mercoledì 22 dicembre 2010

Canto di Natale

…e uno spruzzo di salsa Worcester. Quant’è uno spruzzo? Il ricettario era reticente. Un cucchiaino? mezzo? E poi perché si chiama così? Più tardi avrebbe controllato su Google, ma, per il momento, doveva concentrarsi sulla salsa rosa per i gamberetti;  i quali, in effetti, non avevano un aspetto molto vispo, erano proprio molto morti e parevano annegati da ere geologiche in quel liquido. Forse non era stata una grande idea prenderli dal discount. In ogni caso, l’antipasto era pronto. Il secondo era facile: scamorza. Un po’ troppo facile, probabilmente, non tutti lo considererebbero degno di un cenone natalizio, seppur solitario, ma a lui piaceva, e tanto bastava. Il dolce era un panettoncino mini. Rimaneva il piatto forte, il risotto ai funghi. Porcini. Almeno, questo dicevano al discount.
(Il 2010 si è aperto col terremoto di Haiti, che ha provocato oltre 200.000 morti: mentre disponeva con cura tutto il necessario per la creazione del risotto, dal televisore, tipica trasmissione di fine dicembre,  venivano ricordate le notizie principali dell’anno). Tagliere, mezzaluna (tedesca! affilata!: ne era fiero), olio, vino, funghi a bagno, riso (un etto: per una persona basta e avanza). Cipolla. Olio nel tegame, fuoco acceso, cipolla tagliuzzata (con la mezzaluna). Il brodo sobbolliva già da un po’ (col dado, viene bene lo stesso). I Natali precedenti erano stati diversi, a dire il vero, non erano con porzioni solitarie, ma meglio non pensarci, altrimenti i ricordi sarebbero tornati, e l’avrebbero strozzato come una rete che si stringe attorno ad un pesce, non lasciandogli scampo, via di fuga. No, niente ricordi: era il momento di versare la lacrimosa poltiglia (indispensabile la mezzaluna, fatto bene a comprarla!) nell’olio. Sfrigolio, odorino di buono e, ora, i funghi. Girare, mescolare, girare. Benissimo. E adesso il riso: versato, girare! Girare subito!  Ecco, l’olio è quasi tutto assorbito. Un bel bicchiere di vino (rosso) e ancora girare. Il liquido si fa solido, scompare il vino, solo riso. Brodo, presto!
Terremoto in Cile nel mese di febbraio.
Ecco, sì, non si è bruciato, e nemmeno attaccato. Ne verrà un gran risotto, l’importante è non distrarsi.
Campanello.
E chi può essere? Una mestolata in più per non fare attaccare, corsa alla porta, spioncino. Era l’interno 15 o, meglio, quella che vi abitava. E si chiamava? Come si chiamava? Ah, sì, Maria.
«Avresti mica una torcia? – gli chiese - Mi è saltata la luce e non riesco a sistemarla…».
Torcia, torcia… Sì, ce n’era una nel cassetto (e intanto un odore sospetto giungeva dal risotto: implorava brodo). Consegnò la torcia, ricevendo la promessa che l’avrebbe riportata in cinque minuti e schizzò a versare un altro paio di mestolate. Ma sarebbe bastato il brodo? Sì, per una cena di dieci persone.
A fine marzo le elezioni regionali. Vittoria del centro destra e della Lega. Sconfitta della sinistra.
Ecco, adesso il risotto procedeva proprio bene. Tra qualche minuto avrebbe potuto cominciare con il primo assaggio.
Campanello. Evidentemente l’int.15 riportava la torcia.
Ma poi, cosa faceva già quella Maria? Ci aveva parlato pochissime volte. Quando era successa la disgrazia a sua moglie era venuta a fargli le condoglianze, e forse era ancora col marito, prima che lui se ne andasse.
«Mi devi perdonare – si accorò prima ancora che la porta si aprisse del tutto – Mi rendo conto che in una serata come questa… Ma proprio non riesco a riaccendere la luce. Attacco il contatore, rimane su per qualche secondo ma poi salta tutto. Non è che potresti venire a dare un’occhiata? Non capisco nulla di queste cose».
Nemmeno lui, a dir la verità, ma si dà per scontato che ogni maschietto s’intenda di contatori e motori, anche se è una voce meno fondata di quella che dà per certa l’esistenza della Befana.
«Un momento» supplicò mostrandole i palmi. Ritornò in cucina e versò una dose abbondante di brodo, abbassò il fuoco a livelli minimi e la seguì all’interno 15, immerso nelle tenebre. Con fare esperto si avvicinò al contatore, del quale conosceva esattamente l’ubicazione in quanto l’int. 15 era sulla sua stessa colonna, e, armato di torcia, riattivò gli interruttori. La luce tornò rubiconda e lui, quasi trionfalmente stava allargando le braccia a dire «Visto? Era facile» quando le tenebre ripresero il sopravvento. Un elettricista, tanto tempo prima l’aveva detto «Ci dev’essere qualcosa in corto» e lui lo ripeté sussurrando (nel buio non si parla: si sussurra) e aggiungendo «Cosa c’è di attaccato?».
L’int. 15 fece un rapido esame di coscienza e cominciò ad enumerare luci, friggitrice, televisore e qualche altro elettrodomestico. «Bisogna staccarli tutti» sentenziò lui grave «dobbiamo capire qual è in corto».
Ma non aveva terminato di sussurrare che gli sovvenne il risotto. A tentoni trovò la mano di lei e le diede la torcia raccomandandole di staccare tutto. Sarebbe tornato subito. Si precipitò in discesa saltando gli scalini a due a due e arrivò giusto in tempo per versare un cucchiaio di brodo all’assetato risotto. Mescolò col fiatone, e per le scale e per il terrore che si fosse attaccato alla pentola, e, quando vide che sembrava andare per il meglio, la televisione  gli ricordò i disastrosi mondiali di calcio dell’Italia e la marea nera al largo della Louisiana.
Con molta calma ritornò su e trovò Maria che lo aspettava sulla soglia dell’int.15, armata di torcia.
«Tutto staccato» annunciò compita.
Molto bene. Si riavvicinò agli interruttori e riattaccò la luce. Finalmente. E poté vedere il tavolo, più o meno nella stessa posizione del suo, ma due piani più su, anche questo apparecchiato per una persona.
«Procediamo – esortò con tono fermo ed esperto - Riattacchiamo tutti gli apparecchi ad uno ad uno.».
Cominciò con le luci e, passando per la friggitrice, terminò col televisore: anche lei stava ascoltando quella rassegna, ora arrivata all’appartamento di Montecarlo. Pareva tutto in ordine, si guardarono attorno soddisfatti e sollevati quando, nel volgere di un secondo, il pensiero del risotto gli irruppe nella mente e, come se non bastasse, sprofondarono nuovamente nell’oscurità.
«Devo scappare! Torno subito» e si lanciò giù per le scale incuneandosi in una stanca famigliola che andava a cena da qualche poco amato parente, coi figli che, ancora sul pianerottolo, si lamentavano per la miseria dei regali ricevuti. Il risotto era salvo. Brodo, assaggio, manca ancora un po’. Risalita placida all’int. 15 dove ritrovò Maria che, nel mentre, aveva staccato tutto e riacceso la luce. Possibile che si fosse pettinata nel frattempo? Cominciarono dal televisore che, intanto, era arrivato alle proteste in Francia. Ma possibile che si fosse anche truccata? E quando? Tra un mestolo di brodo e l’altro?
«E poi – aggiunse Maria – quando è ritornata la luce ho visto una cosa strana.»
«Una cosa strana?»
«Sì, solo per un attimo. Sembrava che volasse laggiù, sopra il divano»
«Un uccello?»
«Ma no!»
«Un pipistrello?»
«No, per fortuna!»
«E allora cosa? Lo spirito del Natale?»
«Figurarsi. Avrebbe sbagliato strada. Sarebbe dovuto andare da quelli di sotto, li senti? Saranno in venti a festeggiare».
«Sì, li ho visti mentre scendevo…»
«Forse era solo un’ombra. Magari con le luci che vanno e vengono…»
«Il risotto!»
«Dici che era un risotto?»
«Devo scappare»
E mentre stava per uscire, la luce svanì ancora.
«Ritornerò!» promise a metà della prima rampa. Entrò in casa affannato, accolto dal bunga bunga del televisore e dalle proteste di Terzigno. Assaggio. Era cotto, il risotto, e commosso, lui: sembrava buono. Spento fuoco, coperchio, di nuovo le scale, altri invitati allegri come se dovessero andare ad un funerale. Maria lo accolse sul pianerottolo. Riprovarono almeno un paio di volte, ma proprio la luce non voleva saperne di restare.
«Ti piace il risotto? – propose dopo l’ultimo tentativo – Magari non ce ne sarà molto, ma  almeno non passiamo il Natale sulle scale…».
Sorpresa: i suoi fritti erano già quasi pronti, e anche gli antipasti di mare. Mancavano gli spaghetti alle vongole, per via della luce, però aveva un panettoncino anche lei.
Questa volta scesero insieme trasportando con calma la cena di Maria, e furono accolti dalla liberazione di Aung San Suu Kyi e dal diffondersi delle manifestazioni studentesche. Apparecchiò un posto in più mentre Wikileaks campeggiava nel mondo e le migliori giovani intelligenze italiane decidevano di pernottare sui tetti.
Effettivamente avrebbe giurato che s’era truccata. E aveva anche dei begli occhi.
Il risotto fu un successone. Se solo avesse avuto un po’ (un bel po’, in effetti) di sale in meno, non si fosse cotto troppo e i funghi avessero avuto il sapore di funghi, forse (ma solo forse) sarebbe stato migliore. Ma a loro parve ottimo. I gamberetti, a dire il vero, sapevano un po’ di chimica, ma la salsa Worcester ci stava benissimo. E nella giusta quantità. I fritti, poi, anche se erano poco fritti (la luce, mannaggia!) erano comunque  eccellenti. I panettoncini, infine, uno senza uvetta e uno con, furono divisi, metà per uno.
E gli studenti scendevano in piazza, e pareva che qualcuno cominciasse a chiedersi non solo cosa sarebbe accaduto stasera, ma domani, e, persino, dopodomani.
Maria aveva dimenticato lo spumante a casa sua, ma lui aveva, chissà da quanto tempo, uno champagne per festeggiare una grande occasione mai realizzata. Certo, era tiepido. Certo, la bottiglia aveva uno strato spesso di polvere, ma, con una passata sotto il rubinetto, ritornò quasi decorosa.
Stappò e versò nei calici. Veri.  Dell’Ikea, ma pur sempre calici da champagne. E poi il brindisi, che fu molto sobrio, solo  «Buon Natale», e «Buon Natale a te».
Ma la cosa veramente strana di tutta questa storia è che, negli anni seguenti, che passarono insieme felici e contenti, proprio non riuscirono a capire cosa fosse successo a quell’impianto elettrico, perché dal giorno dopo riprese a funzionare egregiamente, e continuò a farlo a lungo. Molto a lungo.

pubblicato sul numero 98 di Ucuntu

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venerdì 3 dicembre 2010

La nostra cultura

«Che, la vuoi una sigaretta?».
«La ringrazio, ma non fumo. Mi dica, sono sorti nuovi ostacoli alla mia richiesta?».
«Come? No… cioè sì… Ma proprio non la vuoi ‘sta sigaretta?».
«No, la ringrazio ancora. Per quanto riguarda la mia domanda, credevo di aver raccolto tutti i documenti necessari e risolto tutti i problemi.».
«Oh, sì, mica dico di no. Vero, vero, ci sta tutto. Non ti dà fastidio, no? se fumo…».
«A me personalmente no, ma mi pare sia vietato: ricordo la Legge 3 del 2003 (nota come Legge Sirchia) che proibisce il fumo negli ambienti di lavoro…».
«Ecco, ti pareva. Comunque sì, qualche problemino c’è, in effetti. I documenti sono a posto, in ordine. Tutto, ci sta tutto. E’ che non bastano i documenti, le carte non sono tutto…».
«Di cos’altro ancora ha bisogno?».
«Ecco, cioè, vedi. Quando si va in un posto bisogna un po’ rispettare, insomma, sì, adeguarsi alle usanze, insomma, al modo di fare di quelli da cui vai. E’ casa d’altri, insomma…».
«Mi pare di aver compiuto, in tal senso, innumerevoli sforzi.».
«E che, non lo so? Lo vedo, lo vedo, ti sforzi. E’ che se tu vuoi la cittadinanza italiana devi, come ti posso dire?, un po’ adeguarti, no?, a quelle che sono le tradizioni, no? Cioè la cultura italiana.».
«Mi permetto di rammentare che ho conseguito due lauree, di cui una specialistica. In letteratura italiana, come forse potrà notare sfogliando l’incartamento.».
«Visto, visto. No, niente da dire: l’italiano un po’ lo sai, quasi quanto me, ma non ci sta solo la faccenda della lingua. La cultura d’un popolo è una cosa un pochetto più complessa…».
«Ma ho compiuto anche studi di carattere storico e giuridico. Se avrà la bontà di sfogliare la documentazione troverà l’attestazione degli esami svolti presso…».
«Visto, visto.».
«E inoltre in questi dieci anni non ho infranto nessuna norma o legge. Potrà notare gli attestati dei versamenti Unico, le bollette, la tassa comunale sui rifiuti, il canone Rai, le quietanze dei pagamenti del condominio, il bollo per l’autoveicolo, l’assicurazione per il medesimo e l’abbonamento annuale ai mezzi pubblici, in aggiunta a tutti gli altri versamenti o pagamenti effettuati per l’Università, i ticket sanitari, le assicurazioni volontarie e obbligatorie, i contributi INPS. Non ho ricevute di multe per infrazioni al codice della strada perché non ne ho mai commesse…».
«Mai?».
«Mai, ne sono orgoglioso».
«Cioè, pure il canone Rai?».
«Certamente, è un obbligo di legge».
«Ecco, appunto, vedi, quello che stavo dicendo… Insomma, la cultura, le usanze della Nazione. Ecco, cioè, qui da noi è diverso, fa parte della nostra cultura. Cioè, pure il canone della Rai…».

«Ma ho sostenuto un esame di diritto costituzionale!».

«Vedo, vedo. No, è che lo studio, le leggi, la letteratura, cioè, non dico di no, sono pure una cosa importante, e chi dice di no (a scuola mi sono pure letto quasi tutti i Promessi Sposi), ma la cultura vera è un’altra cosa. Ti ci devi adeguare, cioè la cittadinanza è una cosa seria.».
«Debbo quindi ritenere che la mia domanda non sarà accolta?».
«No, non ora, ma in futuro non è detto. Ci si rivede, magari tra sei mesi, no?, così magari ti adegui un po’, t’ambienti un po’ meglio. A giugno. Il canone Rai, insomma, non è obbligatorio. Poi, sai, qui da noi la famiglia è importante.»
«Anche presso di noi. Sono orgoglioso della mia famiglia, amo mia moglie e i miei figli. Ecco, ho qui le loro foto.».
«E che non lo so? Anche la mia famiglia è importante. Molto. Se a giugno, capitasse, un pensierino, un segno, come dire, un segno di riconoscenza… In fondo ti ospitiamo, no?, ecco, capisci, sono queste le cose importanti, la nostra cultura, la famiglia.».

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Mamma
numero 97 di Ucuntu Leggi tutto

sabato 20 novembre 2010

La Politica son io

Eccellentissimi Monsignori, Donna fui, e di nobili natali. Non sien maraviglia le presenti mie condizioni, ché padre mio fu quell’ingegno che tra l’ eccelsi della mortal spezie primo è reputato. Di quell’Aristotile, parlo, che battezzommi e superno mi die’ rango intra l’umane cose.
La Politica son io, e a me volsersi le menti migliori de’secoli andati. Reggitrice e ordinatrice del mondo fui, per cotanti sola ragione di vita e morte: non pochi, in fatto, me invocando e venerando, gl’occhi chiusero alla luce. Duci superbi dispersi, e umili innalzai e fui io che nell’animi oppressi recavo il ristoro della speranza e promettevo un domani migliore a chi l’oggi avea tristo. Scienza divenni, e non sol’Arte, dacché Ser Machiavelli la mia natura al mondo disvelò. Nei saecula e negli anni che seguirono l’idioma mio mutò, sì come cangiò il mondo. Avvenne che sempre più numerosi furono i miei amanti: non soltanto ne’ cerimoniosi e cortigiani appartamenti sedussi e fui invocata, ma, invero, spasimanti miei si ritrovavano, per cantar mie lodi, nei salotti de’ borghesi, nelle taverne e nei caffè. Fui io la musa di quanti eressero le barricate in quel luglio che a Parigi il mondo novellò e altra epoca dischiuse. Popoli intieri, servi delle rapaci cupidigie dei troni e delle dominazioni, s’avvidero allora dell’esistenza mia, e principiarono a corteggiarmi. Per amor mio, e di chi altri?, posate le vanghe e lasciati i telai, uomini resi duri dal lavoro rubavano ore all’agognato riposo per venir meco e sognare l’alba del sol dell’avvenire. Impossibile enumerare le biblioteche a me dedicate, i libri scritti in mio onore e i copiosi amanti appassionati e fedeli che mi onorarono delle loro specialissime attenzioni. Eppur non bastava, ché, più il tempo scorreva e più s’accorciavano le distanze nel mondo, popoli prima ignari l’uno dell’altro cominciarono ad apprendere della mutua esistenza, e soggetti deprivati di diritti e rappresentanza s’accorsero d’essere cittadini. Liberai lontani e immensi continenti dal giogo coloniale e molti impararono grazie a me tante parole sino ad allora ignote e di una in particolare, democrazia, si innamorarono. Non c’era diva che rivaleggiasse con me per ammiratori: ero citata ovunque e da chiunque, occupavo le discussioni quotidiane nelle case, nelle scuole, nei campi e nelle officine. Ancora il mio linguaggio cambiava, mentre masse sterminate si levavano in mio nome, economie intere si fermavano e davo all’uomo e alla donna l’illusione di poter essere arbitri del proprio futuro, contro ogni sopruso e ogni ingiustizia. Nella misura in cui procedeva la coscientizzazione dei soggetti intrinsecamente antagonisti rappresentavo l’antitesi nella dialettica del potere innescando dinamiche di contro-reazione e\o contro-potere che smascheravano le falsità delle sovrastrutture minando la base stessa della struttura dominante. Ero arte, divenni scienza, poi tecnica ma, infine, oggi, mestiere e carriera. Non so, belli miei, perché persi i miei amanti migliori. Ricordo giovani bellissimi con lo sguardo limpido e sincero che per me avrebbero superato qualunque ostacolo, ricordo uomini meravigliosi, intelligenze superiori, a me tutti devoti e fedeli. Mi restate voi, ora, e, vi dico la verità, non siete belli e nemmeno tanto svegli. Non mi amate, lo so, mi usate: vi servo. Perché comunque piaccio sempre, vero? Lo so che nessuno muore più per me, ma per un mio pompino in tanti si fanno sotto. E allora venite, ne ho per tutti voi. E non mi costa nulla, ho imparato a farli senza pensare. O meglio, a pensare a quei giovani innamorati con gli occhi luminosi che ritorneranno, sì, ritorneranno, spero, e non mi lasceranno qui a succhiare per sempre i vostri flaccidi cazzi tirati su a viagra.


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e sul numero 95 di Ucuntu Leggi tutto

domenica 31 ottobre 2010

D'Arcore il Nullocrinito

Cantami o Diva del nullocrinito d’ Arcore la triste sorte che infiniti guai agl’Itali causò sin da quando, giovinetto, s’accorse che ciò che toccava, per burla degli dei, in merda si mutava. Suoi amici libri d’eroi leggevan, e d’avventure, ma non lui, ché subito acre odor di fogna prendea la carta, in mani sue tosto resasi igienica, e usata anche; calciavan quelli il pallone, ma al cimento uno scarabeo egli parea, che in sua vita sferici sterchi spinge per li campi; l’altri bimbi traevan diletto dal costruir castelli per fate e cavalieri, ma a lui nulla riusciva, se non cloache e densi letamai. Il denaro solo, allo sfiorar di dita, medesimo restava poiché, mi sien testimoni poeti e savi antichi, del demonio è sterco, e mutar non si puote in quel che già si è.

Solingo e scansato, nello strame e nel denaro immerso sino al mento, ormai divenuto adulto, s’avvide che television guardar potea, senza toccare. E una ne acquistò, e poi un’altra, e poi due, e cento e cento ad ingrassar magion sua. E quando poi ne fu sazia e spazio più non v’era, principiò a comprar antenne, e poi studi, e poi canali ché la moneta, come ben sappiamo, proprio non difettava. E prima ancora alle costruzioni dedicato s’era, non certo di man sua, ché nessuno, eccetto lui, desìa l’abitar cloaca, ma architetti pagò e ingegneri e muratori e città intere edificò. Libri non potea leggere, né interesse avea nel farlo, ma editori comprò, e giornali e riviste e persin del calcio s’appagò, non nel giuocarlo, ché gl’era divieto, ma nel collezionar giuocatori e squadre.

Tatto suo fecale non cangiava sol oggetti o cose, oh no: se persona, per accidente o caso, da lui venia toccata, s’anche l’aspetto non mutava, l’animo n’era perturbato e torto. Virginal fanciulla da lui lambita, tosto femmina lussuriosa assai pareva, e a’ vizi assuefatta e usa: vita sua perdeva e null’altro doman era a lei dischiuso se non lo divenir ministra. Uomo onesto, di leggi e tasse rispettoso, in amen divenia, al tocco suo, a tutti gli inganni rotto e cupidigie, di null’altro voglioso se non d’impilar sterco su sterco, sibben dimoniaco, piegando a sue brame leggi e decreti, regolamenti e sentenze, homini e caporali.

Di tal regno era l’imperator supremo, da’ suoi olezzanti sudditi in excelsis elevato, da sue televisioni circondato, quando, per sorte, una finestra s’aprì che dava in su la campagna. Un vento gentile, che pria carezzato avea dolci gigli de’ campi e verdi fronde dei monti e chiari e freschi ruscelli alpestri, irruppe in la merdosa reggia il tanfo spazzando e la fecal corte prostrando. S’avvide allor l’imperator supremo che, fuor di cloaca sua, un Paese v’era, se non lindo, almen pulito e se non profumato, di certo non fetente. Intuir ciò e ragionar di come farlo fogna per intiero fu tutt’uno. Presidente dovea diventar, e Presidente diventò e per lunghi e lunghi anni s’intraprese, il toccabile toccando. Le genti mutarono e se avante, non tutte oneste, ma almen compite erano, sfacciate divennero, e il paese cangiò e se pria del “bel” si fregiava, al suo passaggio condonata discarica divenne, sì da schifar anco lo sterminator Vesevo. Leggi avea il Paese, non tutte giuste, ma almen garbate. Qual tempesta distruttrice abbattesi su gracil capanna, sì egli tastò e manipolò norme e Costituzioni che, in breve, sua immagine e odoranza divennero. Tutto egli toccò, e tutto il Paese cangiò.

Anni passarono e un dì, alfin, riaperse quella finestra che tanti lutti provocò. Non più d’alpestri fronde, non di fresche acque di gentil rivi, ma di sozza concimaia sapeva l’aere.

Pago e sazio fu allora come mai in vita sua, ché simil tra simili ormai era, e, alfin, tanfo nel tanfo.

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Mamma
n. 92 di U'Cuntu Leggi tutto

lunedì 4 ottobre 2010

Al mio vero amore

Mia cara Anna, sono certo che il piccolo Matteo non abbia nulla di serio: nei bambini è normale accusare, ai cambi di stagione, dei piccoli malanni. Il nostro caro amico, il Dr. Alberti ti ha già confortato: non c’è nulla da temere. E come si potrebbe mai temere qualcosa con una Mamma premurosa e amorevole come te? Tesoro mio, maledico la lontananza, non perché nutra chissà quale preoccupazione per la salute di Matteo, ma per non poterti essere vicino a rincuorarti e rassicurarti. Indovino, anche se nelle tue lettere non ne fai menzione, notti insonni accanto al lettino del nostro piccolo. Vedo, come se fossi lì, il tuo volto sussultare ad ogni suo colpo di tosse, ad ogni starnuto. Tesoro, già molte volte l’ho detto, ma lasciamelo ripetere ancora: sei la moglie migliore che mai potessi sognare. Non mi sbagliavo, quella sera di dieci anni fa quando, scorgendo il tuo volto nella moltitudine di ragazze presenti a quella festa, trovai il coraggio, vincendo la tua dolce timidezza e suscitando quel rossore sul tuo viso che mi fece subito innamorare di te, di invitarti a prendere un gelato e poi di lasciarti il mio numero di telefono. Tesoro, presto sarò lì con te e rideremo insieme di queste piccole preoccupazioni.

Dolce Rebecca, i tuoi versi appena giunti mi hanno commosso come non mi capitava da tempo o, forse, non è mai capitato nella mia vita. Mi chiedo quale uomo possa definirsi fortunato se non io, destinatario modesto se non indegno della tua arte e, ciò che conta maggiormente, del tuo amore. La stima e l’ammirazione che provo per te cedono il passo solo alla gioia di saperti mia per sempre. Il mio cuore è tuo, dolce Rebecca. Non potrò mai ricambiare come vorrei la tua poesia con pari moneta ma, di certo, posso rassicurarti che il mio amore per te non teme, e non temerà mai, modestie e tentennamenti. Resto in trepida attesa del tuo nuovo poema a me dedicato del quale mi hai accennato nella tua ultima. Conto i giorni, mi dicesti che sarebbe pronto entro la settimana: mi sarà meno penoso trattenere il respiro che sopportare l’attesa. A presto, mia Cara, a prestissimo. Tuo per sempre.

Adorata Carmen, ripenso a ieri sera e mi chiedo come possa attendere ancora una settimana senza morire, senza impazzire. Rivivo il tuo profumo, i tuoi occhi che si socchiudono mentre le tue labbra si avvicinano alle mie, le tue mani che mi accarezzano, e le mie che ricercano affamate i preziosi tesori che mi riserbi; la passione sfrenata segue la tenerezza, come il temporale che, fragoroso, segue le prime goccioline di pioggia. E, consumata la notte, l’arcobaleno del mattino, la luce e la serenità dei sentimenti dopo la tempesta degli abbracci. Ti amo, mia adorata. Morirò, sì, morirò! prima di mercoledì. Ma per quest’oggi, che io possa ancora pensare ai tuoi capelli e ai tuoi occhi…

L’acqua gli lambiva i piedi. Era già il tramonto, la marea tornava ancora a salire e di lì a poco avrebbe cancellato i nuovi amori, nati quel giorno e narrati con uno stecchetto sulla sabbia appena umida. Da quando era naufragato, vent’anni prima, su quell’isolotto sperduto nel Pacifico, unico superstite di una bagnarola al suo ultimo viaggio, aveva via via esaurito la carta, e le penne e anche le bottiglie.
Rimaneva lo stecchetto, e la sabbia, un’immensa lavagna che, al ritmo delle onde, ogni sera dimenticava, e ogni mattina immaginava.



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e sul numero 88 di Ucuntu Leggi tutto

lunedì 20 settembre 2010

I cari fratelli

«Fratello! Che gioia incontrarti e abbracciarti!»
«Mai pari alla mia, Fratello, mai pari alla mia. La felicità che mi pervade è indescrivibile.».
«Quanto tempo, Fratello, è trascorso dal nostro ultimo incontro. La misericordia di dio ha operato segni di inaudita grandezza. Il suo amore pervade il mondo e colma di gioia il mio animo.».
«Molti segni, sì, moltissimi segni. Visibili persino a chi ha soltanto un animo ben disposto. Fratello mio, paragonerei (e non vorrei sembrar blasfemo!) l’opera di dio ad un meraviglioso tappeto. Sul retro si intuisce il disegno, si possono scorgere i segni della grandiosità, ma è sul retto verso che si dispiegano le infinite sfumature e bellezze del tessuto. Non dubito, Fratello, non dubito che persino tu sia riuscito, scorgendo il retro, a riconoscere la sublimità del disegno compiuto. E ciò, credimi, è per il mio cuore più dolce del latte e del miele. Ti abbraccio, Fratello.».
«O, Fratello, che gioia mi dai! L’amore di dio è veramente immenso, se concede anche a coloro che non lo seguono in maniera retta l’illusione di poterne vedere il mirabile disegno. Così grande è il suo amore che anche coloro che ne sono lontani (come te, Fratello) sono convinti di esser da lui benedetti…».
«Fai bene, Fratello mio, fai bene a nominare quell’amore di dio che non teme confronti. Non vi è infatti nulla di più grande e santo, tantomeno l’amore che ritengono di conoscere altri credi di evanescente fondatezza.»
«Fratello, non vorrei che tu pensassi che il tuo credo possa percepire un amore di dio maggiore di quello di cui sono inondati i miei confratelli.».
«Ma non v’è dubbio! O no, non v’è! Certo che lo penso: come può essere la copia (peraltro nemmeno ben fatta) essere migliore dell’unico autentico originale, dell’amore che su di noi si riversa?».
«E dimmi, Fratello, è per questa ragione che la settimana scorsa alcuni dei tuoi sono giunti in un nostro villaggio e hanno ucciso tutti non risparmiando donne e bambini?».
«Oh sì Fratello, sì! Fu per amore, per il trionfo del vero amore, acciocché i meschini accecati dall’errore possano redimersi e indirizzarsi verso l’unica via che porterà, a chi la seguirà, un’infinità di bene. Quanto a coloro che, dando l’esempio e fungendo da ammaestramento, sono periti, ora, immersi nell’abbraccio e nell’amore del vero dio, ridono di quei pochi attimi di sofferenza e spandono lodi per noi che abbiamo permesso loro di ascendere a tale gloria. Ed è per questo, Fratello, che proprio non comprendo come mai i tuoi confratelli, il giorno dopo, abbiano posto una bomba di fronte ad uno dei nostri santuari uccidendo 27 fedeli e ferendone 62 (dei quali 35 gravi). Perché essere così refrattari all’amore di dio?».
«Ma Fratello, è evidente, credo, persino a te. Non era certo per le nostre povere vite, ma non potevamo tollerare che qualcuno dubitasse dell’immenso amore che dio riserva a noi, i suoi figli prediletti.».
«Incomprensioni, incomprensioni. Ma ora, Fratello, lasciati abbracciare.».
«Certamente e con la massima letizia, ma potrei chiederti la squisita cortesia di posare per terra il coltello che stringi nella man destra?».
«Fratello, lietissimo sarò di farlo non appena, toccato dall’immenso amore di dio, ti sarai risoluto a riporre quella mazza ferrata che rotei sul capo.».
«Fratello, forse è giunto il momento di salutarci.».
«Ma in letizia, Fratello, in letizia!».
«E anche, da parte mia, con la massima gioia.».
«La tua gioia nel salutarci non potrà mai essere inferiore alla mia, Fratello, mai!».
«Ma ci ritroveremo. Presto!».
«Prestissimo, Fratello,prestissimo! Come puoi dubitarne? Conterò le ore che ci separano dal nostro prossimo incontro.»
«Avverrà prima di quanto immagini, Fratello.».
«Non ne dubito, non ne dubito!».
«A presto allora!».
«A presto, a prestissimo».


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e sul
numero 87 di Ucuntu Leggi tutto

giovedì 5 agosto 2010

C'era una volta

«La Confraternita è al completo?»
«Sì, Grande Anziano, lo è.».
«Anziano, sei tu presente?»
«Sì, Grande Anziano»
«Neofita Apprendista, sei tu presente?».
« Sì, Grande Anziano, sono in attesa.»
«E tutti voi dei nobili Gradi intermedi della nostra Sacra Confraternita, siete tutti presenti?».
«Sì, Grande Anziano, siamo presenti. Pronunciati, Grande Anziano, raccontaci dell’altro tempo.»
« Per l’ultima volta, Fratelli, mi rivolgerò alla Confraternita: i miei giorni tra voi volgono ormai al termine, mi restano soltanto poche settimane. Tu, o Anziano, diverrai allora Grande Anziano e sarà tuo il compito di educare i più giovani al ricordo, come prima di me e te fecero tanti altri Anziani.».
«Sia così, Grande Anziano. Ma ora rammenta, Grande Anziano, e insegna: quando avvenne la caduta? Cosa ci ridusse nell’angustia? ».
«Non accadde improvvisamente: accecati dalla stoltezza, abituati alla libertà, convinti della nostra invulnerabilità e della nostra forza, non ci rendemmo conto che, giorno per giorno, il male diffondeva le sue cellule maligne. Quando cominciammo a comprenderlo era ormai troppo tardi, il morbo s’era diffuso, ed era incontrollabile. Da allora cercammo di resistere, con poche forze e ancor minore convinzione, ma fummo sopraffatti, i più si ritirarono nell’indifferenza. E cominciò la rovina.».
«Racconta, Grande Anziano, tu conoscesti il mondo di prima.».
«Sì, io conobbi quel mondo».
«Uomo fortunato tu sei, Grande Anziano.».
«Non dir così! - non farmi alzare la voce, ci possono sentire - Non sai di cosa parli, mio giovane Fratello: possa tu non conoscere mai quella vita il cui domani sia sempre peggiore dell’oggi. Neofita, in te alberga la speranza che mai muore nei cuori belli, a me solo il lontano ricordo resta.».
«Racconta, Grande Anziano, come vivevano coloro della mia età?».
«In quel mondo i giovani venivano assunti con contratto a tempo indeterminato.».
«E dopo quanti lustri, Grande Anziano?».
«Subito, il primo giorno.».
«E’ arduo crederti, Grande Anziano.».
«Comprendo, ma così era. E in quei tempi si lavorava dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio. E se talvolta si rendeva necessario trattenersi oltre, veniva riconosciuto lo straordinario.».
«Lo straordinario? Grande Anziano, tu vedesti uno straordinario?»
«Lo vidi».
«E com’era, Grande Anziano? Qual era il suo aspetto?».
«Era una riga, in fondo alla busta paga, dopo le ritenute. Era bello.».
«Ripetilo ancora, Grande Anziano. Cosa poteva accadere se non veniva corrisposto?».
Segui un silenzio gravido di rivelazioni.
«Poteva accadere persino uno sciopero. ».
«Sciopero? Grande Anziano, tu ti burli di noi!».
«No, credetemi, dico il vero.».
«Ma come potevate? L’Azienda non faceva strame di voi? ».
«In verità, in verità vi dico: a quei tempi esisteva un Sindacato.».
«Non è una leggenda, allora! Anche mio nonno ne parlava, ma credevo fosse a causa dell’Alzheimer…»
«Silenzio… dei rumori, laggiù. Sta per passare la ronda. Addio, Fratelli. Il 15 settembre andrò in pensione. Ricordate, perseverate. Sperate. Addio!».
Uscirono rapidamente dai bagni e si sparpagliarono in diverse direzioni precipitandosi ai posti di lavoro. Ma uno di loro fu scorto e fermato da una guardia dotata di frustino.
«Ragionier Morizzi! Lei ha diritto a 10 minuti giornalieri (in due sessioni) per pausa urina e a 6 minuti e 40 secondi per pausa feci (unica sessione, non cumulabile con urina, fatti salvi i quattro giorni di dissenteria annuali previsti dal contratto integrativo). Ragioniere! Cosa faceva nel bagno da 10 minuti consecutivi?».
Il Ragioniere si fece minuto, contemplava la punta delle scarpe.
«Ragioniere! Non ne avrà approfittato per... fumare una sigaretta? Ragioniere! Non rammenta come il fumo sia vietato in Azienda? La salute dei nostri lavoratori è preziosa per noi!» e intanto col frustino batteva il ritmo sulla mano sinistra. Il Ragioniere taceva colpevole.
«Voglio essere indulgente, Ragioniere. Ma non succeda più. Per vostra fortuna, alla salute vostra ci pensiamo noi. E ora vada!»

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numero 83 di Ucuntu
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lunedì 26 luglio 2010

Capitolo ventisette

«Prego, può entrare».
La segretaria, con vellutato fare da Gran Sacerdotessa dei Misteri, annuì severa in direzione della porta. Il momento era arrivato, l’incontro col Gran Capo.
Il Ragioniere, abituato a stanze affollate e sudate si sentì minuto e sciocco al cospetto della grande scrivania che, da sola, occupava lo spazio a disposizione sua, del Ragionier Perella e del Geometra Bertenghi. La pianta, poi, una palma degna dell’orto botanico, avrebbe potuto accogliere sotto le sue ampie chiome persino il Dr. Velluri al quale, come si sa, piacciono molto i dolci. E poi ci sarebbe anche da considerare la Dott.ssa Martesano, in effetti, ma lei era, invece, molto attenta alla linea. Da poco aveva dovuto lasciare la sua stanza singola, la Dott.ssa, per precipitare nella loro promiscuità. Esigenze di spazio, disse l’Azienda, gli affitti costano, i locali devono ridursi e bisogna fare un sacrificio. La Dott.ssa non se n’era data pace, la poverina, e fu in quelle settimane che cominciò ad interessarsi di filosofie orientali sino a partire, qualche tempo dopo, per andare a santoneggiare in India. Ingrassando pure, peraltro; ma nel momento in cui il Ragioniere varcò la dirigenzial soglia la Dott.ssa ancora studiava testi di marketing in inglese, era molto attenta alla linea e sarebbe potuta entrare comodamente nel vaso della gran palma.
«Ragioniere, proprio lei» lo accolse affabile il Capo. Lo affascinò di discorsi confidenziali sui massimi sistemi economici e aziendali, lo mise a parte di inconfessabili segreti in realtà noti a tutti e poi gli comunicò che gli offrivano una nuova opportunità. Generalmente quando il Capo o il Responsabile del Personale parlano di nuove opportunità alludono alla possibilità di trovare sufficienti argomenti per scrivere il ventisettesimo, il ventottesimo e il ventinovesimo capitolo del saggio “Tagliarsi le vene e morire in allegria”. Ma questa era un’opportunità sfidante, e allora si poteva arrivare con nonchalance a trentasei capitoli. Stava quasi per comunicagliela quando dei colpi secchi si abbatterono sulla porta. La Gran Sacerdotessa strillò al vilipendio e al sacrilegio ed entrarono facce giuste di sindacalisti arrabbiati.
Tesa l’atmosfera, Il Ragioniere avrebbe voluto (e anche potuto, in effetti, date le dimensioni) nascondersi dietro la palma, ma il primo di quei sindacalisti si precipitò contro il tavolo salmodiando a gran voce “inaccettabile”. Si riferiva, s’apprese poi, all’ultimo ordine di servizio emanato dal Personale.
«Venti! E’ fuori discussione» sbraitava paonazzo, lacrime agli occhi, muscoli contratti del collo, spalleggiato dal non meno esasperato compagno che controcantava “inaccettabile!” in ottava superiore.
Il Capo allargava le braccia e si rendeva conto, ma erano esigenze di servizio.
«E’ fuori discussione» barrivano i sindacalisti.
«In Cina hanno accettato le cinquanta» constatò il Capo col tono che non sarebbe per nulla sfigurato anche in caso di “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio”.
«Ma noi non siamo in Cina» cercò di obiettare il sindacalista, evidentemente ferrato in Geografia.
«E allora vuol dire che ci trasferiremo in Cina» annuì comprensivo il Capo, con quella severa autorevolezza che fa dire al bravo chirurgo che sì, è necessario operare, è necessario per salvare la vita, è deontologico.
«Tre, non una di più» rilanciò il sindacalista.
Alla fine mediarono: dodici, non più di dodici staffilate per turno nel caso di mancato rispetto dei tempi di lavoro. Ma il Capo era convinto che di questo passo nulla sarebbe poi rimasto in Italia. Non si era al passo coi tempi, e con il mercato globale. I sindacati, oltretutto, non avevano compreso la modernità .
«Dicevamo?- riprese quando i sindacalisti si congedarono per stilare un comunicato grondante senso di responsabilità – Ah sì! un’opportunità sfidante».


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giovedì 17 giugno 2010

Dura lex sed lex

«Fate entrare l’accusato» ordinò il Cancelliere al quale, sottovoce, si rivolse l’inquirente chiedendo di chi si trattasse.
«Tal Gesù, fu Giuseppe, nato a Betlemme 33 anni fa. Ultimo domicilio conosciuto: Nazareth».
«Di cosa è accusato?»
«Sedizione, abuso di credulità popolare, falso ideologico…».
«Falso ideologico?»
«Sostiene di essere Re dei Giudei e Figlio di Dio».
Il Governatore allora si alzò in piedi e si rivolse all’uomo incatenato.
«Sei tu il Re dei Giudei?».
«Tu lo dici» gli rispose il prigioniero guardandolo negli occhi, senza ombra di timore reverenziale nei confronti del potente inquisitore. Il Cancelliere si era intanto avvicinato nuovamente al Governatore e gli sussurrò alcune parole nell’orecchio indicandogli un gruppetto di Giudei che prendevano appunti vergando vigorosamente delle tavolette di cera.
«Voi – chiese il Governatore – chi siete? Cosa state facendo? Come vi chiamate?»
«Luca» rispose il primo, «Marco» aggiunse il secondo e «Matteo» concluse il terzo.
«Ma non ce n’era un altro fino a poco fa? Dov’è andato?».
«Ecco… dietro, lì. Insomma, aveva un bisogno». «Un po’ costipato». «Sì sì, costipatello. Devono essere state le locuste fritte di ieri sera». «E’ da stamattina che non si sente bene». «L’ha detto anche a me, è vero. “Marco - mi ha detto - la cena di ieri sera è stata veramente l’ultima per me. Da ora in poi dieta...” Forse però è stato anche il vino, non solo le locuste fritte nel grasso di montone…».«Eccomi, eccomi…».
«Ora che siete tutti qui, ditemi, cosa state scrivendo su quelle tavolette?»
«Prendiamo appunti». «Sì, infatti, gli atti dell’inchiesta». «Questa sì che è un’inchiesta che farà molto rumore». «Oh sì, proprio».
«Per quale giornale collaborate?»
«Giornale?». «Ecco noi… Cosa sono i giornali, scusi, Governatore?». «Già, infatti, cosa sono?».
«Siete iscritti all’Ordine dei giornalisti?».
«Ordine dei Giornalisti? No io no e tu?». «No, mai sentito nominare. Chi sono? I lavoratori a giornata?». «Non credo... Però, Governatore, ho il tesserino dell’ordine degli Evangelisti». «Vero, ce l’ho pure io.». «Anche io.». «Il nostro è autentico, ma ne girano un sacco di falsi e apocrifi, sa? Governatore…».
«Non ignorate, immagino, che con le nuove norme emanate da Roma non è lecito trascrivere atti di un’inchiesta. Chi è il vostro Editore?».
«Buona domanda». «Potrebbe essere il Padre Eterno?». «In un certo senso, però Lui non firma i contratti». «Però ci ispira la linea editoriale». «Vero.».
«Centurione – ordinò il Governatore – sequestri quelle tavolette.»
«Ma non si fa.». «Non è bello». «Vero, non è per niente bello.». «O mannaggia, devo ritornare alla latrina».
Il Centurione consegnò le tavolette al Cancelliere che cominciò a scorrerle mentre il Governatore «Dove eravamo rimasti? Ah, sì. Dunque, Giuseppe, sei tu il Re dei Giudei?»
«Giuseppe era suo padre…».
«Già. Allora, Giosuè, sei tu il Re dei Giudei?».
«No, non si chiama Giosuè. Comincia con la G ma …».
«Giuda, sei tu il Re dei Giudei?»
«Giuda? No, per carità, quello era il nostro infiltrato».
«Insomma: sei tu il Re dei Giudei?»
«Governatore!»
«Che c’è ora, Cancelliere?».
«Nelle tavolette c’è un riferimento al Padre Suo che è nei Cieli».
«Il fu Giuseppe?».
«No, un altro.».
«Imputato complicato… Quasi quasi me ne lavo le mani di questo caso…Ma questo Padre Suo che è nei Cieli è iscritto nel registro degli indagati?».
«Non risulta».
«Avete sentito – alzò la voce il Governatore rivolgendosi ai quattro – Il Padre Suo non è indagato. Non potete nominarlo nei vostri resoconti».
«Ma noi non lo nominiamo mai invano.». «Oh no! Figurarsi!». «Però certe volte è necessario.». «Eccomi, mi sono perso qualcosa?». «Dice che non possiamo citare il Padre che è nei Cieli». «Oh però».
«Governatore!»
«Che succede ancora, Cancelliere?».
«Ci sono virgolettati!».
«Virgolettati?»
«Sì, c’è il resoconto dell’interrogatorio davanti ad Anna e Caifa».
Il Governatore si alzò, braccio teso monente nei confronti dei quattro.
«Roma stabilisce che non si possono pubblicare gli atti di un’inchiesta. Solo un riassunto.».
«Come? Un riassunto?». «Ma è assurdo!». «Si perde tutto, così». «E’ vero, la parola è importante.». «Se il Verbo doveva parlare per riassunti mica si faceva carne!». «Vero, spediva un messaggio con la colomba.». «Ma non sarebbe stata la stessa cosa…». «Oh no, per niente». «Ecco, mi ritorna il mal di pancia.». «Resisti, è un momento abbastanza importante.». «Dici?».
«Dura lex, sed lex - sentenziò il Governatore che, segretamente, da anni sognava di potersene uscire in maniera così severa e lapidaria – Cancelliere! Proceda al sequestro delle tavolette.».
«Eh no! Così non si fa!». «Giusto! Il pubblico deve essere informato».
«Pubblico… – sorrise con scherno il Governatore – Ma chi credete che si interessi mai agli atti di un’inchiesta?».

«Bé, no, qualcuno c’è.». «Esatto, e credo, Governatore, che di questo processo se ne parlerà a lungo». «Vero. Sì, sì sì, proprio a lungo.». «Pensate che possa andarmene ora? Non ce la faccio più. Poi mi fate un riassunto.». «Pure a te? Resisti». «Governatore, questa è una legge ingiusta!». «Vero, sì, proprio ingiusta.». «Non è democratica!». «No, no, per niente democratica.».
«Dite che non sia democratica? Ma se la maggioranza questo desidera, la legge non solo è democratica, è anche giusta- e, con gesto teatrale (Pilato in realtà sognava di fare l’attore) – Fatelo entrare!» ordinò.
I legionari condussero un omaccio con occhi iniettati di sangue, uno che si vedeva lontano le cento miglia che era un poco di buono. Sgomitando e scavalcando i quattro, un giovane cronista armato di tavoletta, seguito da una mezza dozzina di colleghi, si slanciò contro il nuovo arrivato.
«Onorevole Barabba – gli domandò – è stato difficile vincere il ballottaggio con Gesù?»
«Non mi ha mai impensierito, il mio programma era certamente superiore. E come tutti gli eletti, avendo vinto a larghissima maggioranza e godendo del largo favore popolare, mi considero un Unto del Signore.».
«E il Cristo?».
«Il suo scarso seguito dimostra l’arretratezza delle sue idee, paraltro già sconfitte dalla storia».
Il Governatore, con gesto maestoso, congedò i quattro. «Attenzione a cosa scrivete» li ammonì mentre venivano condotti via.
«E ora?». «Bel pasticcio.». «Un pasticcio, sì, a queste condizioni mi sa che non scrivo niente». «Vero. Si perde tutto.». «Tutto, tutto.». «Io me ne torno alla latrina. E ci resto.».

La settimana scorsa, calda mattina estiva.
«Presto, cari, è ora, la funzione sta per cominciare».
«Eccoci, Mamma. Ma oggi cosa sacrificheremo a Giunone?».
«Credo una giovenca. O una capra? Non so, chiedete a Papà, è lui che si occupa di queste cose.».
«Mamma, ma quanti animali hanno sacrificato a Giunone in tutta la sua vita?»
«E chi lo sa? Migliaia, milioni…»
«Ma, Mamma, è da tanto, quindi, che si fanno sacrifici ai nostri Dei del Pantheon?».
«Da tantissimo.».
«Ma, Mamma, non è mai venuto fuori nessun altro Dio in tutto questo tempo?»
«Un altro Dio? Fuori dal Pantheon? Ma no, l’avremmo saputo, non credi?».


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Informare per resistere
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martedì 18 maggio 2010

Viva V.E.R.D.I.

L’ultimo usciere aveva spento l’ultima luce e l’oscurità era finalmente calata sul lungo corridoio del Palazzo. S’erano chiuse le pesanti massellate e istoriate porte, le dorate serrature erano scattate e la pace regnava ora sovrana, come è giusto che sia in un palazzo un tempo di Re.
Un sussurro, un bisbiglio, una volta accertata la duratura quiete, si levò da uno degli angoli e, per quanto fosse appena intellegibile, suonava però imperioso, autoritario. E anche un po’ seccato.
«Non furono, quest’anno, celebrazioni grandiose, nevvero? Ne convenite anche voi?».
«Senza meno.».
«Deludenti, invero.»
«Invero sì.»
«Mi chiedo qual sia la causa. Forse il vedermi accumunato a persone di lega, in verità, non sempre nobile può avermi arrecato un certo qual nocumento?».
E qui il silenzio si fece spesso, perché palese era l’allusione ai presenti.
«Temo non sia solo questo, Maestà. Ancor periglia, in questi dì, l’Unità della Nazione.».
«Cosa dite mai, Benso? L’Austria ancor minaccia il Lombardo Veneto e l’integrità della Patria?».
«Non propriamente, Maestà, è il Lombardo Veneto che minaccia l’Unità, e sanza che si periti l’Austria di profferir verbo»
«Ohibò e perché mai?».
«Perché l’Italia nacque sotto cattiva stella – si unì allora una terza voce – stella d’oppressione e tirannide, stella monarchica, stella del (pausa minacciosa e un po’ disgustata) Savoia. Non sorprende che il Popolo non provi affezione per la cara Madre.».
«Oh, ma il Mazzini è ancor là? Benso, non s’era decretata la dannasiun memoriae (damnatio, Maestà, damnatio) per quel becchino repubblicano?».
«E’ la vostra presenza, Savoia, che in vero sorprende, giacché L’Italia ora è Una e repubblicana.»
«E ben si vede che fine ha fatto la vostra Italia Una e repubblicana. Ricusavate la Maestà e ora v’inginocchiate a Pirlasconi (Berlusconi, Maestà). E taccio di rammentare di certe suddite (Oui! Meglio tacere, Maestà!)... Benso! Ma la mi dovete sempre correggere? Son pur sempre la Vostra Maestà, neh! Volevate la Repubblica? E ora l’avete, congratulassiun, tenetevi il Baracconi.».
«Sotto il tallone della tirannide il popolo divien plebe e spregia la libertà medesima. Savoia, v’accuso! Nel far vostra l’Italia, avete fatto gl’ italiani servi! ».
«Benso! Ma ancora mi cogliona quel Mazzini? Ma che ci fa qui? Ma non lo si era condannato? Non era riparato in Isvizzera o in Inghilterra? Caro il mio Mazzini, non ci fossimo resoluti noi, la vostra Italia non l’avreste mai veduta, non da vivo, non da morto non da statua. Mercé chi, di grazia, la si voleva unire? Con quali armi? Col vostro Pisagatti? Coi vostri 300 giovanissimi e fortissimi che son però mortissimi?».
Un colpetto di tosse, uno schiarirsi la voce «Giammai l’Italia sarebbe Una, non fusse pei miei 1000. Quando lor signori si baloccavano di astruserie diplomatiche, o quando taluno si perdeva in vaneggiamenti mistici e oppiacei o in atti tanto velleitari quanto inutili, fu solo in grazia dell’azione da noi intrapresa che si sciolse il gordiano nodo che avviluppata tenea la Penisola. Voi cianciavate, noi si seminava, voi discettavate d’Italia Una, noi la si faceva.».
«Peut-être - ripose freddo Benso - Ma le scienze agricole, che mi capitò di frequentare, spiegano come merito precipuo del cultivatore sia l’assistere la crescita del raccolto più che lo sparger semenza. Forse Voi, Garibaldi, seminaste, ma noi curammo e noi impedimmo che la pianta deperisse anzitempo, fato ineluttabile s’avessimo lasciato a voi l’iniziative.».
«E’ merito dei 1000, caro il mio Benso, se il vostro Re lo divenne di Napoli e Roma e non lo rimase di Pinerolo e Mondovì.».
«Benso! Ma come osa quel villanzone?».
«Nulla è ciò ch’egli dice, Savoia. Divenir l’Italia Regno, quella fu la jattura. Oh, foste restato a Mondovì!».
«Ancora quel Mazzini? Ce l’ha ora la sua repubblica, ne sia felice, con Trafficoni Presidente e Pesciaroli Ministro. Oh sì, bell’affare, bell’affare veramente!».
«Un Presidente iniquo e vizioso lo si può deporre, in Repubblica. Sub monarchia avremmo patito, sanza nulla speme, le ingiurie de’ vostri debosciati nipoti.».
«Alludete, Mazzini?».
«Alludo, Savoia.»
«Colpa vostra: se i miei nipoti fossero vissuti a Corte e non nelle mollezze di un esilio repubblicano avrebbero certamente mostrato miglior riuscita. Benso, che ne dite voi?»
«Dico, Maestà, e lor signori, che sarebbe il caso di por fine a tali querimonie e rammentarsi dell’imminente comune periglio.».
«E sarebbe quale, il periglio?»
«Udii voci, Maestà e lor Signori: pare vi sia l’intenzione di trasferirci in altro locale.».
«Non istaremo ancor in questo largo corridoio? E dove ci menerebbero, di grazia? Forse nel salone panoramico dal quale si godrebbe mirabil vista?».
«Parmi , Maestà, che l’intenzioni sien altre.».
«Potrebbe darsi nello studiolo, ché la nostra figura possa suggerire alte e nobili scelte pel destino della Patria?».
«Mi duole, Mazzini, ma non raccolsi tali propositi.».
«Che sia nella balconata affacciata sulla piazza d’Arme, in guisa che noi si possa ispirar le giovini reclute della Patria?».
«Mai più, Garibaldi. Maestà, Signori, il parlottio cennava ad un sottoscala.».
«Un sottoscala? Come osano! Ah, non fossi qui in effigie di busto e m’avessero almen serbato braccia e sciabola farei vedere io, farei vedere! Non basterebbero tutta la milizia e tutti i Prefetti del Ministro Coglioni!».
«Maroni, Maestà.».
«E va bin, sono pur sempre cose che si rompono. Ma quando avverrebbe, poi, questo trasferimento?».
«Presto, dimane, di buon’ora.».
«Ma perché mai, questa transumanza?».
«Non compresi appieno. Cavi, nuova sala stampa . Ammodernamento. Di più ignoro.»
Fu una notte greve quella che precedette l’arrivo dei traslocatori. Con molta dignità, senza lasciar trasparire emozione alcuna, gli augusti Padri della Patria si fecero imbracare, sollevare e portar giù. Solo Garibaldi, combattivo, oppose una strenua resistenza e si abbarbicò al suo piedistallo con tutte le forze che gli erano concesse. Tanto resistette che gli altri tre, ormai giunti al fondo del Palazzo, udirono un frastuono, uno schianto, che si propagò per tutti i saloni e tutti i corridoi.
«Garibaldi fu fracassato.».
«Meschino. In fondo l’era un bravo figliuolo. Idee un po’ balzane, ma non cattivo. Benso, pensate che sia questa la nostra nuova magione?».
«Ritengo di sì, Maestà».
«Non mi pare molto luminosa, nevvero?».
«No di certo, Maestà.».
«E neanche molto spaziosa, mi sembra.».
«Oserei dire angusta, Maestà.»
«Infatti avverto la vostra vicinanza, Benso. Visto che siete così prossimo, di grazia, potreste dirmi perché m’han posto questa veletta sul volto?».
«Maestà, temo si tratti di una ragnatela.».
«Ne siete sicuro, Benso?».
«Temo di sì, Maestà.».
«Ah.».

«Benso?».
«Maestà.»
«In finale, per i prossimi 50 anni si deve solo riposare, nevvero? e un locale quieto e silenzioso (molto silenzioso) può avere i suoi vantaggi. Ne convenite? Ora dobbiam solo attendere d’esser nuovamente destati.».
«Bien sûr, Maestà, purché qualcheduno ancor ci desti.».


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Numero 76 di Ucuntu
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domenica 2 maggio 2010

Scorie / Le cronache del tempo che verrà

Era in ospedale, questo l’aveva capito. Nel corso delle ultime ore (o erano giorni?), nei brevi periodi desti di un lungo dormiveglia se n’era reso conto: l’ambiente asettico, i camici bianchi chini su di lui, il lento sgocciolo delle sacche di medicinali in soluzione. Era in ospedale, ma non ricordava perché fosse lì. Ancora sonnolenza, ancora le palpebre che si chiudono artificialmente.
Poi, dopo un periodo che non poteva misurare, un risveglio meno effimero, la stessa stanza, ma qualcuno accanto. Uno sconosciuto, non la moglie o uno dei sui cari, un uomo che vestiva abiti formali ma che si capiva fosse più a suo agio in mimetica.
«Ben svegliato», lo salutò lo sconosciuto.
«Do… dove sono?».
«In una clinica privata. Ha subito qualche intervento, ma le assicuro che non è nulla di grave. Presto uscirà da qui in forma come prima. Ha idea del perché si trovi qui?».
Alla memoria, allora, ritornarono, vivide, le immagini prima dimenticate. Il deposito di scorie radioattive, di cui era uno dei custodi, notte, l’allarme che squilla, un’effrazione?, la corsa all’armeria e poi al settore Nord, dei lampi, degli spari e… e cosa? Nulla, nulla più. L’ospedale, lo sconosciuto…
«Ricordo un allarme, al deposito…».
«Bene. E’ meglio che non ricordi altro, anzi, che dimentichi anche questo.».
«Ma lei chi è?».
«A lei è lecito domandare, a me non è concesso rispondere».
«Ma cosa volete da me?».
«Vogliamo che dimentichi.» e nel dirlo si alzò e si diresse verso la porta.
«Ma poi, l’effrazione… Ha avuto luogo? Hanno rubato qualcosa?».
Lo sconosciuto, sul punto di uscire dalla stanza, voltò il capo, solo il capo «A lei è lecito domandare, a me non è concesso rispondere. Ma, e questo lo ricordi, a lei è lecito domandare solo a me. Non ponga queste domande a nessun altro, lo verremmo a sapere. E ci incontreremmo ancora, in quel caso. Per l’ultima volta.».

Passò del tempo, qualche mese, qualche anno, forse, e in una notte torrida d’estate, il vicecommissario sfogliava l’incartamento dell’assassina filippina mentre, in sottofondo, il canale news aggiornava le vuote stanze sugli ultimi avvenimenti. La fine della Guerra dei Distretti in Cina, una guerra che aveva provocato, secondo stime ufficiose, almeno dieci milioni di morti, l’inaugurazione di una nuova centrale nucleare sulla costa pugliese. L’Amministratore delegato della società elettrica rispondeva competente alle domande della giornalista, magnificava la potenza e l’assenza di significativi impatti ambientali…
«Commissario…». lo interruppe l’Agente
«Sono un Vice, sì?».
«Una chiamata, una signora vuole denunciare il marito che cerca di entrare in casa.».
«Il marito? Non lo fa entrare a casa sua?».
«E’una lunga storia, sostiene. La casa è sua, gliel’ha lasciata il padre… Il marito s’è rovinato in Borsa, non vuole farlo entrare perché non vuole che i suoi beni vengano presi dai creditori del marito, ha chiesto la separazione…».
«Ma chi è questa?».
«Ho il nome di là… Sara, Sara qualcosa…».
«Capito. Mandate qualcuno prima che sveglino il quartiere. Consigliate un albergo al marito e un avvocato per tutti e due domattina» e ritornò al suo fascicolo mentre l’Amministratore delegato ricordava come, grazie al nucleare, si fossero abbattute le emissioni di CO2,che ormai superava i 500ppm, e ricordava come non si fosse verificato un solo incidente negli ultimi 30 anni, almeno dal 2020. Il nucleare faceva bene all’ambiente, e dato che le energie alternative si erano tutte risolte in una bolla di sapone, rimaneva anche l’unica. Ma allora perché gli ambientalisti erano contro? chiedeva l’intervistatrice. E qui l’Amministratore sorrideva, e suggeriva come le lobbies del petrolio fossero potenti, e potessero manipolare…
«Commissario..» questa volta l’Agente era trafelato, e preoccupato.
«Vice, sì?»
«Piazza Colonna. Kamikaze imbottito di esplosivo.»
«Ancora? Chiama i cecchini, gli artificieri, andiamo… Fate sgombrare, intanto, cordoni…»
«Commissario… Vice… Non ha solo esplosivo. Dice che è pieno di materiale radioattivo.»

Era in mezzo alla piazza, seduto alla base della Colonna. Stringeva un pulsante tra le mani, qualcosa collegato al detonatore, per provocare un’esplosione qualora un cecchino l’avesse ucciso. Gridava di allontanarsi, di allontanarsi tutti, almeno di 50 metri, gridava che mancavano cinque minuti, poi sarebbe esploso.
«Che dicono i contatori?» – chiese il vice commissario ad un camice bianco.
«Non rilevano radioattività».
« Sarà un bluff?».
«Non ci giurerei, Commissario – non fu ricordato che era solo un vice, non era il momento – Vomita, diarrea. Sintomi di malattia da radiazioni.».
«Ma chi è?».
«Stiamo controllando le foto in archivio».
Il sito delle news aveva intanto trovato qualcosa di più eccitante di una pace in Cina e la notizia del kamikaze radioattivo aveva monopolizzato la rete.
«Maschere» ordinò il Commissario e tutti gli agenti le calarono sul volto.
«Trovato! –era l’Agente che consultava l’archivio – Paretti, Giorgio Paretti. Anarchici combattenti. ».
«Che altro?».
«Vari arresti, ma niente di veramente grave. Sparito dalla scena nell’ultimo anno… Aspetti, c’è un file sanitario».
Frattanto, da un sito era sparita la giornalista e, al suo posto, era comparso un cappuccio nero da cui spuntavano due occhi febbrili ed eccitati. Un anarchico combattente, diceva. Leggeva un comunicato, si erano intrusi nel sito delle news. Lotta al sistema. Annunciava l’esplosione entro pochi minuti. Se ci si teneva lontani nessuno si sarebbe fatto male, l’esplosivo era in quantità modesta. Ma le scorie radioattive avrebbero reso invivibili isolati interi di centro città per anni. O, almeno, vivibili solo con le maschere. Le attività economiche e politiche ne avrebbero ricevuto un danno irreparabile. E si vedeva, attraverso le strette fessure del cappuccio, che i suoi occhi erano veramente divertiti e compiaciuti.
«Cancro, Commissario. Nell’ultimo anno è entrato e uscito dal Policlinico. Stomaco, molto avanzato».
Vomitava, ai suoi piedi una chiazza scura. Tremava, volto emaciato, sguardo febbrile. Sudava nello sforzo di tenere premuto il pulsante del detonatore. E guardava l’orologio.
«E’ un bluff – ribadì il vicecommissario – non è malattia da radiazioni. E’ un poveraccio condannato comunque a morire»
Un minuto, ribadì il cappuccio nero.
Allontanarsi! Di più! Maschere!
I teleobiettivi dei siti news erano puntati sul kamikaze anarchico. Scandiva i secondi, quaranta, trentacinque, il suo capodanno, l’inizio di una nuova storia, la fine della sua storia. Tre, due, uno, e un’esplosione sparse per la piazza carne e sangue e vomito e merda e imbrattò la colonna Antonina, e mai i massacri dei germani, lì rappresentati, erano sembrati più realistici e vivi.
E una nuvoletta si sollevò allora, bianca e leggera, una nevicata estiva che non scendeva dal cielo, ma saliva da un cadavere, o da ciò che ne era rimasto.
«Maschere! – gridò ancora il vicecommissario – Contatori! Rilevatori!».
«Niente radioattività, commissario, niente!».
«E quella polvere?».
Un camice bianco s’era avvicinato, aveva raccolto dei fiocchi. «Sembra talco, Commissario».
«Talco?».
«Sì, Commissario! Il kamikaze era imbottito di borotalco!».
Una risata catartica si propagò allora come un’onda tra gli agenti dei cordoni, partendo da quelli più vicini e arrivando, mano a mano che il passa parola portava la notizia, ai più lontani. Così che, mentre i primi già si rallegravano, gli ultimi erano ancora preoccupati e timorosi e quando questi, infine, cominciarono a ridere, i primi s’erano già levati le maschere e si davano pacche l’un l’altro e sghignazzavano, e barcollavano in precario equilibrio per le risate e per il viscido del sangue sull’asfalto. Qualcuno alla fine lo perse, l’equilibrio, e, senza che gli schiamazzi, ancora più sguaiati, cessassero, cadde sulle umane scorie festeggiando lo scampato pericolo.
Il Vicecommissario annunciò la buona novella ai giornalisti oltre i cordoni. Bluff! ripeteva, era un bluff! Talco, Borotalco!
«Missione compiuta », annunciò nel frattempo il cappuccio nero.
Non è vero! Non è vero niente! Si sbracciava il vicecommissario. Era borotalco! Solo borotalco.
«Missione compiuta – ribadì – A Milano. Quello di Roma era solo un diversivo» e la sua immagine sparì, e ritornò il canale news. Scorrevano in basso le ultime notizie di agenzia: “Esplosione a Milano, via Vittor Pisani, deserta, per l’ora. Non si segnalano feriti. Da prime indiscrezioni si registrano elevati livelli di radioattività.”

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gli Italiani
Numero 77 di Ucuntu Leggi tutto

giovedì 8 aprile 2010

The last gift (L'ultimo dono)

They weren't any taller than the Earth people, yet they built the Temple, this eternal monument which extended over two planets: the Main Planet and its smaller satellite, which had simply been called Temple for thousands of years. Connecting Main to its satellite there is a series of fourteen purification stations in which the pilgrims from Main who wish to visit Temple and see, if only for a few moments and from immeasurable distances, the Mother Priestess, must stop and raise their spirit and get slough off the dross of life. They weren't any taller than the Earth people, and they became extinct millions of years ago, yet they left a legacy to all peoples: their religion, which, over the following eras, absorbed all the others and became, in effect, the only one in the explored universe: the Worship of the Immense. And, of course, they left the Temple, or rather they left the original nucleus, which was renovated and extended and aggrandised in the millions of years that followed, until it became what it is today. They weren't any taller than the Earth people, perhaps even a little shorter, but their name is still remembered millions of years after their extinction, and will be remembered as long as life itself endures in the universe.
He had left the fourteenth and last purification station many days before and was now waiting for the moment of the private hearing in a lounge next to the hall of gifts, a rare honour reserved only to a few. He was an Earth man and he had a casket with him which he hardly took his eyes off, perhaps in the absurd fear that someone might take it from there, from that very place. A group of pilgrims had been waiting for a long time now, reciting the old string of prayer beads and chanting in unison, while silent automatons glided on air pillows, with swift and composed diligence. The Temple is permeated by technology, and there is nothing, from the cleaning, to the lighting system, to the adjustment of the atmosphere, that is not centrally directed by synthetic intelligence, subjected to incessant mutual control, in order to avoid any kind of malfunction. From time to time, however, albeit rarely, a flawed instruction is generated, though only in some minor routine which does not compromise the integrity of the system, a system that has been maintained for millennia, and has withstood all sorts of attacks from the most disparate and desperate, chaotic groups. Such an error – a tiny error – was generated just as the group of pilgrims were coming to the last bead on their prayer-strings, a tiny malfunction in the archive database during a procedure considered of the fifth level, for which no stringent controls are in place. The heavy, enormous doors opened without a groan, without any apparent effort, and the chamberlain approached, surrounded by a group of guardian automatons. He solemnly, but politely, invited the Earth man to follow him inside.
The Mother Priestess, tiny and translucent, almost transparent, was at the centre of the room, which was big enough to hold a large spaceship. She was suspended at a certain height from the floor, supported by invisible, delicate forces. The Earth man stopped his carrier at a certain distance from her and knelt down, bringing his hand to his chest, head bowed, waiting, next to the casket.
"Rise, Earth man" the Priestess told him, and her voice, barely a whisper, was perfectly audible in every corner of the room, without an echo. As he stood up, she said: "I am told that you are the last one of your people. Is it true?"
"Yes, Venerable Mother, it's true. There were two of us for a long time, but I lost my companion a year ago. Now I am the last one"
"What is your name, Earth man?"
"Does it matter, Venerable Mother? Who I will have to be distinguishable from, now? "
"I understand your bitterness, Earth man, as you wish to be named, but yours is not the first people that has departed. Look at this room: it was started by hands which have been extinct for millions of years. Peoples have lives, just like individuals: they are born, grow old, some older than others, but one day they die. Other peoples are born and evolve in their place, according to laws that only the Immense knows. But you know well, Earth man, that the Immense does not forget, neither the peoples nor the individuals. I know it will not pay for your loss, but I hope it will console your mind."
"The will of the Immense be done, Venerable Mother; but my mind would be less embittered if I were not aware that it was not the will of the Immense to declare our end, but the villainous conduct of our wretched ancestors."
"I know. I know that humans did not show the Immense any gratitude for the precious gift of the Earth, and they squandered it ungratefully."
"So it was, Venerable Mother. And we, pilgrims on other planets, far from our now uninhabitable and burning home, for thousands of years we have cursed the folly of our fathers. For millennia we have dreamed of returning to Earth but, as you know, our race has gradually dwindled over time. Perhaps unknown elements on our planet, elements not found in synthetic atmospheres recreated for us elsewhere, have made the succeeding generations ever more sterile. Until there were only two of us. And now just me, the last of the Earth people. "
There was a silence in the great hall, a respectful and sharing silence that was interrupted by the Mother Priestess's soft voice.
"I know you have a gift for me, Earth man..."
"Yes, Venerable Mother” - the man recovered from his brief listlessness, leaned towards the casket and held it up – “Here, the work of countless generations of exiles. All our fortunes, all the time we have been granted, all our efforts are here, Venerable Mother. We have enclosed in this casket all the knowledge that we have collected on the people of the Earth. Not all, to tell the truth, were contemptuous, idle people, heedless of the future. We had artists, philosophers, scientists and thinkers. Everything we were able to gather is here, translated into the major languages of the Galaxy, stored in cells made of indestructible Santen crystal, to buy which we donated all our resources. "
"Thank you for your gift, Earth man. You proved to be better than your fathers. We will keep this treasure here in the Temple, in our archives, so that the memory of your people will always be preserved."
The Priestess waved her hand and the casket rose into the air and floated across the room towards a side passage leading to the service buildings. It continued down a long tunnel, borne along by compressed atmosphere, until it reached the inspection station, where it was to be registered in the archive through an indelible inscription. It was then that the malfunction appeared, a totally insignificant one for the overall functioning of the Temple, but it created a difference between the code inscribed on the chest and the one, which should have been the same, recorded in the memory banks of the archive.
"And now, Earth man, what do you wish to do? You can stay here in the Temple, if you want, for as long as the Immense grants you life."
"I thank you for your offer, Venerable Mother, but I would prefer to be reunited with my people, and my companion."
"As you wish, Earth man. You will be taken to our sleep rooms and your will soon see them. And it will not be long until we meet again in the glory of the Immense. Sleep well, brother Earth man, and may the Immense welcome you kindly."
The man bowed again and walked away, carefully guided and escorted through a multitude of buildings and constructions, to one of the sleep rooms compatible with human physiology. He lay on a comfortable bed, and he was offered images and sweet sounds of his homeland. Images he had viewed countless times and knew by heart, describing a world that he had never seen.
While visions of sunsets on pristine shores flowed through the mind of the Earth man, the casket took a very different direction from the one intended by the code on the memory banks and, after passing through the many detectors that read the code impressed on it, ended its long progress in a place very different from the one originally established. It was not placed, as planned, beside the extinct flower people, poets of Stara, but next to the utterly unmourned Durti cannibal worms, in a corner of the archive where no-one, no matter for how long they searched, could ever recognize it, not even a hypothetical Palaeontologist who might feel, in the millennia to come, the desire to do some research on the dead planet Earth and its ancient inhabitants.
An ampoule of sedative had been gently injected into the veins of the Earth man, a prelude to a peaceful sleeping pill which would then be followed by a lethal substance that quickly and gently would take him among his own people. As the sleeping draught gradually pervaded his body, his reflexes became slower, meanwhile he was dreaming of the sea and the waves that slowly, very slowly, moooore and moooooore slooooowwwwwly caaaarressssed theeeee beeeeaaaaaa..


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mercoledì 7 aprile 2010

L'ultimo dono

Non erano più alti dei Terrestri, eppure costruirono il Tempio, questo eterno monumento esteso su due astri, sul Pianeta Sede e sul suo satellite più piccolo chiamato, ormai da millenni, semplicemente Tempio. A collegare il pianeta e il suo satellite, una serie di quattordici stazioni di purificazione nelle quali i pellegrini partiti da Sede che intendono visitare Tempio e scorgere, anche se solo per pochi attimi e da distanze incommensurabili, la Sacerdotessa Madre, devono sostare per elevare lo spirito e liberarsi dalle scorie dell’esistenza. Non erano più alti dei Terrestri, e si estinsero milioni di anni addietro, ma lasciarono in eredità a tutti i popoli la loro religione, la quale, nel corso delle ere successive, assorbì tutte le altre e divenne, di fatto, l’unica dell’universo esplorato, il Culto dell’Immenso. E, ovviamente, lasciarono il Tempio o, almeno, il primo nucleo che fu ristrutturato e ingrandito e ingigantito nei milioni di anni seguenti sino ad arrivare a ciò che è oggi. Non erano più alti dei Terrestri anzi, forse, addirittura un po’ più minuti, ma il loro nome è ricordato milioni di anni dopo la loro estinzione, e sarà ricordato sin quando nell’universo abiterà vita.
Da molti giorni aveva lasciato la quattordicesima e ultima stazione di purificazione e ora attendeva il momento dell’udienza privata, raro onore riservato a pochi, in un salone contiguo alla sala degli omaggi. Era un Terrestre e aveva un bauletto vicino a sé al quale rivolgeva sovente lo sguardo, forse nell’assurdo timore che qualcuno potesse sottrarglielo, lì, in quel luogo. Un gruppo di pellegrini attendeva ormai da tempo, snocciolando i grani di un’antica corda di preghiera e salmodiando in coro mentre silenziosi automi scivolavano su cuscini d’aria con composta e frettolosa solerzia. Il Tempio è permeato di tecnologia, e non vi è nulla, dalle pulizie all’illuminazione, alla regolazione dell’atmosfera che non sia diretto centralmente dalle intelligenze sintetiche sottoposte ad un incessante mutuo controllo per evitare ogni sorta di errore. Può capitare, ma assai di rado, che per caso si generi un’istruzione sbagliata, seppure in routine di scarso rilievo, che non comprometta l’integrità del sistema che è salvaguardata da millenni, e ha resistito ad attacchi e attentati di ogni sorta provenienti dai più disparati e disperati gruppi caotici. Un errore, però, un errore insignificante, si generò proprio mentre il gruppo di pellegrini stava arrivando all’ultimo grado della corda, una minuscola disfunzione nel database dell’archivio, in una routine considerata di quinto livello, un livello per il quale non sono previsti i controlli più rigorosi. Si aprirono le pesanti e smisurate porte, senza un cigolio, senza sforzo apparente e si avvicinò il ciambellano, circondato da un gruppo di automi guardiani, che con gesto solenne, ma cortese, invitò il Terrestre a seguirlo all’interno.
La Sacerdotessa Madre, minuta e diafana, quasi trasparente, era al centro della sala, vasta da contenere un’astronave. Era sospesa a una certa altezza dal pavimento, sostenuta da invisibili e delicate forze. Il Terrestre arrestò il suo trasportatore ad una certa distanza da lei e si inginocchiò portando la mano al petto, capo reclinato, in attesa, il bauletto accanto.
«Alzati, Terrestre» lo invitò la Sacerdotessa, e la sua voce, un sussurro appena, era perfettamente udibile in ogni angolo della sala, senza eco. Quando si fu rialzato «Mi dicono che sei l’ultimo del tuo popolo. E’ vero?»
«Sì, Veneranda Madre, è vero. Siamo rimasti per lungo tempo in due, ma la mia compagna è mancata da un anno. Ora sono io l’ultimo»
«Qual è il tuo nome, Terrestre?»
«Ha importanza, Veneranda Madre? Da chi dovrò distinguermi, ora?»
«Comprendo la tua amarezza, Terrestre, giacché desideri essere così chiamato, ma il tuo non è il primo popolo che manca. Guarda questa sala, fu iniziata da mani estinte da milioni di anni. I popoli hanno vita, come gli individui, nascono, maturano, chi più a lungo, chi meno, ma un giorno muoiono. Altri popoli nascono e si evolvono in loro luogo, secondo leggi che solo l’Immenso conosce. Ma sai bene, Terrestre, che l’Immenso non dimentica, né i popoli né i singoli individui. So che ciò non risarcirà la tua perdita, ma mi auguro consoli il tuo animo.»
«Sia fatta la volontà dell’Immenso, Veneranda Madre, ma il mio animo sarebbe meno esacerbato se non fossi consapevole che non fu la volontà dell’Immenso a decretare la nostra fine, quanto la scellerata condotta dei nostri avi sciagurati.»
«Conosco. So che gli umani non si mostrarono riconoscenti all’Immenso per il prezioso dono della Terra, e che lo sciuparono ingrati.»
«Così fu, Veneranda Madre. E noi, peregrini su altri pianeti, lontani dalla nostra casa ormai inabitabile e infuocata, per millenni abbiamo maledetto l’insensatezza dei nostri padri. Per millenni abbiamo sognato di ritornare sulla Terra ma, come ben sai, il nostro popolo si è assottigliato sempre più col passare del tempo. Elementi forse non conosciuti del nostro Pianeta, elementi non presenti nelle atmosfere sintetiche per noi ricreate altrove, hanno reso sempre più sterili le generazioni che si succedevano. Sino a che siamo rimasti solo in due. E ora solo io, l’ultimo dei Terrestri.»
Si fece silenzio nella grande sala, un silenzio rispettoso e partecipe che fu interrotto, con voce dolce, dalla Sacerdotessa Madre.
«So che hai un dono per me, Terrestre…»
«Sì, Veneranda Madre – l’uomo si riscosse dal suo breve torpore, si chinò verso il bauletto e lo sollevò – Eccolo, il lavoro di innumerevoli generazioni di esuli. Tutte le nostre fortune, tutto il tempo che ci è stato concesso, tutti i nostri sforzi sono qui, Veneranda Madre. Abbiamo racchiuso in questo scrigno tutto il sapere che siamo riusciti a raccogliere sul popolo della Terra. Non tutti, invero, furono dei folli incuranti e sprezzanti il futuro. Avemmo artisti, filosofi, scienziati, pensatori. Tutto ciò che ci è stato possibile raccogliere è qui, tradotto nei principali idiomi della Galassia, memorizzato in indistruttibili celle di cristalli di santeno, per acquistare i quali abbiamo devoluto tutte le nostre risorse. »
«Ti ringrazio del tuo dono, Terrestre. Vi siete mostrati figli migliori dei padri. Custodiremo qui nel Tempio questo scrigno, nei nostri archivi, perché vi sia sempre memoria del tuo popolo.»
Ad un cenno della Sacerdotessa, lo scrigno si sollevò e, scivolando nell’aria, fu diretto verso un lato della sala, là dove si apre un passaggio secondario che porta agli edifici di servizio. Superata la parete, lo scrigno continuò per un lungo cunicolo, sospinto e sorretto da atmosfere compresse, sino a quando giunse alla stazione di controllo dell’archivio dove sarebbe stato protocollato mediante un’incisione indelebile. E fu in quel momento che la disfunzione, del tutto insignificante per il generale funzionamento del Tempio, si manifestò, generando una differenza tra il codice inciso sullo scrigno e quello, che avrebbe dovuto essere uguale, memorizzato nei banchi di memoria dell’archivio.
«E ora, Terrestre, cosa intendi fare? Puoi fermarti qui nel Tempio, se lo desideri, sino a quando l’Immenso ti donerà la vita. »
«Ti ringrazio per l’offerta, Veneranda Madre, ma preferirei ricongiungermi al mio popolo, e alla mia compagna.»
«Come preferisci, Terrestre. Verrai condotto nelle nostre stanze del sonno e presto rivedrai i tuoi. E non passerà molto che anche noi ci rivedremo, nella gloria dell’Immenso. Fa’ buon sonno, fratello Terrestre, e possa l’Immenso accoglierti benigno».
L’uomo si inchinò ancora e si avviò, premurosamente diretto e scortato, attraverso una moltitudine di edifici e costruzioni, verso una delle stanze del sonno compatibili con la fisiologia umana. Si distese su un comodo giaciglio e gli vennero proposte immagini e suoni dolci della sua Terra. Immagini che aveva visto innumerevoli volte e che conosceva a memoria, e che raccontavano un mondo che non aveva mai visto.
Lo scrigno, mentre scorrevano nella mente del Terrestre visioni di tramonti su coste intatte, fu diretto non verso il cunicolo ad esso destinato dal codice memorizzato dai banchi ma, passando attraverso gli innumerevoli rilevatori che verificavano il codice che recava inciso, terminò la sua lunga corsa in una collocazione assai differente da quella stabilita in origine. Non era infatti, come previsto, collocato a fianco dell’estinto popolo dei fiori poeti di Stara, ma vicino a quello dei mai rimpianti vermi cannibali di Durti, in un angolo dell’archivio dove nessuno, per quanto ricercasse a lungo, avrebbe mai potuto riconoscerlo, neanche un ipotetico studioso di paleontologia a cui potesse sorgere, nei successivi millenni, il desiderio di effettuare una ricerca sul morto Pianeta Terra e sui suoi antichi abitanti.
Una fiala di calmante era già stata delicatamente iniettata nelle vene del Terrestre, preludio ad un quieto sonnifero a cui poi sarebbe seguita una sostanza letale che, rapidamente e dolcemente, l’avrebbe riportato tra i suoi. I riflessi si facevano meno pronti, all’avanzare del sonnifero nel suo organismo, e intanto sognava il mare, e le onde che lentamente, molto lentamente, seempre piùù leentaameeente accaaarezzaaavaanooo laaa spiaaaaa…

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