa il “mezzo” di locomozione più diffuso. Quanti i PM10, quelli che affliggono le nostre metropoli? E chi lo sa? Ci sono forse stazioni di rilevamento? E allora, perché preoccuparsi? Del resto, con una rete di trasporti carente (altro eufemismo) con l’assicurazione obbligatoria inesistente (“E in caso di incidente”? “Inshallah”) e con la benzina – di pessima qualità – a (circa) 16 centesimi di Euro al litro, l’unico mezzo è riciclare vecchi catorci all’infinito e ingorgare il traffico. 
16 centesimi (al cambio di oggi): se si guarda questa tabella  pur non aggiornata, ci si rende conto che il prezzo della benzina in Egitto è pari a quello di paesi che navigano nel petrolio, come Kuwait e Arabia. Ma l’Egitto naviga nel petrolio? No, purtroppo, ha raggiunto il picco. 

Dopo un picco c’è un baratro 

Il petrolio non finirà dall’oggi al domani, perché i giacimenti non si esauriscono all’improvviso. Piuttosto accadrà che un certo giorno si comincerà a produrre un po’ meno dell’anno precedente, perché magari i giacimenti migliori e scoperti prima si sono esauriti e quelli nuovi sono un po’ meno produttivi. Quando arriverà il picco, cioè l’anno di massima produzione, per il nostro pianeta? C’è chi dice presto, prestissimo: pochissimi anni; altri sostengono che abbiamo ancora una ventina d’anni. 
Quando accadrà per la Terra, quindi, non è sicuro, ma sappiamo che in Egitto il picco è stato raggiunto nel 1993. Da allora producono sempre meno petrolio e, dal 2010, i consumi superano la produzione. E questo perché, da un lato, ne producono meno e, dall’altro, ne consumano di più, a causa dei catorci di cui sopra, delle moto cinesi e del prezzo della benzina allineato al Kuwait. Ma come mai il prezzo della benzina è così basso in Egitto? Semplice, è un prezzo politico: il governo egiziano spende in sussidi alla benzina più di quanto stanzia per il bilancio annuale della pubblica istruzione. 
In queste settimane la Nigeria, che produce petrolio in gran quantità – a differenza dell’Egitto – ha aumentato il prezzo della benzina da (al cambio attuale) circa 30 centesimi a circa 70. E’ scoppiato il finimondo: scioperi generali, proteste, minacce ai distributori di benzina, tensioni. E partivano da un prezzo doppio di quello egiziano. Che succederà in Egitto quando il prossimo governo (chiunque sia il presidente) prenderà in mano la situazione? D’altro canto, con trasporti carenti e nuove città che sorgono come funghi in mezzo al deserto, come ci si sposta? Nuove città, nuovi abitanti: questo porta ad un’altra domanda: quanti sono gli egiziani? 
Nessuno lo sa con certezza, ma dovrebbero essere più di 80 milioni e meno di 90: diciamo 85, non ci sbaglieremo di molto. Erano meno di 30 milioni nel 1960 e crescono al 2% all’anno. Ogni nove mesi circa c’è un milione di egiziani in più. Ma l’Egitto è grande! un milione di Kmq, 3 volte e passa l’Italia. Falso, perché, come tutti sappiamo, gran parte è deserto e la superficie utile è circa il 6/7%. 70.000 Kmq circa: 3 volte la Sicilia. In 3 Sicilie, quindi, ci sta la popolazione della Germania, che aumenta al ritmo di una Palermo ogni quattro mesi. E tutti questi devono spostarsi, consumano rifiuti, mangiano e bevono. Bevono? 
Questo ci porta al problema dei problemi: l’acqua. E ci porta anche ad una delle attuali piaghe d’Egitto, quella della terra tramutata in sale. Da Erodoto in qua sappiamo che l’Egitto è figlio di quel Nilo che tutt’ora fornisce acqua al 90% dei terreni agricoli. Purtroppo, però, irrigare i campi con acqua di fiume in terre aride porta problemi, perché l’acqua che scende dai monti corre lungo rocce dalle quali strappa piccole quantità di sali minerali che poi (come sappiamo) si depositano nelle nostre lavatrici. Donde l’anticalcare. 
I campi irrigati, quindi, decennio dopo decennio, cominciano ad accumulare questi sali che, alla lunga, rendono sterile la terra. Se ne resero conto già i Sumeri, e se la Mesopotamia è incoltivabile è per questo: il sale accumulato migliaia di anni fa rende il terreno inutilizzabile oggi. Nei nostri climi il problema si pone poco perché la pioggia (poco o nulla salata) lava il sale e lo porta in mare dove è di casa. In Egitto, per millenni, si è ottenuto lo stesso effetto grazie alle piene che allagavano i campi e trascinavano via il sale accumulato. Negli anni’60, però, si decise di costruire la diga di Assuan per irreggimentare le piene e, da allora, l’acqua del Nilo scorre sempre dentro un letto prefissato. Parentesi: questo discorso parte dal tacito presupposto che l’acqua del Nilo appartenga all’Egitto. In realtà la questione fu stabilita nel lontanissimo 1959 quando lo sfruttamento del fiume fu diviso col Sudan, con l’Egitto che faceva la parte del leone. Gli altri paesi attraversati dal Nilo furono ignorati anche perché, all’epoca, non avevano ruolo politico. Recentemente 4 paesi bagnati dal Nilo prima che entri in Sudan (Etiopia, Burundi, Tanzania e Uganda) hanno proposto un nuovo trattato che dia anche a loro il diritto di utilizzare l’acqua del fiume, magari costruendo qualche diga. Per tutta risposta l’Egitto ha allertato le proprie Forze Armate e il trattato del 1959 non è ancora stato modificato. 

Qui un tempo era deserto 

Da quando fu costruita la diga, in mancanza di piene, il suolo comincia ad accumulare sali. Quanti? Si parla di un terzo del suolo ormai afflitto dal problema ma, come se non bastasse, il sale arriva anche dal mare. Il Delta, che produce il 65% dei beni agricoli, è poco elevato. Con la fine delle piene il suolo si è ricompattato e con il livello dei mari che tende ad aumentare per il riscaldamento globale, sono sempre più numerose le infiltrazioni sotterranee di acque salate. E quindi? 
Idea: le falde sotto il deserto. Sotto le dune del Sahara, infatti, si nascondono caverne piene d’acqua fossile, residuo di quando, migliaia di anni fa, era verde e ci vivevano gli ippopotami. Allora l’acqua dalla superficie colò in caverne sotterranee, lontane dall’evaporazione e lì è rimasta sino ad ora. E quindi, l’Alexandria desert road, l’autostrada che collega il Cairo ad Alessandria, dall’essere asfalto nel deserto è diventata, negli ultimi 20 anni, una strada che passa tra fattorie e resort alimentati con acqua fossile. Quanti anni o decenni durerà con questo sfruttamento non si sa, ma sappiamo che, una volta esaurite le falde, bisognerà aspettare la prossima glaciazione per ricostituirle. Altro sfruttamento di risorsa non rinnovabile. In conclusione: l’Egitto sino a circa il 1970 era autosufficiente in termini di produzione di beni primari. Oggi, vuoi per la costruzione di nuovi quartieri o città su terre coltivabili, vuoi per la minore fertilità del suolo, vuoi – soprattutto – per l’aumento di bocche da sfamare, importa circa la metà di beni primari. Il pane è fortemente sussidiato, e quando Mubarak, nel 2008, tentò di ridurre gli aiuti e di aumentarne il prezzo, scoppiarono rivolte sanguinose, il preannuncio di quello che è successo nel 2011. 
Pane sussidiato, quindi, benzina sussidiata e, di conseguenza, deficit dello stato e debito in crescita. Un serpente che si morde la coda: se lo Stato destina immani risorse ai sussidi ne avrà meno per le fogne, gli ospedali, le scuole. Film già visto, compreso il finale: iniziati colloqui con il FMI. 
E’ passato un anno dalla rivolta. Ma perché la ribellione contro un regime corrotto e dittatoriale come quello di Mubarak è scoppiata l’anno scorso e non 10 anni fa? Tra le tante ragioni c’è che è ora che i nodi vengono al pettine. E’ ora che l’Egitto comincia ad importare petrolio, è ora che la produzione alimentare non basta più ed è in questi ultimi anni, da quando si è iniziato a parlare di riduzione dei sussidi, che si è cominciato a sospettare che le promesse di benessere futuro non sarebbero state mantenute. Mubarak è stato il padrone dell’Egitto, e la naturale reazione è stata quella di scaricare tutte le colpe contro una persona (che pure, di colpe, ne ha, eccome!) sperando che, una volta rimossa, tutto si sistemi per incanto. Invece i problemi rimarranno: perché chiunque sia il nuovo Presidente, non si troverà nuovo petrolio in quantità e non si risolverà il problema della carenza di pane e acqua. Per non parlare dell’incremento demografico. E questo perché i prossimi governanti, i primi del XXI secolo, si troveranno a gestire la pesante eredità del XX secolo, un’eredità fatta di risorse esaurite e di ambiente sfruttato al di là di ogni compatibilità. 
Solo che, a ben vedere, questi sono i problemi di tutti. Le particolarità dell’Egitto hanno fatto sì che i problemi del XXI secolo (acqua, risorse esaurite, sovrappopolazione, abuso dell’ambiente) siano esplosi lungo il Nilo prima che altrove, ma questi stessi problemi, nei paesi meno fragili ecologicamente, si presenteranno nei prossimi anni. Con quali conseguenze politiche? A Piazza Tahrir, e in tutto il mondo che da un anno punta gli occhi su quell’anello di asfalto, si è discusso di questo? No. Il problema (sacrosanto, peraltro) è stato il passaggio dei poteri. La questione, per noi, è sapere quanto la Fratellanza sarà moderata e quanto potrà convivere con Israele. Ma sono problemi del XX secolo, ancora; di quelli del XXI secolo, come il recente fallimento di Durban dimostra, non siamo ancora in grado di occuparci, né in Egitto né altrove.

Foto di Maria Cristina Di Canio


pubblicato su I Siciliani

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