martedì 15 giugno 1993

Le Termopili della I Repubblica

Questo racconto fu pubblicato nel giugno del 1993, quando i rappresentanti della I Repubblica, sgretolata da Mani Pulite, tentavano un'inutile quanto strenua resistenza.
Era alle Porte Calde, alle Termopili. Gli Immortali del Gran Re avanzavano sui cadaveri dei compagni ormai insepolti da giorni, e ancora valorosi guerrieri cadevano, e ancora le Parche recidevano fili troppo corti. Gli Spartani, ormai spezzate le lance e le spade e frantumati gli scudi resistevano scagliando pietre e bastoni, opponendo l'inutile valore alla preponderanza del numero. E gli Immortali, cubito dopo cubito, guadagnavano terreno e si avvicinavano, perplessi e increduli, a quel manipolo riparato sotto le rocce della gola. Ancora qualche passo, tre, due, e finalmente il primo Immortale poté alzare la scure per colpire il volto del nemico. Era uno spartano della tribù di Nusco, Kiriakos era il suo nome. Guardò la barba lunga del Persiano, imbrattata di sangue e sudore, il volto contratto dalla fatica e dalla ferocia, il braccio pronto a colpire.
«Forse dovremmo sviluppare un ragionamento» propose Kiriakos, ma la scure si abbassò sul suo cranio e spense la sua mente, quella mente che gli spartiati consideravano più consona a Mileto che non a Sparta.


Daniele pensò che quell'esame non l'avrebbe mai superato. Si alzò dal letto ormai spiegazzato e si avvicinò al giradischi. L'idea di prendersi un pomeriggio di pausa, alla vigilia, forse non era stata delle migliori. «Tanto quello che sai, sai. - s'era detto - Non è certo un pomeriggio che cambierà la situazione».
E tanto valeva passarlo ad ascoltare i dischi trascurati da ormai troppe settimane. I Butthole Surfers, per esempio: quel gruppo apparentato (ormai lo si può dire) con i Ministry. In un mondo che si prende troppo sul serio, qualunque idiozia commetta, almeno un gruppo, uno ogni tanto, che fa dell'ironia la sua arma vincente. In generale un'ottima cosa, l'ironia, ma non il giorno prima dell'esame. Sicuro: le Termopili le chiederanno, in una maniera o nell'altra. In fondo ne continuiamo a parlare da 2500 anni, perché si dovrebbe smettere proprio domani mattina?
Perché proprio domani non si dovrebbe parlare di quel luglio, quando Leonida e i suoi furono mandati da Sparta a difendere quel muro che divideva la Grecia dalla Tessaglia? Forse anche quel giorno faceva caldo, e forse anche gli Spartani (con la S maiuscola) sudavano quando, raccolti a piccoli gruppi, attendevano l'arrivo del Gran Re. Si pettinavano, si ravvivavano i capelli: Sparta aveva loro ordinato di difendere quel passo, e il giorno dopo loro, i trecento, l'avrebbero fatto. Non capitava di frequente che Sparta chiedesse qualcosa di così importante: era un onore, una festa, e non sarebbe stato decoroso presentarsi ad una festa con i capelli in disordine. Anche Leonida tentava di mettere ordine a quei capelli che il viaggio dal Peloponneso e la permanenza lì al campo avevano ridotto a setole ispide e polverose.
Fu un ilota, forse, che lo avvisò. «Re Leonida - gli disse - guarda là: una spia dei Persiani». Non credo che Leonida si sia scomodato ad alzare lo sguardo.
«Lascialo andare - rispose - Riferisca pure a Serse che gli Spartani hanno di meglio da fare che preoccuparsi di lui e del suo esercito.»
«Dimmi, Demarato - chiese Serse - che uomini sono mai questi?».
«Sono Spartani, Gran Re.».
«Spartani? Ma chi saranno mai al confronto dei miei Immortali? Vero Mardonio?».
E Mardonio sorrise, schernendo quello spartano rinnegato di Demarato che osava confrontare gli Spartani con gli Immortali del Gran Re. Ma avrebbe riso meno, Mardonio, se solo avesse saputo che ormai le Parche avevano pronte le cesoie per il suo filo, e che quegli stessi Spartani che ora derideva non gli avrebbero permesso di vedere un'altra estate.
La spia di Serse era ancora guardinga, in attesa, quando dal muro delle Termopili uno spartano (con la s minuscola) si scoprì l'inguine urlando «Ridi, ridi su questo, stronzo!». Era Kirinos o Pomicios, chiamato così perchè teneva troppo alle donne. Gli efori ne diffidavano: quando ci fu la guerra con Argo tutti gli altri portarono indietro chi vasellame, chi tripodi, chi oro o argento. Lui portò solo donne. Sette, in aggiunta alle quattro che già possedeva. Undici concubine erano troppe, anche per uno spartano che pareva nato a Sibari, tanto che Andreottida, il Re, un giorno gli chiese se non pensava di esagerare. Kirinos promise, s'inchinò e, di ritorno da Corinto, condusse la dodicesima concubina.

Si alzò nuovamente dal letto. Era necessario un bicchier d'acqua. Quando ritornò in camera gli occhi gli caddero sulla copertina dei Butthole Surfers. Il disco girava ancora.
Quanti anni avranno avuto quegli Spartani? Venti? Venticinque? Trenta? Difficilmente di più. Eppure credevano di aver già vissuto una vita sensata. O forse non si ponevano il problema. O, forse ancora, non erano sicuri di morire: non sapevano che un verme di nome Efialte li avrebbe traditi.
Erano baldanzosi, quando si riordinavano le chiome. Solo Megistia, l'indovino, appariva turbato. Discendeva da Melampo, sapeva leggere i disegni del Fato, e sapeva che per la vita di Sparta gli Spartani sarebbero dovuti morire. Ma forse Leonida era ancora convinto di vincere, forse contava sul valore dei suoi alleati.
Come dimenticare i tespiesi di Craxos? Fino all'ultimo combatterono e morirono (tutti) con gli spartani di Andreottida. Perché avrebbero dovuto pensare alla sconfitta, loro che avevano vinto tutte le battaglie, loro che difendevano quel passo dal fianco sinistro ormai da decenni? Loro erano gli immortali, non quei confusi barbari di cui tanto si parlava. Martinistia solo, il tetro indovino, si aggirava cupo tra un lazzo di Kirinos ‘o Pomicios e un rutto di Gavas la Belva.
Ma su Martinistia lasciatemi spendere qualche parola, ché nobile è la sua genealogia. Di certo un suo antenato fu a scuola dal satiro Sileno da cui imparò il famoso detto poi diventato filosofia di vita per Martinistia: «per l'uomo la cosa di gran lunga migliore sarebbe non esser mai nato; ma subito dopo, morire il più presto possibile». Si dà per acquisito che tra i suoi antenati Martinistia possa vantare quel Laocoonte che predisse la distruzione di Troia, nonché quella Cassandra che anticipò la rovina della casa di Priamo. Molto probabile è che un ramo della famiglia, trasferito in Egitto, abbia generato quel tal scriba che un giorno disse «O Faraone, se fossi in te farei partire questi ebrei». Ma il Faraone non fu del medesimo avviso e seguirono, in ordine:
1) acqua mutata in sangue;
2) rane;
3) zanzare;
4) mosconi;
5) mortalità del bestiame;
6) ulcere;
7) grandine;
8) cavallette;
9) tenebre e
10) morte dei primogeniti.
Inoltre pare assodata la parentela con quell'Artabano, zio di Serse, protagonista, col nipote, di un dialogo che ben s'inquadra nella visione del mondo di Martinistia. Si era sull'Ellesponto e Serse, dall'alto di un monte, osservava le moltitudini del suo esercito che muovevano alla conquista dell'Ellade.
Serse: «Buahh!».
Artabano: «Perché piangi, mio Re?».
Serse: «Buahh...(Sniff..) Penso al fatto che tra cent'anni di tutti costoro nessuno sarà rimasto in vita. Buahh.».
Artabano: «Ma questo è nulla, mio Re. Pensa a quanto ben altro noi soffriamo nella nostra miserevole esistenza. Le disgrazie che ti piombano addosso, infatti, ti fanno sembrar lunga la vita pur se è breve, e così, dato che la vita è penosa, la morte è diventata per l'uomo il più desiderabile rifugio.»
Lascio al lettore immaginare di chi fu discendente quel tale che disse a Cesare «Guardati dalle Idi di Marzo».
Tale era la genealogia di Martinistia, e ad esso ricorsero gli spartani di Andreottida per discernere il proprio futuro. Il minimo che potesse loro capitare era lo sterminio in massa. Per quattro lunghi giorni Re Serse fece attendere il suo esercito ai piedi delle Termopili, simile al cacciatore che trattiene i suoi seguci dall'inseguire la preda appena annusata e dilaniarla tra le zanne: era sicuro, il Gran Re, che al solo vedere la sua moltitudine di armati i Greci avrebbero abbandonato il passo, magari di notte, magari di soppiatto, lasciandogli aperte le vie d'accesso alla Grecia. Per quale ragione questi uomini avrebbero dovuto comportarsi in maniera differente da quegli altri greci, dai Traci, che al vedere le moltitudini che marciavano compatte sul soggiogato Ellesponto avevano implorato «O Zeus, perché prendi l'aspetto di un Persiano e il nome di Serse se vuoi distruggere la Grecia conducendole contro il mondo intero?» Per nessuna ragione, se non che i difensori delle Termopili non erano Traci, ma Spartani.

Erano ormai quattro ore che Daniele aveva chiuso i suoi libri. Era stato subito dopo pranzo, nel giorno prima dell'esame. Inutile studiare ancora, opprimere ancora la mente: meglio lasciarla correre libera. Si alzò ancora dal letto e cambiò disco. Avrebbe voluto sentirsi più leggero, ma in realtà si vedeva come un Atlante reggitore di date e nomi, battaglie e dinastie. Scelse il disco dei Dr. Phibes, un gruppo psichedelico, uno dei migliori degli ultimi anni. Un inizio lento, quasi d'attesa, e poi i pensieri cominciano a farsi più leggeri, volteggiano liberi e ritornano a quelle Termopili appena studiate, all'alba del quinto giorno.
Dienece osservava dall'alto l'esercito del Gran Re, quella moltitudine immensa di Periani, Medi, Assiri, Egiziani, Indi, Arabi, e poi, nei vestiti e con le armi più diverse, i Parti, gli Etiopi, i Libici, i Paflagoni e innumerevoli altri popoli e infinite altre ciiviltà. Tutti radunati ai piedi di quel muro delle Termopili, tutti animati da un solo scopo: conquistare la Grecia.
Dienece scosse la testa: in quella strettoia il numero contava poco, comunque si sarebbe combattuto uno contro uno. E da questa parte c'erano i suoi concittadini di Sparta e il suo Re, Leonida.
«Stanno freschi. Noi qui stiamo e da qui non ci muoviamo». Kirinos o pomicios sorrise sprezzante guardando quella massa informe di barbari che premeva dal fianco sinistro del muro sul quale s'erano abbarbicati.
Gavas, la belva, assentiva: «E chi c'ammazza, a noi?».
Kirinos rise ancora: «Lo vedi, non c'attaccano. Te lo dico io, c'hanno paura». Anche su questo Gavas era d'accordo: «C'hanno fifa».
Si sentivano potenti questi spartani, indistruttibili, inattaccabili. Chi avrebbe mai potuto sconfiggerli? E come? Re Andreottida non sembrava per nulla turbato, e continuava la sua vita d'ogni giorno, inconsapevole della rovina che gli Dei stavano per abbattergli sul capo. S'intratteneva con i suoi, conversando fitto, e pareva che la sua unica preoccupazione non fosse quella di difendere la Grecia dai Barbari quanto, piuttosto, quella di difendere il suo ruolo di Re dalle insidie dei suoi stessi concittadini. Sa poco aveva stretto un segreto patto con Forlandro ai danni di Kiriakos del quale temeva l'eccessiva ambizione.
Intanto, ai piedi delle Termopili, i Barbari cominciano i preparativi della battaglia.
Dienece era Spartano, e dei più valorosi. E il quinto giorno, quando Febo ancora non aveva iniziato la sua corsa folle e monotona per la sfera celeste, era già al suo posto, sul muro. Sentì dei passi. La sua mano corse all'elsa, ma si avvide in tempo che era Megistia, l'indovino.
«Megistia - gli chiese - cosa fai qui? Da quando gli indovini sono anche dei soldati?».
Megistia sorrise a fatica. Dienece lo scrutò interrogativo
«Megistia, mi nascondi forse qualcosa?».
Megistia s'avvicinò ai bordi del muro, e, per lungo tempo, guardò quel formicaio che si stendeva ai suoi piedi.
Sospirando rispose «I presagi non sono favorevoli, Dienece.».
«Tu scherzi, Megistia.».
L'indovino lo guardò con uno sguardo da cui era bandita qualunque ironia.
«Come potrei, Dienece? Come potrei in momenti come questo?». Per lunghi minuti si udì solo il rumore ferrigno di spade e lance: erano gli Spartani che, destatisi, cominciavano una nuova giornata. In lontananza uno sciacallo ululava solitario, forse sentiva approssimarsi l'odore del sangue.
«Cosa vuoi dirmi? - riprese Dienece - Serse conquisterà la Grecia?».
Megistia sorrise «Oh no. Sarà sconfitto..».
«E allora? Come possono essere negativi i presagi? Non ti capisco, Megistia».
«Non saremo noi a sconfiggere Serse..».
«Non saremo noi, gli Spartani? E chi allora?».
«Altri greci».
«E chi? Gli Ateniesi, forse? Quel popolo dedito all'oro dei tripodi più che al ferro delle spade? Quel popolo che quale capo ha Temistocle, forse l'uomo più corrotto della Grecia? Come può vincere un uomo come lui, un uomo che nasconde per sé le prede di guerra e inganna gli alleati?».
Megistia si appoggiò ancora al muro. Ancora udirono lo sciacallo.
«Non lo so, Dienece: io sono solo un povero indovino, riesco solo a prevedere i fatti, e non le cause di questi. Rassegnati: Temistocle vincerà, e grazie alla sua vittoria godrà di fortune quali tu non immagini. Per noi sarà diverso: una lapide sarà il nostro eterno futuro. Ma non rammaricarti: peggiore è la sorte di coloro che moriranno nella vergogna e nel disprezzo dopo una vita di onori e adulazioni.»
Quando improvvisamente fecero capolino i volti di Gavas e Kirinos o pomicios, Daniele capì che era il caso di alzare il volume dello stereo e di prendersi un caffè. Inutile: steso nuovamente sul suo letto, non poteva scacciare quell'immagine tediosa degli spartani di Andreottida che parevano preoccupati da mille cose fuorché dall'unica che importasse.
A parte le tetre previsioni del cupo Martinistia, regnava un clima di spensierata e irragionevole allegria. Sicuri della vittoria brindavano anzitempo, compiacendosi della propria forza e astuzia. Dall'alto del muro Gavas beveva boccali di vino, ruttando ad ogni sorso troppo abbondante. Guardava la moltitudine dei Barbari, che a lui pareva informe e disordinata, e diceva, con aria di supremo schifo, «Questi non vinceranno mai».
Fu preso da un conato di vomito e, quando si fu ripreso, evidentemente più sollevato e disteso, continuò «E sapete perché? Guardateli: sono barbari. Non tengono cultura.»
Ma, in disparte, un uomo singhiozzava in solitudine: era Forlandro, il pavido, una vergogna per la città. Nessuno aveva mai capito come potesse esistere uno spartano così, e gli anziani sottovoce sussurravano di uno straniero giunto qualche mese prima della sua nascita, un uomo della Ionia.
«Voglio tornare a casa» gemeva Forlandro, ma il suo lamento era soverchiato dai canti volgari e licenziosi degli altri. Sì, quella fu una giornata di festa. Ma fu l'ultima.
«Dici il vero?» domandò Re Serse a quell'omuncolo che giaceva prostrato ai suoi piedi. Efialte era il suo nome, figlio di Euridemo e cittadino della Malide. Un traditore. Forse quando nacque fu per la sua casa un giorno di festa: immagino che fu dato un banchetto per celebrare l'avvenimento. E, nel mezzo della cena, i genitori, passando tra i loro concittadini, mostravano orgogliosi il loro erede, ricevendo in cambio auguri e felicitazioni.
E forse quei genitori, fieri e orgogliosi, guardando il nuoovo nato pregustavano per lui un grande e valoroso futuro. Poveretti: meglio sarebbe stato se quel bambino non fosse mai nato.

Già da alcuni giorni Re Serse aveva dovuto ricredersi circa il valore di quegli uomini che, al di là del muro delle Termopili, impedivano a lui e alle sue moltitudini l'accesso in Grecia. Già aveva scagliato contro di loro i Medi, ma inutilmente. Di giorno i cadaveri s'ammucchiavano sui cadaveri, e di notte gli spiriti degli insepolti s'aggiravano tra le tende urlando ubriachi il loro terrore. E ora quel verme, quell' Efialte, era venuto da lui a rivelargli, in cambio di oro e denaro, che in realtà esisteva un altro sentiero, poco conosciuto, che avrebbe permesso ai barbari di aggirare le Termopili e cogliere gli Spartani alle spalle. Re Serse guardò con disgusto quell' uomo. «Dici il vero?» gli chiese ancora. Il verme annuì.
Daniele fece partire il disco dei Fugazi. A Mileto, forse, tra fisici e filosofi, si sarebbero trovati a loro agio i gruppi psichedelici. E a Sibari, tra un banchetto e l'altro, avresti scovato la dance e l'house. E a Delfi, ai piedi del Santuario, di certo avrebbero alloggiato gli Hawkwind, sommi sacerdoti del rock mentre ad Eleusi, credo, avrebbero vissuto e suonato i dark di ogni genere. Ma se un gruppo poteva dirsi spartano, quel gruppo erano i Fugazi. Semplici, essenziali, diretti, spietati. Non si perdono in fronzoli chitarristici, non amano i voli pindarici dei riff. Puntano dritti alla sotanza delle cose. Di poche parole, come gli antichi abitanti della Laconia, gli Spartani.
Si narra che una volta un ambasciatore giunse a Sparta per chiedere aiuto. Fu accolto nell'assemblea e l'ambasciatore, sfoggiando retorica e abilità dialettica, cominciò a raccontare in lungo e in largo le disgrazie sue e della sua gente. A metà del discorso gli Spartani si alzarono e se ne andarono. Troppo lungo, dissero, a metà del discorso avevano dimenticato ciò che l'ambasciatore aveva detto all'inizio. Si replicò il giorno dopo. Questa volta l'Ambasciatore fu estremamente stringato, due o tre frasi, giusto per dire «Abbiamo bisogno di voi» e mostrò loro un sacco vuoto. Gli Spartani questa volta lo ascoltarono, ma giudicarono comunque il suo discorso troppo lungo: bastava presentarsi con il sacco vuoto, senza tante parole.
Così erano gli Spartani. A modo loro, così sono anche i Fugazi.
I barbari s'incamminarono nel cuore nella notte lungo quel sentiero impervio che, partendo dal fiume Asopo, corre lungo la cresta del monte Anopea per terminare al di là delle Termopili. Seguivano la loro guida, Kossigalte, che muto li precedeva pregustando in cuor suo i futuri privilegi che gli sarebbero giunti quale ricompensa del suo tradimento. Non incontrarono ostacoli lungo il cammino, a parte un gruppo di focesi. Li comandava Intinos, un valoroso. Quando da lontano scorse l'avanzata dei barbari, certo che quei soldati venissero lì per loro, i focesi, raccolse le povere truppe e si rifugiò sulla vetta più alta del monte. E lì i focesi si barricarono, aspettandosi da un momento l'assalto dei barbari. E giurarono fedeltà sino alla morte, e Bonivame, la loro sacerdotessa, svolse un rito funebre in onore di Artemide.
I Barbari s'avvicinavano, recando la morte, Intinos strinse l'elsa della spada, rivolse un tacito pensiero a Craxos e si disse che era dolce morire da eroi. I barbari avanzavano ormai a poca distanza, erano ormai a un tiro di frombola quando Idarne, il generale dei Barbari, li scorse. (Intinos intonò un peana). Al vederli Idarne chiese chi fossero mai quei tipi lassù, e al sentire da Kossigalte che si trattava solo di focesi, girò le spalle dall' altra parte.
Pensava agli spartani di Andreottida, come avrebbe potuto perder tempo con dei focesi, per di più capitanati da Intinos e Bonivame? E li lasciò lì, incolumi e scornati, con il peana tra i denti e le vittime mezze cotte sull'altare.
Frattanto, mentre Kossigalte conduceva Idarne e i barbari alle spalle delle Termopili, asserragliati sul muro, gli spartani di Andreottida rendevano nuovo significato alla parola valore. Omero supremo e insuperato, ti prego, prestami per un solo momento un millesimo della Tua Voce, affinché possa io degnamente cantare le gesta di siffatti eroi. Aiutami a cantare di Gavas la Belva, di come egli, inseguendo e braccando il nemico, gli trafigge da tergo il collo con la lama acuminata sicché l'infelice, nel momento di rendere lo Spirito all'Orco, può scorgere, nefanda visione!, la spada ostile che gli sorge dalla bocca e gli oscura la vista. Ed è solo l'inizio, poiché, anelante sangue e morte, una volta abbattuto l'avversario, Gavas gli si avventa addosso, lupo famelico, e, a mani nude, gli strappa il cuore sanguinante e lo addenta feroce. Aiutami, divo Omero, a raccontare di Kirinos o pomicios, di quando, sommo sberleffo, prima di uccidere i nemici, egli sechi loro le vergogne e le inanelli e le esponga, la sera, lorde di sangue barbaro e rappreso. Aiutami ti prego, a narrare dell'infelice Martinistia che si aggira nel campo di battaglia profetizzando, comunque, la morte di tutti, e consolando i pavidi. E tra essi (doloroso a dirsi!) v'era Forlandro.
«Voglio tornare a casa. Al mio paese».
E Martinistia: «Fatti animo, Forlandro».
E Forlandro: «E' bello il mio paese, sai? L'ho fatto ristrutturare tutto..Ho fatto costruire un busto per mio nonno, e una fontana per mia madre. Era maestra, sai?».
«Coraggio Forlandro.».
E Forlandro si scioglie in un pianto vergognoso e tremebondo, china la testa sul petto di Martinistia.
«Consolami, Martinistia» implora sconsolato.
E Martinistia, guardandolo nel profondo, gli accarezza le chiome (sempre pettinate, quelle chiome) e gli parla grave.
«Animo, Forlandro, oggi siamo solo morti eretti. Domani saremo morti distesi: qual differenza fa?».
E Forlandro, singhiozzando ancor più sommessamente
«C'è nessun altro che mi può consolare?».
Daniele ritornò ai Fugazi, almeno quella era gente seria. Che altro si può dire? Solo parole inutili, e a loro non piacerebbe. A modo loro i Fugazi sono Spartani. Inutile discutere di loro, meglio ascoltare il loro disco.
Nemmeno quando fu annunciata la presenza dei persiani alle loro spalle, gli Spartani sprecarono tante parole. Fu un cittadino di Trachis che li avvisò. «Re Leonida! - urlò con quanta voce aveva in corpo - Stanno arrivando! Sono in tal numero che le loro frecce oscureranno il sole!».
Quel tipo di Trachis si aspettava, forse, di leggere il terrore sui volti degli Spartani. Ma vide solo l'indifferenza.
Solo Dienece, il valoroso, commentò: «E allora? Meglio, vuol dire che combatteremo all'ombra.».
Ma quando la notizia che Kossigalte avanzava sul lato destro si diffuse tra gli spartani di Andreottida, l'atteggiamento fu ben altro. Rimasero in silenzio, questo sì, ma non indifferenti. Percossi e attoniti vedevano cedere quel fianco che credevano loro di diritto, acquisito in virtù di volontà divina. Gavas e Kirinos smisero di uccidere, e Kiriakos interruppe a metà un profondo ragionamento. Forlandro alzò i suoi lamenti al cielo e nessuno, nel raggio di duecento stadi, poté fare a meno di udirli. Martinistia sorrideva cupo, quasi soddisfatto. «Ve l'avevo detto» disse infine rivolgendosi ad Andreottida.
Ma fu una voce che si perse nel nulla: stava per iniziare la carneficina.

Già da alcuni mesi Re Serse aveva ingoiato, sul mare a Salamina e sulla terra a Platea, l'amaro fiele della disfatta. Come un ladro, quel Re che aveva sottomesso tutte le genti tra l'Indo e il Nilo, carico di vergogna e terrore era fuggito al di là dell' Ellesponto, recando con sè quel rancore destinato a tormentarlo invendicato per tutta la vita: il rancore verso quel popolo che unico fra tutti aveva sdegnato di donargli acqua e terra in segno di sottomissione, i Greci. E per tutta la vita sarà torturato dalla visione di quei trecento Spartani che, di fronte alle sue moltitudini, non indietreggiarono di un solo cubito ma preferirono morire liberi che vivere servi. Per molti anni ancora sarà destinato a ricordarsi di quel suo generale che, dopo le Termopili, pieno di stupore e sconforto, esclamò «Contro quali uomini ci hai condotto a far guerra? Uomini che combattono non per denaro, ma per valore!».
Ma alle Termopili, passato qualche mese, regnava la calma. Come ad un santuario, i popoli della Grecia si recavano a far voti presso quei tumuli che raccoglievano, gettate alla rinfusa, le ossa di quegli Spartani che erano morti, inconsapevolmente, perché un giorno nascesse Platone. Era un mesto pellegrinaggio, si erigevano tumuli e Simonide incideva sui cippi funebri i suoi versi.
«Qui, un giorno, quattromila uomini del Peloponneso ne impegnarono a battaglia trecento miriadi».
Il sole tramontava quieto, e a stento si sarebbe potuto credere che proprio lì, in quella verde valle tra i monti, solo pochi mesi prima regnavano il sudore, il sangue e le grida.
Terreo in volto, Re Andreottida guardava i barbari che ormai lo assalivano da due fronti. E attorno a lui Kiriakos, Gavas, Kirinos, Formigobulo e una moltitudine di altri condivideva, senza osar pronunciarli, i suoi stessi pensieri: era giunta la fine. Durò poco l'imbarazzo, ché violenta e sanguinosa subito s'accese la mischia. cadde per primo Kitaristis, un uomo probo che aveva fatto della modestia la ragion d'essere e che per tutta la sua esistenza aveva vissuto appartato all'ombra dei Capi. Fu una freccia, scagliata da lungi, quella che gli trafisse il petto. E non l'unica, ché tosto ne seguirono innumerevoli altre: due, tre, otto, venti, trenta. Chi può contarle tutte? Chi può contare i granelli della sabbia di Libia? E quando Kitaristis cadde riverso al suolo e il suo cadavere annegò nel suo stesso sangue, allora la Furia colse gli spartani di Andreottida e, qual lupo a lungo trattenuto in gabbia che, per un malaccorto custode, inopinatamente si vede restituire la libertà e fugge sbavando rabbia e furore, così Kiriakos e Gavas e Kirinos e lo stesso Formigobulo imbracciate le scuri e le spade si lanciarono contro il nemico.
Formigobulo: persino lui, il pio sacerdote di Dioniso che ora, abbandonate le processioni e gli abiti sacerdotali, si gettava nella mischia con gli altri, conscio di difendere se stesso e la sua gente.
Ma non tutti partecipavano alla pugna. Triste a dirsi, un uomo isolato gemeva la sua fine. Era Forlandro che, incurante della battaglia piangeva la triste sorte sua, e della sua discendenza. «Che sarà di noi? - chiedeva affranto a Kiriakos - Come saremo ricordati?».
Avresti potuto dire, guardando quella verde valle che solo pochi mesi prima si era lì consumata una tragedia di cui ora rimaneva solo il ricordo? Avresti potuto immaginare quella quiete rotta dal furore della pugna? Daniele, avresti potuto immaginare che quello stesso giradischi che ora ti permette di ascoltare Neil Young solo pochi momenti prima ti trasmetteva l'impeto dei Fugazi? E avresti potuto immaginare che a quel rigido furore sarebbe succeduto il miele del ricordo?
A egregie cose il sensibile animo accendono i solchi dei dischi, o Daniele, e miti e cortesi fan i tuoi altoparlanti. Quando tu vedesti la copertina con la foto di quel tale che l'Harvest cantò fatale e che la diversa Y aggiunse a Crosby, Stills e Nash, e quando leggesti, nel retro di copertina, che antiche e pie canzoni eran lì contenute, quelle stesse onde imperituro sarà il nome suo, e quando di diverse versioni capisti che si trattava, quando leggesti che Helpless era tra le canzoni e che, eccelsa schiera, l'accompagnavan fedeli The needle and the damage done nonché quella Mr. Soul primigenia per tacer di Hurricane e molte altre: «Me beato» gridasti, per il fatto che quest' uomo deciso s'è a riscoprir lo passato suo, che nol disdegna per inseguir sterili mode e futili costumi.
E Simonide saliva sui tumuli, guardando silenzioso le ossa di Leonida e degli Spartani. In trecento furon lì mandati da Sparta, e di trecento eran lì le ossa. Di trecento, salvo uno: Aristodemo. Fu l'unico che scampò a quella morte e, ritornato a Sparta, comprese che meglio sarebbe stato per lui morire. I concittadini non lo degnavano di una parola, e quando nelle serate ventose il focolare gli si spegneva non uno, tra gli Spartani, gli regalava una stilla di fuoco per accenderlo nuovamente. Visse spesso al freddo, in quell'anno, ma nulla era in confronto al gelo che sentiva nel cuore. Straniero in Patria, disonorato. Ma poi ci fu Platea. Si arruolò, fu mandato in battaglia. E raccontano che come un ossesso si lanciò contro i nemici e combatté fino a trovare quella morte che lo inseguiva dalle Termopili. Allora fu sepolto tra gli altri, e il suo nome fu ricordato, e da allora il suo spirito riposa in pace.
Quella pace che avrebbe voluto trovare alle Termopili, nell'infuriare della mischia, quando Gavas la Belva si lanciò da eroe contro i nemici e fu abbattuto da una una scure che gli squarciò il cranio.
Anche Andreottida si lanciò da eroe, e fu una lancia vigliacca quella che lo abbatté. Subito si accese una mischia sul suo cadavere e Formigobulo e Kirinos si azzuffarono per impossessarsi dello scudo. Opera mirabile, degna d'Efesto. Vinse Kirinos, ma godé per poco della vittoria, ché una freccia gli trafisse il suo diletto inguine. Ferita dolorosa, cui non v'è rimedio. E cadde rovesciando il suo corpo tra gl'infiniti altri.
«O Straniero, riferisci agli Spartani che siamo qui per obbedire ai loro ordini». Questo incise Simonide sul tumulo di Leonida, conscio che per mille e mille anni quella valle, e quegli eroi saranno ricordati come esempio di ciò che si deve fare. Non di ciò che è santo, giusto, nobile, o non so cos'altro, fare: semplicemente l'esempio di ciò che si deve fare. E basta.
«Kiriakos - singhiozzò Forlandro - dimmi ti piace?».
Kiriakos depose per un momento la spada e si chinò. Durante la battaglia Forlandro aveva inciso, con la punta di un temperino, una pietra. Aveva scritto: «Qui giacciamo noi. Fummo potenti, un tempo. Abbiate pietà di noi».
«Bello» disse Kiriakos, ma i Medi avanzavano ormai a pochi cubiti. Minacciosi, assetati di sangue. Propose un ultimo ragionamento, ma un'ascia pose fine, una volta per sempre, alle sue congetture e ai singhiozzi di Forlandro.
Fu la vacca di un certo Trazibulo, un pastore di Alpena, figlio di Astrigene, che scovò, qualche tempo dopo, quella pietra. La trovò molto stimolante e vi espletò sopra. Trazibulo accorse, raccolse l'espletato e la stele e buttò il tutto nella concimaia. Era una buca profonda nella quale, nelle notti di plenilunio, vedevi biancheggiare, nel marrone denso e scuro, le ossa di Kirinos, Gavas, Forlandro e persino di Re Andreottida.

Nessun commento:

Posta un commento