CAPITOLO I
«Dov'è? Dov'è? Tiratelo fuori! Gli devo mangiare il cuore!».
Gli abitanti dell'insula, prudentemente, si fecero da parte lasciandolo passare.
«Dov'è?» continuava ad sbraitare, paonazzo, con gli occhi spiritati e una lama scintillante nella destra. Non ricevendo risposta, si lanciò verso la scala, in fondo al buio corridoio. Ma non aveva fatto tre passi che cadde a terra, battendo pesantemente il sedere sul pavimento: era una casa popolare, figlia della speculazione, e gli scalini erano solo apparentemente orizzontali.
«Dov'è?» urlò ancora a pieni polmoni e le fragili pareti dell'insula ne tremarono. Ripartì su per la scala (facendo un po' più d'attenzione) e arrivò al secondo piano dove si scontrò in pieno con l'acquaiolo spargendo il contenuto di due anfore piene.
«Oh no, l'acqua» gemette affranta una donna che aspettava di lavarsi dalla sera prima.
«Dov'è?» le gridò in faccia l'invasato brandendo il coltello.
«Ma chi?» gli chiese la donna.
«Dov'è quel figlio di bagascia che si diverte a scaricare la sua merda in strada mentre passo io? Dov'è? Datemelo o faccio desolazione!».
Lì accanto, una bambina ruminava una focaccina e, senza interrompersi, puntò l'indice verso l'alto. L'uomo ruggì di soddisfazione e si lanciò verso la nuova rampa di scale.
«Dov'è?» urlava ancora mentre irrompeva nei corridoi urtando le persone che incontrava. E così, di scala in scala e di minaccia in minaccia, arrivò al quinto piano, e lì si arrestò davanti ad una porticina più dimessa delle altre (che pure non erano certo quelle di Troia). Ansimava e assaporava i momenti successivi: immaginava budella sparse, sangue, occhi cavati, e ciò lo riempiva di gioia.
Finalmente aprì la porta urlando «Ti ammazzo, verme!».
L'attendeva la serenitas.
Incurante, un giovinotto glabro passeggiava su e giù per la stanza reggendo in mano un rotolo. Ogni tre passi si fermava, alzava gli occhi al cielo e declamava, ad alta voce, un verso. Era l'Iliade. «Ti ammazzo, figlio di bagascia!».
Ma il giovinotto, assorto «O sciocco, o Menelao, perché ti affanni così per costoro?».
«Ti crocifiggo! Ti farò sbranare dai leoni. Anzi: ti sbranerò io stesso!».
Ma come se nulla fosse: «Chi sei tu, nobilissimo tra gli uomini mortali? ».
L'ossesso, con un accenno di perplessità: «Guarda, che io ti sventro».
«..Disse così pregando, ma Pallade Atena fe' cenno di no... ».
Ormai dubbioso: «Ma lo sai che i leoni hanno fame?».
«Misero, il tuo coraggio t'ucciderà, tu non hai compassione del figlio piccino, di me sciagurata..».
L'ossesso abbassò il braccio. «Ehi, verme, mi ascolti?».
Finalmente il giovinotto incrociò sorpreso il suo sguardo.
«Mi perdoni, posso fare qualcosa per lei?» domandò attonito.
«Sì, morire tra atroci tormenti!».
«Mi scusi, non comprendo».
«Non comprendi? Non comprendi, verme? Non sei tu quello che per la terza volta in questa settimana mi ha svuotato in testa il vaso? Eh? » e indicava esasperato la tunica chiazzata qua e là di macchie puzzolenti.
Per un attimo il giovane restò paralizzato dallo stupore, passando lo sguardo dai rotoli a quella laida tunica. Poi, gettati i rotoli in un angolo si precipitò ai suoi piedi. «Oh, Giove, che sbadato. Che sbadato! Quando sarà che le Muse mi lasceranno vedere dove metto i miei passi? Quando? Oh Giove! E' giusto: merito la morte. Subito!» e tentò di afferrare il coltello che pendeva ormai floscio ai lati dell'ossesso.
«Ma lascia stare!» gli gridò l'uomo allontanando il braccio.
«La prego! La prego! Devo morire! Non posso vivere oppresso da tale vergogna. La scongiuro!» e affannosamente tentava di strappargli dalle mani il coltello.
«Ma sta' giù! Tu devi essere pazzo!».
«Sì, sono pazzo: le Muse mi hanno invasato, infatti. Ma, ovviamente, merito ugualmente la morte. Mi getterò dalla finestra!».
E già stava dirigendosi a passo di carica verso il pertugio aperto sulla strada quando l'uomo lo trattenne «Ma fermati, per Ercole. Fermati!».
Calò il silenzio, rotto solo dai singhiozzi del giovane che ripeteva «Devo morire, devo, devo..».
L'ossesso lo guardò con disgusto: «Ma finiscila... E sarebbero questi i poeti?... Parassiti... Per forza che poi decadiamo...».
Il giovine, aggrappato disperato ai fianchi dell'ossesso, era nel frattempo scoppiato in lacrime. Lasciandolo ricadere per terra, a rotolarsi sul pavimento tra le lacrime, l'ossesso uscì dalla stanza. Ma prima di varcare la soglia «La prossima volta fai più attenzione» gli intimò con un residuo di tono minaccioso. «Parassiti...» ripeté lungo le scale e i corridoi.
«Per Ercole, rieccolo! - lo accolsero gli abitanti dell'insula vedendolo ritornare - Chiudetevi dentro!». Ma l'uomo, ormai sovrappensiero, non fece nemmeno caso a tutte quelle porte che si richiudevano al suo passaggio.
E passarono alcuni minuti prima che a quella porta del quinto piano bussasse ancora qualcuno.
«Chi è?» chiese il giovane all'interno. In quei minuti l'espressione del volto s'era fatta più sicura.
«So' io, so' io: 'n te preoccupa'».
Entrò un ragazzo robusto e massiccio.
«Certo ch'era incazzato mica male - cominciò - c'ho avuto quasi strizza a fregaje la borsa mentre saliva le scale. C'aveva 'n cortello...».
«L'ho visto, l'ho visto...Dai, tirala fuori».
Il ragazzo robusto si cavò una borsettina di cuoio, con un temperino tagliò i legacci e versò il contenuto per terra.
«Du' sesterzi: 'mortacci che pezzente. Ma nun m'avevi detto che era uno che pisciava sesterzi?».
«E lo è. Evidentemente gira senza soldi.»
«Anvedi che spilorcio. Ma dico io, ma che fine faremo se manco i ricchi girano co le svanziche?»
Il giovinotto glabro passava e ripassava tra le dita le monetine.
«Con queste nemmeno mangiamo in una taverna dell'Esquilino.».
«Magara: è già tanto se se cuccamo du' focacce de farro...».
Trascorsero alcuni silenziosi minuti al termine dei quali il giovane robusto si alzò stizzito esclamando «Eutro', io me so' rotto le scatole.».
«Calma, Gitone. Oggi è andata male, ma domani sarà diverso..».
«Ancòra. Domani... Sè... Oggi intanto me stavo a pija 'na puncicata. E pe' che? Pe' du' baiocchi che li mortacci loro..».
«Gitone, calma. ».
«Carma 'n corno, Eutro'. È ch' avemo toppato tutto, fin dar principio.».
«E cosa avremmo dovuto fare?».
«Qualunque artra cosa. Dasse ar rock, pe' esempio.».
«Al rock?».
«Regolare.».
«Ma perché, tu sai suonare?» chiese stupito Eutropio.
«Ma che c'entra? Che c'entra, dico io. Ma pecché, i Nirvana sapeveno sona'? No, dico, ma tu te ricordi che diceva er Cobaine quattr'anni fa? Er rock è morto. Cioè è defunto. Ce semo solo noi de Seattle, noi semo la fine del rock, noi semo la su' morte, pecché cioé, vedi, noi a momenti manco sapemo sona' ma c'avemo 'na rabbia dentro che manco to' sto addi'. Cioé tutto è morto, disperazione, desolazione, morte de qua e morte de là. E poi te fanno 'n disco. Bleach.».
«Cos'è? Non ti piaceva?».
«No anzi, solo che se chiamava così. Bè 'sto disco vende na cifra tra li pischelli e allora li discografici ce penzeno: ma voi vede' che er grunge je l'ammolla? Provamo, se dicono. E i Nirvana ce fanno Nevermind, che te vende mijoni de dischi. E allora er grunge de qua, er grunge de là, tutti che te stanno a di' bè, certo, 'sto grunge, li modaioli de tutto er monno che se sdruciono a tunica e te dicono cioé, vedi, io so' grunge. E li Nirvana dicevano de nun sapé sona', Eutro'. Capisci? E noi pe' du baiocchi c'arimediamo pure na puncicata!».
E, nel pieno del furore, Gitone prese la borsetta vuota e la scagliò fuori dalla finestra.
«Tocca svorta', Eutro', me so' rotto de fa' er pezzente.».
Nel gridar questo Gitone s'era gettato contro il muro tempestandolo di pugni quando, dopo qualche diretto, si fermò. «A Eutro', ma nun senti quarcosa? Come 'na vibbrazione..».
«E' vero! - confermò Eutropio - Le pareti tremano. Un terremoto?» .
«Un teremoto? Scappamo, Eutro'».
E già s'erano lanciati verso la porta quando questa si spalancò rombando sui propri cardini. Riapparve l'ossesso, il pugnale nella destra e la borsetta nella sinistra.
«Ma io vi squarto! Vi sbrano!».
Sospinti da Eolo, Gitone ed Eutropio schizzarono giù per le scale, i corridoi, le scale, ancora i corridoi e ancora le scale, seguiti dalla voce che urlava «Vi sbrano!» a cui si mischiava un altra: «L'affitto! Mi dovete una settimana d'affitto!»
Col cuore in gola si ritrovarono in strada: era affollata, a quell'ora del mattino.
«E ora?» chiese Eutropio affannato.
«De là, de là» gli rispose Gitone additando la strada che portava ai Fori.
Imboccarono un vicolo in discesa e continuarono a correre per lunghi minuti, pestando i piedi ai commercianti, urtando visitatori e proviciali fino a che non arrivarono in uno slargo dove si fermarono per prender fiato. Dell'ossesso nessuna traccia.
«E adesso che facciamo?» ansimò Eutropio. La lunga corsa li aveva stremati: erano inzuppati di sudore. «O Giove - si lamentò esaminando costernato la tunica - questa sera puzzeremo come maiali.».
«Potemo anna' a le Terme. Oramai ce semo quasi.», e, con lo sguardo, Gitone indicò le Terme che sorgevano nei pressi dell'Anfiteatro.
«Ma ce li hai ancora i due sesterzi?».
«Tranquillo: e quanno me scappano. Sù, annamo, so' solo du' assi.»
Non era ancora l'ora di punta, e le sale erano ancora in gran parte deserte. Pagarono i due assi d'ingresso e si diressero, come d'abitudine al calidarium.
E lì, depressi, sconsolati e (soprattutto) con solo un sesterzio e due assi nella bisaccia, si sedettero muti addossati ad una parete. Meditavano sulle loro sventure, e si sentivano perseguitati dalla sorte: per quanto avessero più e più volte offerto doni a Mercurio, il Fato li condannava a restar poveri circondati da altrui ricchezze. Per un'ora commiserarono in silenzio le loro disgrazie sudati e investiti da vampate di calore, quando «Gitone - disse infine Eutropio - io non resisto più. Passo al tepidarium».
Gitone annuì con un cenno del capo. Figlio di gladiatore, aveva muscoli e resistenza maggiori del suo amico letterato.
Eutropio si avvolse in un telaccio di lana ispida e ruvida e s'incamminò verso il tepidarium non accorgendosi di essere seguito dal borioso Lucilio, quel giorno in compagnia di un meraviglioso fanciullo della Dalmazia. S'era appena seduto su una panca cominciando a respirare quando, alzando gli occhi, vide davanti a sé la sua sagoma. Otto ore di palestra e giochi al giorno. Unto nell'olio come uno storione del Tevere poco prima di finire in padella, sguardo sfottente di un Aiace Telamonio.
Lucilio quel giorno non aveva ancora partecipato a nessuna rissa. «Ignoravo - cominciò - che alle Terme oggi potessero entrare anche i pezzenti.»
Lo schiavettto dalmata sorrise, compiaciuto di tanta arguzia. Ma Eutropio, troppo intento a sudare, non lo degnò nemmeno di uno sguardo anche se, forse, ne sarebbe valsa la pena.
«Tessuto prezioso. - continuò Lucilio - Porpora, vero? Degno di Aracne».
Il dalmata scemo non si trattenne più e cominciò a sghignazzare come se avesse finalmente ascoltato la battuta più divertente dell'Orbe.
«Cosa vuoi da me?» chiese Eutropio, ormai rassegnato all'inevitabile.
«Ti piace l'ultimo disco di Madonna, pezzente?» provocò Lucilio,.
«Non l'ho ascoltato».
«Non l'hai ascoltato?» urlò Lucilio colmo di sdegno.
«No» rispose Eutropio.
«Ah no, eh? E cosa ascolta il signor pezzente? Sentiamo, sentiamo..».
Pregustando la rissa imminente s'era, nel frattempo, radunata una folla ansiosa di assistere ad un qualche fuori programma: quel giorno, il Circo era chiuso.
«Tante cose - sospirò Eutropio - I Morphine, per esempio.».
«I chi? E chi sono? Tu li conosci?» chiese retoricamente Lucilio al dalmata scemetto. (Figuarsi se questi poteva averli mai sentiti nominare).
«E chi sono, di grazia, questi Morphine?» chiese ancora Lucilio fingendo un sincero interessamento.
Eutropio abbassò la testa mormorando «Lascia perdere. Tanto è inutile.».
«Inutile? Oh bella! E perché mai?».
Eutropio scosse la testa, ma Lucilio gli afferrò il mento (aveva le dita forti) e cominciò a scuoterlo.
«Parla, pezzente! Chi sono questi Morphine?».
«Ma cosa t'importa? - protestò Eutropio - tanto non ti piacerebbero. Tu ascolti Madonna...».
«Cosa vorresti dire? Che sono dei falliti come te?».
«Ma quali falliti...Figli d'Apollo piuttosto. Ma perché mai dovrebbero piacere ad uno come te i Morphine, un gruppo capace di comporre canzoni più calde di quel calidarium? Come puoi tu - Eutropio s'era divincolato dalla stretta - come puoi tu apprezzare il suono d'un sax, tu che solo apprezzi le buccine sfiatate dei pretoriani? Come puoi ancora commuoverti ascoltando una voce degna d'Erato, tu che ascolti gli squittii di Madonna e ti paiono degni? Non puoi danzare ascoltando i Morphine, puoi solo chiudere gli occhi e pensare. Ma sei capace tu di far questo? Sei capace di ragionar di filosofia? No, e allora, perché mi perseguiti?». E nel dir questo (con gesto piuttosto teatrale, a dir la verità) Eutropio aveva raccolto il suo panno e, sdegnato, aveva voltato le spalle diretto all'angolo più lontano del tepidarium.
Lucilio per un po' rimase assorto, pensando alle parole d'Eutropio. Poi una consapevolezza nuova e diversa gl'illuminò il volto.
«Cosa vorresti dire? - urlò - Forse che non sono un filosofo?».
E non aveva terminato di pronunciare sofos che già s'era scagliato su Eutropio con l'intenzione di applicare una nuova teoria appresa poche ore prima in palestra. L'afferrò per il collo e il torso e lo scagliò a terra.
Si risollevò il morale degli astanti: «Scommetto venti sesterzi che lo ammazza». «Accettato».
Rovinati entrambi sul marmo del pavimento, Lucilio fece partire un diretto (subito seguito da un altro). E già stava per mettere in atto una complessa figura di strangolamento sino ad allora praticata solo in potenza, quando flebile e disperato, Eutropio riuscì a gridare uno sfiatato «Aiuto!».
Per i primi attimi non s'udì nulla fuorché il respiro affannoso dei contendenti e degli scommettitori, ma poi, si narra, non fu maggiore, il rombo che accompagnava le cariche del Battaglione Sacro di Epaminonda Tebano di quello che s'udì provenire dal calidarium.
«'Mbé?» tuonò Gitone, che apparve sulla porta del tepidarium, i muscoli oliati dal sudore.
«Però» commentò con disappunto un tipo che aveva scommesso su Lucilio.
Gitone era figlio di un reziario, un reziario affrancato da Cesare. Il dalmata non costituì un problema: fu visto volare lontano, dalle parti del frigidarium. Non pago, s'avventò su Lucilio, ancora in procinto di tradurre dalla teoria alla prassi ciò che aveva appreso su quel tipo di strangolamento. Gli passò unaa mano attorno al collo, con l'altra gli sollevò le gambe e se lo caricò sulle spalle.
Quindi, novello Enea, con quel fardello s'aggirò nel tepidarium cercando un posto in grado di ospitarlo degnamente. Scorse una panca marmorea e vi si avvicinò. S'udirono degli scricchiolii inquietanti (oltre a qualche «Mi devi venti sesterzi»). Poi, depositato il carico, accorse verso Eutropio.
«A Eutro', ché, stai bbene? Cioé, ma io l'ammazzo a quelo...».
«Lascia stare, Gitone - gemette Eutropio - andiamo via, ti prego».
«Sì, andate, pezzenti - rantolò Lucilio - Andate da Accipio Mentula: mi dicono che vuole assoldare dei pezzenti. Andate..».
Gitone s'era già scagliato verso di lui con l'intento di chiarire in maniera definitiva il suo punto di vista quando Eutropio lo trattenne per il braccio implorando «Andiamo via, Gitone. Andiamo via».
Gitone ubbidì molto a malincuore: si spogliarono e uscirono diretti al Viminale. Camminavano silenziosi, guardando a terra. Si addentrarono tra la folla della Suburra, tra i mercanti di spezie, stoffe e schiave della Suburra.
E infine, dopo molto camminare «Cioé - chiese Gitone - Tu sai chi è st' Accipio Mentula?»
«Un impresario teatrale» gli rispose Eutropio, con la voce ancora provata.
«A me er teatro nun me piace» sentenziò Gitone. «Cioé, è 'na palla che nun finisce più» qualificò. Eutropio annuì poco convinto, ma non si sentì di replicare, vuoi per la spavento che ancora lo scuoteva, vuoi per non litigare con l'amico che l'aveva appena salvato.
Arrivarono in cima al Viminale e s'incamminarono, senza meta, verso l' Esquilino.
«Ma cioé, ma voi mette cor circo? Ma te ce sei mai stato? - gli occhi di Gitone s'illuminarono - Ma cioé, hai mai visto i Verdi? Li maggici Verdi?»
Eutropio scosse la testa vago, come assorto in ben altri pensieri ma, in quel mentre, si fece loro incontro un uomo che gesticolava animato.
«Fratelli, convertitevi al Cristo. La fine è vicina» annunciava a gran voce.
«La fine de che?».
«Fratello, la fine di Babilonia. Questo è l'ultimo giorno.»
«Ma l'urtimo giorno de che? Me pari matto.».
«Oh no, Fratello.. ».
«Innanzitutto so' fijo unico... Cioé, credo...».
«Fratello, io ti annuncio l'evanghelion del Cristo morto per i tuoi peccati e poi risorto.».
«Ma alora te se' matto sur serio. I miei che? Peccati? - Gitone si volse verso Eutropio - Ma te che hai studiato, cioé, ma te lo capisci che vo' questo?».
Ma prima che Eutropio avesse tempo di rispondere: «Fratelli - proclamò l'uomo allargando le braccia e con lo sguardo rivolto al cielo - io sono un testimone di Jahvé e vi dico: convertitevi finché siete in tempo. La vita è breve!».
«Ma li mortacci..» sussurrò Gitone accarezzandosi il basso ventre e trascinando Eutropio per un braccio. Accelerarono il passo, sperando di seminarlo nella folla, ma l' uomo li inseguiva indefesso: «Verrò a trovarvi per parlare. Una mattina di un giorno di festa, sul presto.».
«Nun t'azzarda'» lo minacciò Gitone mentre passavano davanti ad un bordello. L'udirono esclamare «Ma quante Maddalene da convertire!» e lo persero di vista.
Finalmente soli, alle pendici del rinato Esquilino.
«Cioé, Eutro', li Verdi so' la mi' vita. Te ce devo porta', ar circo. Te se piazzano là, li Verdi (maggici) ar nastro e te vedi er mossiere e alora te senti 'na cosa dentro, cioé, è 'na fede, veramente. Sur serio, te ce devo porta'. Credo che te ce piacerebbe...».
Eutropio annuì ancora, distrattamente. Continuarono la camminata in silenzio, costeggiando la vecchia villa di Mecenate risplendente dei marmi Apuani. Passarono accanto ad altre ville, al cui interno si beava della vita il padrone, immerso nei portici e in una rendita di cinque milioni di sesterzi l'anno.
«Quanto abbiamo nella borsa?» chiese Eutropio.
«Cioé, voi 'n carcolo esatto o aprosimativo?».
«Approssimativo».
«Un sesterzio e du' assi».
Eutropio alzò scoraggiato gli occhi al cielo. «E il calcolo esatto?».
«Pure».
«Capisco».
Si fermarono un momento per riposare. Erano accanto al muro di cinta di una ricca villa: al di là del muro, in un giardino fiorito nel quale scorazzavano decine di pavoni, passeggiava, con aria tranquilla e sovrana, una schiava egizia. Eutropio e Gitone non avevano mai visto una Dea, ma non dubitarono per un solo istante che se mai un giorno l'avessero vista l'avrebbero trovata somigliante a quella egizia. Avvolta in veli trasparenti, ne potevano sentire, seppure a distanza, il profumo, in estasi ne ammiravano i capelli, le caviglie che una tunica aperta in fondo permetteva di scorgere. Intorno, per un momento, sembrava essersi chetato il frastuono della città: udivano solo canti d'usignoli e gli spruzzi di cento fontane. Prima che potessero vincere il loro imbarazzo e rivolgerle la parola, l'egizia, dopo aver accarezzato con la sua candida mano la testolina di un deferente pavone rientrò in casa, senza nemmeno essersi accorta della loro esistenza.
«Cioé - sospirò Gitone - ma tu ce lo sai 'ndo abita st' Accipio Mentula?».
La villa di Accipio Mentula sorgeva sull'Aventino, a due passi dal tempio di Diana e, per raggiungerla, Eutropio e Gitone avrebbero dovuto attraversare mezza Roma. Ancora turbati da quella visione si misero in marcia, pazienti e silenziosi, covando nell'animo un sordo rancore nei confronti del mondo e delle sue ingiustizie. Discesero le ripide rampe dell'Esquilino, rientrarono nella Suburra e fu solo quando arrivarono nei pressi del Mercato che Gitone, finalmente palesò il rovello che lo teneva impegnato: «Di', Eutro', ripensandoci, forse ce so' tajiato per teatro. Che ne dici? Me ce vedi a fa' er drammatico?».
Quel giorno la folla per le strade era immensa, un fiume grande quanto il Danubio e l'Indo che si riversava verso i Fori. Moltitudini ostacolavano il loro cammino: commercianti che esponevano le loro merci ad ogni passo, provinciali che avevano deciso di venire a Roma almeno un giorno nella loro vita e avevano deciso proprio per quel giorno, pattuglie di pretoriani che giravano sbattendo i calzari chiodati sui piedi dei passanti, lettighe di ricchi liberti preceduti e seguiti da cortei di schiavetti urlanti ai quattro venti il nome del padrone, e una caterva di altre migliaia di persone componenti, a vario titolo, il Nobile e Glorioso Popolo Romano.
Più d'una volta Eutropio e Gitone si persero nella folla, e più d'una volta Gitone si trovò a chiedere «Che ne dici? Che, ce l'ho 'r fisico drammatico?» a qualcuno che credeva fosse Eutropio e in realtà era un qualsiasi che generalmente rispondeva «E a me che me ne frega?».
Arrivarono finalmente nei pressi dell'Anfiteatro.
«Cioè, vedi, Eutro', in fondo me ce vedo a fa' er raffinato, a gira' pe' li teatri e recita' co' tutti che te stanno a vede e te dicono 'Anvedi quant'è drammatico quer Gitone. Cioè.'. Capisci, Eutro'?».
Eutropio annuiva paziente, cercando di risparmiare il fiato. Gitone, invece, entusiasmato dall'idea, ne aveva da vendere.
«Solo che me ce devo fa' 'na curtura, te che dici Eutro'?».
Superato un luogo particolarmente affollato, e vista un'invitante panchetta, Eutropio si fermò a riprender fiato.
«Alora, che ne dici, tocca fasse 'na curtura?». lo incalzò Gitone.
«Probabilmente sì».
«Dici, eh? Cioè, te penzi che me tocca impara' a legge e scrive?».
«Non è da escludere, sai?».
«Lo supponevo... Ma di', nel frattempo, che devo fa? Cioè, te che hai studiato, me poi da' quarche suggerimento? Cioè, che fa 'na persona corta? 'Ndo va? Che se mette? Che musica sente?».
Eutropio si strinse nelle spalle. «Ci sono tanti dischi che potresti ascoltare. L'ultimo di Anton Fier potrebbe andare.».
«Ah sì? E chi è?».
«Anton Fier è un batterista. Era nei Golden Palominos, un gruppo a sua volta del giro dei Material. Insomma, era l'avanguardia di dieci anni fa. Adesso ha fatto questo disco da solo, in compagnia di Bill Laswell e di altri.».
«Te dici che potrebbe servi'?».
«È solo un esempio..».
«Ma, cioè, è 'n disco fico?»
«A me piace molto».
«Ma allora, se è così fico ce venderà 'n sacco».
«Temo proprio di no.».
Un dubbio fece capolino nello sguardo di Gitone. «No? Ma allora a che serve facce er colto?».
Eutropio non rispose e, con un sospiro si rialzò e riprese il cammino. Passarono sotto l'acquedotto e poi davanti al Circo Massimo («cioè, qua sì che me sento a casa»), salirono sull' Aventino e, finalmente, arrivarono alla villa di Accipio Mentula.
Alla porta un guardiano siriaco li squadrò con diffidenza e chiese cosa (accidenti) desiderassero. Eutropio s'inventò lì per lì che erano due autori e che desideravano sottoporre un progetto al grande Accipio Mentula.
«Mettetevi in coda» rispose brusco il siriaco indicando una composita turba di creativi che stazionava nella corte. Eutropio e Gitone s'inoltrarono e, pazienti, attesero il proprio turno.
Finalmente furono introdotti nell'atrio da un numida alto come l'Atlante (in quella casa, peraltro, non v'era uno schiavo indegno d'Ercole). Accipio Mentula era coricato su un lettino nel centro della stanza, accanto a lui un Germano con i capelli lunghi e un fisico che avrebbe reso felice uno studente di medicina. Sguardo poco sveglio, però. Davanti a loro un creativo di provincia. Parlava con un forte accento campagnolo. Reggeva tre pesanti rotoli che, quando il gelido Accipio gli diede facoltà di parlare, cominciò a srotolare.
Accipio Mentula era un uomo a sangue freddo: non rideva come tutti, chiudendo gli occhi e facendo Hahahah: lui sogghignava, con gli occhi ben aperti, e emetteva una sorta di Ha (pausa) ha (pausa) ha, con l'ultimo 'ha' spiritoso quanto una pietra tombale.
Il povero provinciale aveva appena cominciato a parlare quando Accipio lo immobilizzò con il suo sguardo di cobra: «Cosa vorresti rappresentare?» sibilò.
Spaventato, il provinciale cominciò a balbettare «Au..Au.. Au».
«L'Aulularia?» chiese Accipio suadente.
«Sì, l'Aulularia!» confermò rincuorato il provinciale.
Accipio proruppe in una risata delle sue, spargendo il terrore in sala.
«Plauto? Lo sentite? Plauto! E perché non Terenzio? O magari, perché no?, Sofocle!. - squadrò glaciale i presenti - Ha (pausa) ha (pausa) ha. ».
«Hahaha» provò il provinciale.
«Taci, bifolco! Taci!. », e, rivolgendosi al Germano, «Ma lo senti, cagnone mio, lo senti? Plauto!».
«Lo sento» grugnì il Germano lanciando al poveretto una di quelle occhiate che inchiodarono sul Reno le Legioni di Roma.
Il provinciale già si vedeva ad belvas quando Accipio, mutando espressione e tono di voce, invitò lui, nonché Eutropio e Gitone, a rinfrescarsi attingendo ad un cratere d'acqua ripieno di acqua fresca su cui galleggiavano petali di rosa. I tre postulanti riempirono i loro calici sotto gli occhi compiaciuti di Accipio che solo allora aveva cominciato a rivolgere la sua attenzione ai due amici e, in particolare, ai muscoli di Gitone.
«Dissetatevi pure, amici miei» invitò conciliante mentre i suoi occhi percorrevano il corpo di Gitone dall'alto in basso con lieve sosta al centro.
«Perché non passate domani al teatro di Pompeo? - propose Accipio dolcemente, con lo sguardo fisso su Gitone - Forse trovo qualcosa per voi.»
E per lunghi minuti si lasciò rapire dall'estasi della contemplazione. Ma si risvegliò, purtroppo, e i suoi occhi ritornarono a trafiggere il provinciale.
«Tu! Ancora con Plauto! Alle soglie del decimo secolo dalla Fondazione ancora osi propormi Plauto? E perché non Terenzio? Ha (pausa) ha (pausa) ha.».
Eutropio sorseggiava con cura l'acqua, sperando di scansare lo sguardo di Accipio (e i petali che galleggiavano nel bicchiere). Gitone, invece, masticava rumorosamente.
«Ma lo sai tu - riprese quasi gridando Accipio - quante persone vanno al circo ad ogni corsa?».
«'Na cifra» s'intromise Gitone.
Accipio si voltò sorridendo: «Una cifra. Delizioso..» e quindi, ritornando torvo sul provinciale, «E lo sai quanti riempiono gli anfiteatri ad ogni torneo?.».
«..N..Na cifra?... » tentò esitante il provinciale.
«Bifolco! Impara ad esprimerti! Migliaia! Decine di migliaia! E al circo centinaia di migliaia! E al teatro? Ma lo sai tu quante persone c'erano al teatro di Pompeo l'ultima volta che abbiamo rappresentato Sofocle? Lo sai tu?».
Il provinciale deglutì. «Non saprei... Forse migliaia? Decine di migliaia?».
Si dice che Stentore, dal cuore grande e dalla voce di bronzo, gridasse quanto cinquanta uomini; ebbene, dubito che avrebbe potuto superare l'urlo di Accipio. Si alzò, rosso in viso, congestionato, deturpando il pesante trucco che cominciava a colargli lungo le gote: «Imbecille, discendente di imbecilli e adoratore di Lari imbecilli! Migliaia? Decine di migliaia? Idiota! Certo, perché non centinaia di migliaia, al teatro, a veder Sofocle? Perché no? Ha (pausa) ha (pausa) ha. Idiota! CLXXVII erano, non uno di più! Capisci, bifolco? Il popolo vuole le corse, i gladiatori, le scommesse. E cosa può scommettere su Edipo? Che non andrà a letto con Giocasta? Imbecille! Ancora un Plauto, un Terenzio e il teatro a Roma chiuderà per sempre! - con gesto drammatico si avvolse nella tunica coprendosi il volto - E, soprattutto, chiuderò io. Ha (pausa) ha (pausa) pausa. E tu, cagnone mio - volgendosi al Germano - mi preferisci aperto o chiuso?».
«Aperto» grugnì il Germano.
«L'hai detto cagnone mio. Sic est!» e, riabbassando il lembo della tunica e scoprendosi nuovamente il volto «Addio amici - declamò solenne - l'arte mi chiama.».
Prendendo per il braccio il germano s'incamminò verso la porta in fondo alla stanza ma, prima di varcare la soglia: «Recatevi al Teatro di Pompeo - si rivolse ad Eutropio e Gitone - Passerete lì la notte. Dite che vi manda Accipio Mentula.»
«Il grande Accipio Mentula.» specificò il germano.
«Andate amici: andate. A domani!» e, con un ultimo cenno della mano, si congedò dalla loro vista.
Gitone era ancora intento a masticare i petali di rosa quando apparve il siriaco che bruscamente li accompagnò fuori dalla villa. «Forza ragazzi, andiamo. Forza: lo spettacolo è finito.»
Il giorno successivo, si risvegliarono a mattina inoltrata dopo una notte trascorsa nella foresteria del Teatro di Pompeo. Era un locale dotato di qualche stuoia, utilizzato spesso per dare ospitalità notturna al personale di fatica delle compagnie teatrali provenienti dalle provincie.
Usciti all'aperto, cominciarono a passeggiare sotto il portico del teatro, contemplando le centinaia di statue greche che l'adornavano. Gitone osservava tutto con aria molto interessata, quasi fosse un colto intenditore in visita. Ogni tanto si lasciava anche andare a qualche commento. «Bè, cioè, questo nun è male... Te che dici, Eutro'?». Eutropio in genere annuiva distratto. (Dinanzi ad un discobolo) «Bè, cioè, c'è che c'ha 'na forma che, 'nsomma, a volella di', vojo di' ce vedi 'a tenzione, che cioè me pare tutta storta e che te lo voja propprio tira' 'n faccia... (Davanti ad un Laocoonte) No pecché, vedi, 'ste bisce che cioè a me me parono uguali a dele funi e che t'abbrancano tutto e te sdrumano e che poi te ritrovi 'sto pathos che gridi tutto, cioè...».
Dopo qualche minuto di camminata, con Eutropio in silenziosa contemplazione.
«No, comunque, dimo 'a verità: è carino»
«Cosa?»
«Cioè, er teatro, ner complesso, vojo di', nun è 'r Circo e nemmanco l'Anfiteatro. Qui c'entreranno manco trentamila persone: voi mette coi centomila de l'Anfiteatro, pe' nun parla' dei ducentomila e passa der Circo? Cioè, Eutro', è 'na questione de' numeri, nun c'è discussione... o no?»
Gitone proseguì in silenzio la sua camminata lasciando in Gitone il dubbio di aver detto qualcosa che non si accordasse del tutto con l'immagine di persona colta che, dal giorno prima, tentava di accreditarsi.
Vedendo Eutropio alle prese con una Venere ellenistica, si mise al suo fianco e cominciò anche lui a contemplare la statua in religioso silenzio. Poi, ricordandosi di quanto aveva visto fare al Foro da un artista, s'avvicinò di due passi per vagliare un misterioso dettaglio. Guardò attentamente, e cominciò, col capo, a far cenni da profondo intenditore. Quindi si affiancò di nuovo ad Eutropio, in attesa.
Non durò molto: «Che meraviglia...» mormorò estasiato Eutropio.
«Bona, bona. Proprio bona» confermò Gitone convinto.
«Come hai detto?».
«Bona.. Cioè, c'hai ragione: sto' scultore je l'ammolla. L'Arte, cioè. Che t'ho da di', più la vedo e più me se rizza. Cioè, era n'artista..».
Rassegnato, Eutropio abbandonò la Venere e passò ad un Alessandro. «Vedi Eutro', a me me piaciono le cose toste, cioè energiche. Anche pe' la musica: nun riesco a regge le cose cerebrali e mosce. A me piace er tosto. Er rock duro, er grunge. Er metallo. Le cosi forti, insomma. Cioè, ma a te te piace l'urtimo dei Melvins?».
«Non l' ho ancora sentito..».
«Male, nun è er mejo che hanno fatto ma ce vale sempre la pena. Ma i Melvins, armeno, li conosci?».
«Così, di nome».
«De nome? Solo? Ammazza. So' fichi, l'ala darke der grunge. Cioè so' cupi, te mettono addosso 'na cosa, nun so, n' angoscia, 'na voja de di' :'mo' basta, mo' me butto da la Rupe Tarpea'. Cioè, so' darke, ma nun darke ner senso de li Joy Division: questi so' de' Seattle, e se sente. Cioè, nun fanno tante filosofie, questi ce vanno giù, pum pum, te pestano er cervello e basta. Cioè, a me me piaciono. Capisci, Eutro'? se te senti 'n disco de darke britannico tu ce stai lì e te dici «Mo' che faccio? Me suicido? O no?» E intanto ce pensi, ce mediti, te maceri: che devo fa' de la mi' vita eccetera. Co' li Melvins invece no: te te li senti, te suicidi e manco te stai a chiede perché. Cioè, so' fichi. A me me piaciono le cose forti..».
Gitone non riuscì ad ultimare le sue riflessioni perché, dall' entrata del portico s'era levato uno stridio di voci e suoni. Ragazzetti seminudi correvano agitandosi e ballando, annunciando a gran voce l'arrivo di Accipio Mentula. E dietro di loro, solenne, avanzava una lettiga portata sulle spalle da otto giganteschi schiavi numidi. Il portico s'affollò di attori, comparse, mimi e tecnici che accorrevano a salutare il grande impresario.
Lentamente la lettiga arrivò al centro del portico e, dolcemente, gli otto numidi la posarono a tera. Passarono alcuni minuti di rispettoso silenzio, sino a che, con sufficienza, s'aprirono le tendine, si riuscì a scorgere Accipio e s' intravide il possente schiavo germano. Aiutato da un valletto, Accipio si alzò a fatica, quasi regesse il peso dei destini del mondo.
«Salute, miei cari» sussurrò sollevando mollemente la mano.
«Salute a te!» esplosero decine di voci.
«È un giorno importante, questo» bisbigliò Accipio Mentula nel silenzio sepolcrale. «Questo nostro Prometeo deve risollevare le sorti del teatro a Roma. Lo sapete, vero, miei cari?».
«Sì, certo!».
Accipio sorrise malinconico, «Bene, tesori. Confidiamo in Apollo» e si congedò ritirandosi nelle sue stanze.
Passarono pochi secondi e il portico si svuotò nuovamente. Eutropio e Gitone s'aggiravano perplessi tra le statue quando una voce li richiamò dall' interno. «Voi due! Venite qua!»: era uno dei registi di Accipio. Con poche e brusche parole li informò del loro lavoro e, contrariamente a quanto sperava Gitone, non si trattava affatto di una parte nella rappresentazione di quella sera. Anzi, diceva il regista, tra non molto sarebbe arrivato il vero protagonista: un delinquente prelevato dal carcere. E il loro compito consisteva nel badare a lui fino alla fine dello spettacolo. Chiaro?
«Chiarissimo» dissero sul momento. Ma poi, quando quel regista ebbe girato l'angolo: «Ma li mortacci sua!» esclamò Gitone.
«Ma cosa pretendevi? - tentò di convincerlo Eutropio - Speravi che ti facessero recitare il primo giorno che metti piede in un teatro?».
«No, cioè. Però, insomma, tu hai visto come mi guardava ieri Accipio? Di' l'hai visto?».
«Sì che l'ho visto».
«Ecco, cioè io mi credevo che se fosse reso conto che c'ho 'r fisico drammatico. E invece te va a da' la parte a un delinquente. Cioè, sarà raccomandato. Sicuro. Cioè, nun è giusto».
E mentre Gitone proseguiva le sue proteste dall'entrata del portico si levò il rumore marziale di passi cadenzati: un gruppo di soldati scortava, incatenato, un tipo arruffato e peloso dallo sguardo fiero e risoluto. Da una porticina corse loro incontro il regista, parlò brevemente al decurione e chiamò Eutropio e Gitone. «Eccolo» disse semplicemente consegnando nelle mani di Gitone le catene che legavano il prigioniero. Poi, preso da mille preoccupazioni li lasciò e si ritirò nuovamente all'interno. I soldati, dal canto loro, esaurita l'incombenza, avevano già imboccato la via del ritorno.
Eutropio e Gitone cominciarono a studiare il prigioniero. «'Mazza che tanfo» commentò Gitone. Dall'aspetto pareva un capo barbaro. Forse un germano. Indossava una vecchia pelle lacera e sporca e, a parte qualche parola smozzicata, non parlava latino.
Si distese sull'erba, inspirando profondamente: da molto non sentiva l'odore dell'aria fresca. Gitone lo guardava torvo: «Cioè - chiedeva Gitone ad Eutropio - ma che c'avrà più de me questo qua? Che c'avrà?».
Trascorse così un monotono pomeriggio. L'unico che non dava segni d'impazienza era proprio il barbaro che, anche all'ora del tramonto, non distoglieva mai lo sguardo dal sole. Evidentemente gli era mancato per molto tempo.
E Credo che fosse più o meno l'ora decima quando le frecce di Cupido trafissero il cuore di Eutropio e lo lasciarono ferito e sanguinante d'amore. Da due ore, ormai, Eutropio e Gitone attendevano lo spettacolo appoggiati alle colonne del portico del teatro quando «Eutro' - chiese Gitone a bassa voce - ma quella lì è vera o è 'na visione?».
Eutropio, rannicchiato con la testa appoggiata sulle ginocchia, lentamente alzò il capo, lo volse nella direzione dello sguardo di Gitone, e non lo mosse più: quella creatura che avanzava verso di loro, splendente grazia e avvenenza non poteva essere umana, e nemmeno un semplice divinità minore, magari una ninfetta, ma solo Venere in persona. Solo lei, infatti, poteva avere quel portamento, quell'incedere maestoso e solenne che lasciò Eutropio e Gitone senza fiato e incitò al galoppo i loro cuori.
Ma la Venere non sembrava degnarli di uno sguardo. Si avvicinò invece al prigioniero che, non essendosi accorto di nulla, continuava a crogiolarsi al sole succhiando un filo d'erba. Lo guardò a lungo, sorrise (così cominciò la guerra di Troia) e, allontandosi senza dir parola, ritornò ad abbracciare un attore, ai piedi dell'inadeguata, in confronto a lei, statua di Venere.
Fu Gitone che interruppe, dopo molti minuti, l'incanto.
«Eutro' - chiese infine - ma tu lo vedi quell'attore?».
«Già» mormorò Eutropio.
«Ma cioè, seconno te quanto guadagna un attore?».
«Dipende - rispose mesto Eutropio - se è famoso può guadagnare parecchio: milioni, anche...».
«Mijoni?».
«Già».
«Ammazza» commentò Gitone ruminando invidia e impotenza.
«Cioè - riprese Gitone a ruminazione conclusa - se ce li avessi io i mijoni di sesterzi, lo sai le schiave che m'accatterei! C'hai presente l'egizzia ch' avemo visto in quella villa sull'Esquilino? Per Giove...mijoni!» e scrollò la testa, afflitto.
Dal canto suo, Eutropio s'era chiuso in un mutismo contemplativo, oppresso da versi di Saffo e Catullo e dalla visione della Venere lontana.
«Eutro'» lo destò Gitone al terzo tentativo.
«Eh?». rispose Eutropio sovrappensiero.
«Eutro' - continuò Gitone - cioè, ma se ce li avessi te i mijoni, te che ce faresti?».
Eutropio ci pensò, ma non gli venne in mente nulla che non avesse quella Venere come protagonista. Ma preferì mantenersi sul vago: «Non saprei... - farfugliò - Rotoli... un'intera biblioteca. E poi viaggerei: Atene, Delfi, Alessandria. E poi, vediamo (e intanto sbirciava la Venere), dischi, molti dischi. Ecco: rotoli, viaggi culturali, dischi.» assentiva col capo, quasi a convincere se stesso.
«Dischi? Puro a me me piacerebbe. I due dei Pentagram, per esempio. Li hai mai sentiti? Morté, potenti. Cioè, metallo. A te te piaciono i Black Sabbath de Ozzy? Te piaciono?»
«Abbastanza» commentò Eutropio che, a dir la verità, in quel momento non riusciva a concepire nulla di più duro di una cetra.
«A me me fanno sballà.»
Ma in quel momento, da una porticina laterale, avanzava molle Accipio Mentula. Si avvicinò a loro e cominciò a guardare il prigioniero. «Perfetto - commentò compiaciuto - È proprio il tipo ideale». E poi, girando lo sguardo e incontrando quello di Gitone (Eutropio, come s'è detto non aveva occhi se non per la Venere) «Ah, ma sei tu, bel cagnone» lo salutò dolcemente.
Gitone rimase un attimo sovrappensiero, pensando alla tattica migliore da adottare. Si risolse per il discorso diretto: «Impresa', ve volevo domanda', insomma, se io, cioè, se poi me ce date una parte puro a me?».
Accipio lo contemplò a lungo: «Ma certo, cagnone, che c'è una parte per te. Questa notte...Ha (pausa) ha (pausa) ha.».
Gitone si finse ingenuo «'Sta notte? Ma le rappresentazzioni nun so' de sera?».
«Certo, alcune. Altre si svolgono di notte. E con poco pubblico. Ha (pausa) ha (pausa) ha.».
Gitone pensò di cambiare tattica: aggiramento ai lati: «E vabbé, ma cioè io dicevo de 'sto dramma qua, 'sto Prometeo. Cioè, io speravo de recitacce, e invece vedo che pijate 'n infame. Cioè, quello che fa l'infame lo posso fa' puro io, giusto? C'ho o nun c'ho er fisico drammatico?».
Accipio rimirandolo attentamente: «Drammatico, dici? Forse... Ma perché non vieni da me questa notte. Studieremo il tuo fisico con calma ».
«Stanotte c'ho da fa'.».
«Non vieni?» chiese Accipio, conciliante come un cobra.
«No».
«Ha (pausa) ha (pausa) ha. ».
«Be?».
«Cosa?».
«Che c'è da ride?».
«Rifiuti?».
«No, cioè, sì.».
«Sei uno dei pochi, sai? Forse l'unico ancora vivo. Ha (pausa) ha (pausa) ha.».
Gitone tentò la resa onorevole. «Cioè, se nun potete facce recità, armeno pagatece pe' oggi.».
«Pagarti?».
«Regolare».
«Io? Pagare! - cominciò Accipio furibondo - Ma con chi credi di...». Ma s'interruppe di colpo, quando Gitone ormai riteneva ineluttabile lo scoppio della tempesta.
Accipio guardò Gitone, gli occhi ormai ridotti ad una fessura : «Sta bene, sta bene - sorrise a modo suo - Ha (pausa) Ha (pausa) Ha. (Gitone sentì un brivido nella schiena. Già cominciava a pentirsi della sua impudenza quando Accipio:) Ti propongo un patto. Ti va?» propose mellifluo.
«Se po fa'. Che è?».
«Ti do due possibilità: o cento sesterzi per il lavoro di oggi oppure ti giuro su Apollo che domani ti farò recitare la parte che oggi è del prigioniero. Cosa scegli?».
«Vojo fa' l'attore!» esclamò Gitone. Ma poi rabbuiandosi «Ma nun è che poi domani ve rimagnate 'a parola.»
«Io? Non credi alla mia parola?» si scandalizzò l'impresario.
«Bè, cioè».
«Ho giurato! Su Apollo! - rivolgendosi ad alta voce agli astanti - Avete mai udito che Accipio Mentula non abbia prestato fede ad un giuramento?»
«Mai!» tuonò la sua corte.
Accipio tornò a fissare Gitone: «Non temere: manterrò la mia parola. Ha (pausa) Ha (pausa) Ha.» e, glaciale come i venti degli Iperborei, rientrò nei suoi uffici.
Quando Gitone si fu assicurato che era ormai fuori portata cominciò a scrollare Eutropio destandolo dal suo colloquio con le Muse.
«Eutro', l'avemo fregato. So' 'n'attore!».
«Tu?».
«T'avevo detto che so tajato, che c'ho 'r fisico. È fatta Eutro', so' li mijoni.»
«Ma cosa devi recitare».
«Bè, nun lo so ancora: devo fa' 'a parte der prigioniero. L'impresario ha deto che io so ' morto ma morto mejo de lui e che da domani la parte sua me tocca a me. Basta che stasera vedo che fa': se è capace lui figurate io!».
Ormai mancava poco all'inizio della rappresentazione: il sole era tramontato e il pubblico cominciava ad affluire, mesto e annoiato. Era la millesima volta che il Prometeo veniva rappresentato e ormai la storia la conoscevano tutti: Prometeo che ruba il fuoco, Giove che s'arrabbia e lo lega ad una rupe dando ordine ad un'aquila di andargli a mangiare il fegato. E così per l'eternità. Una bella scocciatura, sia per il pubblico che (soprattutto) per Prometeo.
E anche, un po', per Gitone. Mentre Eutropio, ricercava affannosamente nel pubblico il volto della dea, lui, per tutta la durata della rappresentazione, rimase a seguire attentamente lo spettacolo, reggendo tra le mani le catene del prigioniero. Infatti, stranamente, nonostante il dramma (a giudicare dagli sbadigli del pubblico) volgesse al termine nessuno era venuto a chiamarlo per farlo entrare in scena.
Solo quando ormai era notte fonda si fecero finalmente vivi due robusti attendenti che presero le catene del prigioniero dalle mani di Gitone e lo trascinarono via. Gitone rivolse ad Eutropio uno sguardo interrogativo, ma non ebbero il tempo di porsi domande perché immediatamente dopo iniziò l'ultima scena.
Era quella dello strazio di Prometeo, già vista un'infinità di volte: gli schiavi che abbassano le luci, la voce fuori campo e le urla strazianti, gli applausi e tutti a casa. Ma quella sera, quando ormai il pubblico rassegnato già dormiva per metà, le luci si accesero. Apparve il prigioniero, legato ad una roccia, che guardava con occhi incerti la platea. Ma quando la voce fuori campo iniziò a narrare del giudizio di Giove, quegli occhi mutarono espressione: dal lato del palco era sbucato un orso che si avvicinava ruggendo al prigioniero. E mentre la voce narrava di come l'aquila straziasse per l'eternità il fegato di Prometeo, l'orso si avvicinò al prigioniero e, con una zampata, interpretò perfettamente la parte dell'aquila.
Non ci fu bisogno, quella sera, delle urla simulate: quelle del prigioniero andavano benissimo. Del resto, nessuno le avrebbe ascoltate: il pubblico, ormai risvegliato, applaudiva entusiasta e scandiva a gran voce il nome di Accipio Mentula che, solo alla quarta chiamata e sommerso dalle ovazioni, si degnò di salire sul palco.
Ma prima passò vicino a Gitone. Lo squadrò con occhi di fuoco e gli sussurrò «Non temere, cagnone mio: manterrò il mio giuramento. - e, mentre saliva le scalette - Ha (pausa) ha (pausa) ha».
CAPITOLO II
Era passato qualche giorno, ormai, da quando, fuggendo tra il pubblico osannante del Teatro di Pompeo, Gitone ed Eutropio avevano dato il vale ai loro sogni di gloria e di successo. E ora, sudati e affranti, sedevano muti sul bordo del calidarium delle Terme di Traiano. In particolare Eutropio era preda di sentimenti bui e, nel silenzio, cercava le parole giuste per comunicare al suo amico il suo (per il momento) incrollabile proposito. Ma, per quanto ci avesse pensato, alla fine, dopo lunghi minuti di riflessione, riuscì solo ad articolare un «Gitone, io me ne vado. Torno a casa, nelle Gallie dei Salassi, ad Augusta Praetoria».
«Che, cioè, tra li barbari?».
Eutropio annuì. «Sì, Gitone, devo partire. Vedi, questa città mi distrae dagli studi, m'impedisce di pensare, di portare a termine le mie ricerche, i miei ragionamenti».
«Maddài!».
Eutropio, levatosi in piedi, continuava infervorato. «È così, Gitone. Da quando sono arrivato a Roma non ho scritto versi, né ho ultimato quel mio commentario sul Critone: nulla. Solo futili vanità. Capisci, Gitone, questa vita lussuriosa («lussuche?», «lussuriosa: te lo spiego dopo») ebbene, questa vita lussuriosa limita l'altezza dei miei pensieri. Fino a quando, o Gitone, abuserò della mia intelligenza? («Fico», «grazie: mi è venuta così»). Fino a quando tollererò che in questa città corrotta si ascoltino immonde sconcezze e tacciano le note di La Monte Young?».
«La Monte chi?».
«La Monte Young. Vedi, non lo conosci: questo conferma i miei timori circa l'inarrestabile decadenza».
«Ma pecché, è 'n ber disco?».
«Bello? Solo bello? Gitone mio, è un capolavoro assoluto, uno di quei dischi che escono se va bene una volta ogni dieci anni..».
«Maddavèro?».
«Ma certo, amico mio. Vedi, caro Gitone, La Monte Young è un musicista di ormai una sessantina d'anni, ed è stato uno dei padri del minimalismo («de che?») Del minimalismo. Pochi accordi alternati a lunghi silenzi e ripetuti per ore intere. («du palle») Interessantissimo ma, in effetti, un poco ostico».
Nel pieno del soliloquio Eutropio, avvolto in una telaccia, s'era incamminato, seguito da Gitone, verso il tepidarium. Ovviamente senza smettere di orare. «..Ma da qualche anno La Monte Young ha formato un nuovo gruppo, e il disco di cui ti parlo, caro Gitone, è la registrazione di un concerto tenuto qualche mese fa. Due ore filate di concerto, un pezzo unico: una cascata di suoni, un gioiello, caro Gitone. Poche cose ho mai ascoltato, pochissime, di uguale livello. Ma ovviamente, in questa città, si parla d'altro. La decadenza...».
Breve tuffo nel frigidarium, un salto agli spogliatoi e poi fuori dalle Terme, al cospetto dell'Anfiteatro.
Eutropio continuava imperterrito. «..Ed è per questo, mio caro amico, che me ne parto. In questa città non riesco più a nutrire lo spirito. Ho bisogno di ritornare ai miei otia. Tu mi capisci, vero?».
Gitone annuì. «Te capisco, te capisco. Cioè, in effetti, c'è sta decadenza qua che è 'na cosa che nun se regge. E poi li Verdi nun so'più quelli de 'na vorta. Cioè, in effetti, quasi quasi...».
«Sono contento, amico mio, che approvi il mio punto di vista. ».
«Sì, in effetti, tocca annassene da qua. Che ce stamo a fa'? E poi nun se guadagna 'n'asse. No, no, c'hai ragione, cioè tocca fa' li spiritosi («spirituali»). Sì, sì, m'hai convinto. Tocca fa' er filosofo. Eutro', c'hai ragione. Eutro'? Che stai a guarda'».
Ammutolito, Eutropio guardava verso la folla che entrava vociante nell'Anfiteatro. Gitone seguì il suo sguardo e non ebbe difficoltà a scorgere, in quella folla, la Venere che avevano visto al Teatro.
«'Namo, Eutro'. Qua te distrai lo spirito..».
«L'Anfiteatro! Entriamo nell'Anfiteatro anche noi!».
«Ma Eutro', avevi detto che nun te piacevano li giochi..».
«Entriamo!».
«..cioè dicevi che so' n'segno de decadenza...».
Ma Gitone non riuscì a terminare la frase: Eutropio si era lanciato in mezzo alla folla sgomitando.
A fatica Gitone riuscì a tenere il passo di Eutropio, e quasi soffocato fu trasportato dalla folla lungo le scale fino a uno degli anelli superiori. Lì Eutropio era riuscito solo a trovare un paio di posti a tre file di distanza dalla dea, quel giorno in compagnia di un muscoloso pretoriano dallo sguardo poco conciliante. Accanto a Gitone, invece, avvolto in una tunica rammendata e logora, sedeva un puzzolente e bavoso vecchiardo dal cui volto pendeva una spessa e bianca barba, sede, da qualche tempo, di un interessante ecosistema locale composto di numerose specie di pidocchi e parassiti vari.
Ma Eutropio, naturalmente, non aveva tempo di badare a simili inezie mentre contemplava il Volto e, tra sé e sé, andava componendo versi. A Gitone, quindi, stretto tra il muto amico e il puzzolente che tentava di attaccare discorso lamentando la solitudine a cui sono costretti i geni e gli artisti, non rimase altro da fare che attendere pazientemente l'inizio dei giochi.
Programma così così, quel giorno. A pranzo si erano mandati ad belvas un paio di dozzine di delinquenti ed estremisti vari e, nel totale disinteresse, s'erano esibiti alcuni giocolieri. Poi un paio d'ore di pausa e ora, da un momento all'altro, un combattimento di medio livello. Tra squilli di buccine, finalmente, dopo lungo attendere, fecero il loro ingresso una quarantina di gladiatori seguiti dai valletti che portavano le armi. Il pubblico era in piedi e, festante, accolse il morituri.
«Guarda Gitone - sussurrò Eutropio - Hai mai visto braccia più candide? E le sue mani. Oh, come applaudono con grazia..».
«'Mazza» approvò Gitone con gli occhi in realtà fissi all'arena.
I gladiatori, frattanto, avevano cominciato a disporsi l'un contro l'altro armati, i forti con i forti e i deboli con i deboli, compreso uno, tremebondo e atterrito, che era lì per espiare chissà quale delitto. Eutropio, indifferente, componeva e recitava rapito «Scuriscano gli specchi di Lesbia e Cinzia, ché mai videro volto se non videro il Suo.. ».
Gitone non lo udì; la sua attenzione era tutta per i giochi: le venti coppie si fronteggiavano digrignando i denti. Squillarono le buccine e i quaranta gladiatori quaranta si scatenarono in furiosi combattimenti.
Tutti, tranne uno. Vincendo la paralisi che l'attanagliava, infatti, il tremebondo aveva gettato per terra il gladio e ora correva impazzito lungo il perimetro dell'arena inseguito, tra le risate degli spettatori, dal reziario che cercava di catturarlo con la rete.
«L'incredulo usignolo - sussurrò Eutropio - invidia la tua risata».
Finalmente, al terzo giro, il reziario riuscì ad accalappiare il fuggitivo, lo trascinò in mezzo all'arena, nell'entusiasmo generale, e gli puntò il tridente alla gola. Poi si guardò attorno, aspettando il reponso del pubblico mentre, ai suoi piedi, il fifone implorava pietà tra le lacrime. Fu un boato.
«E che ce stai puro a penza'? Fallo fuori quer broccolo!» urlò Gitone, alzando, come tutti, il pollice verso.
«Oh dei» gemette Eutropio accasiandosi sulla gradinata.
Gitone si voltò preoccupato «Che c'è, stai male, Eutro'?». (Frattanto si era levato, e poi s'era spento, l'urlo del fifone).
«Oh dei... Il suo seno... Gitone, quando ha proteso il pollice verso...la tunica...una piega....Dei, mi sento mancare....».
«Eutro', Eutro', aripijate».
Ma mentre Gitone tentava di far aria all'amico sventolando un lembo della tunica, il puzzolente al suo fianco si alzò in piedi e, nel silenzio dell'attesa del secondo scontro, «Guai a voi anime prave!» urlò al pubblico sputacchiando in faccia a Gitone. «Guai a te popolo corrotto!» e, indicando le statue degli antichi eroi che adornavano il cornicione «Cosa direbbero i nostri padri nel vedervi perdere il tempo in futili spettacoli quando i barbari sono alle porte?».
La platea, dapprima silenziosa per la curiosità, esplose in boati di protesta, «Ma fatelo star zitto quel vecchio rimbecillito! Moralista! Silenzio! Idiota!» accompagnando le urla con lanci di oggetti, frutta e ortaggi che, in buona parte, caddero addosso a Gitone ed Eutropio.
Seguirono vari tumulti di trascurabile entità, soprattutto se paragonati a quanto, in quel momento accadeva in Asia contro i Parti, ma che ebbero, come effetto, lo sgombero di quella parte di gradinata su cui sedevano i due amici.
Espulsi a viva forza dall'Anfiteatro, Eutropio e Gitone tentarono più e più volte di rientrare cercando di dimostrare in tutti i modi che, loro, con quel vecchio pazzo non avevano nulla a che spartire. Ma non ci fu niente da fare: le guardie, all'ingresso, furono irremovibili.
Decisero allora di sedersi sulle scalinate delle Terme, in posizione strategica per osservare ilpubblico al momento dell'uscita.
E, qualche ora dopo e qualche gladiatore in meno, l'Anfiteatro cominciò a vomitare il pubblico.
Ritto in piedi, nervi saldi e occhi aguzzati, Eutropio tentò di riconoscere, in quella calca, la sua Venere. Ma i suoi sforzi furono vani: a poco a poco la fiumana diminuì d'intensità e, dopo che anche gli zoppi, lentamente, erano usciti e già gli inservienti iniziavano le pulizie serali, Eutropio si gettò affranto sulle scalinate commiserando, per molto tempo, la sua triste sorte.
Finalmente, quando ormai la sera era avanzata: «Gitone, amico mio, - domandò Eutropio rassegnato - dimmi: hai con te un gladio?».
«Un che?».
«Un gladio, mio caro Gitone.»
«Ma pe' facce che?».
«Vorrei suicidarmi. Mi piacerebbe cadere su un gladio. Dimmi, ne hai uno?».
«Io? Pe' suicida' te? Ma manco pe' sogno».
«Capisco.».
Eutropio ritornò al suo austero mutismo. Il ricordo di quel pomeriggio era una piaga ulcerosa: lo spettacolo, i gladiatori, il vecchiardo estremista (anche lui portato fuori a forza dai soldati), la Venere che sedeva accanto ad un altro. Ricordi insostenibili per chiunque.
«Allora credo che mi dovrò recare in cima alla Rupe Tarpea».
«È 'na faticaccia: nun te conviene. E poi è proibito».
«Capisco. - e dopo un lungo sospiro - Mi rimane il Tevere. Mi punge vaghezza di gettarmi nel Tevere.».
Il sole era ormai al tramonto e un vento insolitamente freddo spirava da tramontana.
«Ma fa 'n freddo cane. Cioè, rischi d'ammalarti.»
«Tu sostieni questa tesi?».
«Regolare».
Eutropio cominciò a passeggiare lungo uno scalino, sfregandosi le mani per scaldarsele. Dopo qualche minuto si fermò, in profondo raccoglimento. «Essere o non essere, questo è il problema di Parmenide...».
«Stacce, stacce».
«Opti per l'essere?».
«Te credo: se nun ce stai come fai a rivedella?».
«Con ciò vorresti introdurre il divenire?»
«Cioè, io dico che se dovemo trova' 'n posto pe' dormi'».
«Andremo in una locanda, e maieuticheremo per tutta la notte..».
«Eutro', c'avemo solo 'n sesterzio..».
«Non sufficit?».
«Manco pe' sogno».
«E allora?»
«Eutro', ce resta solo 'na possibilità».
«Quale, di grazia?».
«'A Lupa».
«O cacchio».
La Lupa era una vecchia vedova incartapecorita e orba da un occhio, senza denti e quasi calva, che possedeva, nella Suburra, una locanda, sulla cui moralità avrebbe eccepito Eliogabalo, nella quale si aggiravano qua e là bambine malaticcie col moccio al naso che si offrivano per pochi assi al primo avventore, individuo generalmente meritevole dei più raffinati supplizi.
L'unico pregio della locanda era l'assenza di topi. In compenso il piatto forte della medesima locanda era lo stufato misto di cacciagione.
La macilenta porta della locanda si aprì lasciando passare un fiotto di luce sporca ed oleosa e l'immagine di per sé inquietante della Lupa.
«Buonasera» bagasciò, ma Eutropio e Gitone non fecero in tempo a risponderle che, dall'interno, con voce barbara «Uhé! - urlò un avventore coperto di pelli e fetente di stallatico - Ma questo vino arriva o no? Io devo lavorare domani, capito?».
«Turista. - spiegò la Lupa ai due. E poi, rivolta al barbaro - Arriva, arriva, un momento di pazienza» e, ancora sottovoce, «Sedetevi al tavolo del soldato. Sarò da voi tra un momento».
«Ecco, cioè, - cominciò Gitone - vedi, Lupa, 'sta sera semo a corto, cioè, nun è che pe' stavorta ce potresti, cioè, a credito?».
La Lupa sorrise, spalancando una cupa cavità, e scappò a prendere il vino.
Molti avventori, quella sera. Barbari vari, provinciali. Un soldato alla vigilia del congedo sprizzava gioia da tutti i pori gettando gli ossicini sul tavolo.
«Giocate, camerati?».
«Nun c'avemo sordi».
«Male».
«Lo sapemo da noi».
«Doppio male».
«Allora, arriva? Io non ho tempo da perdere come voi Romani, capito?» urlò nuovamente il barbaro.
«Arriva arriva».
«Su da noi quando voi vi svegliate noi si lavora già da due ore, capito?», ma fu interrotto dalla Lupa che gli sbatté sul tavolo un'anforetta ricolma di broda maledicendo ad alta voce l'estensione del diritto di cittadinanza
Il soldato, invece, era allegro. «Camerati, oggi dobbiamo festeggiare. Lupa! Portaci del vino!».
«Cosa festeggiamo?».
«La Dacia! L'Imperatore ha riportato una grande vittoria in Dacia. Lupa! Vino per noi!».
«'A Dacia? Eutro', come so' le dacciche?».
«Alte, belle, bionde.. ».
«Bionne? Lupa! Portace da beve.».
Intanto, da un angolo del locale, si levò il canto stonato di un gruppo di schiavi «In taberna quando sumus non curamus quid sit humus ho ho ho» e il barbaro, disgustato da tanta inoperosità, si alzò dal tavolo e si incamminò verso il corridoio con una stuoia sotto il braccio.
Arrivarono le anfore di vinaccio. «All'Impero!». «A Cesare!». «A le dacciche!».
Ma i loro saluti si persero nel chiasso generale. A parte quelli che cantavano nell'angolo, qualcuno discuteva di politica, altri parlavano di corse. Tutti, comunque erano già molto alticci, e due, seduti vicino a loro, erano prossimi alla rissa.
«Ripeti!».
«Ti dico che i Pearl Jam sono meglio dei Nirvana!».
«Allora insisti! (Tirando fuori un coltello) Ripetilo!».
«Dicevi della Dacia...».
«Grande vittoria, camerati. L'Impero non ha più nemici. ». Il soldato abbassò la testa e, sottovoce, «Forse non dovrei dirlo, ma si parla di chiudere il tempio di Giano».
«No!»
«Sì, siamo in pace, all'interno e ai confini».
«Certo l'Impero è fico».
Dal fondo «..bibit ille bibit illa, bibit servus cum ancilla ho ho ho».
«Ah, ma allora continui?».
«I Pearl Jam sono meglio. In fondo i Nirvana che hanno fatto? Un paio di canzoni...».
(Brandendo il coltello) «Un paio di canzoni? E Nevermind?».
«A me Nevermainde nun m'è piaciuto» si sentì in dovere di commentare Gitone.
«E tu che t'immischi?» lo rimbeccarono i due all'unisono.
Intanto, dal corridoio, si levò la voce del barbaro che implorava il silenzio. Capito?
Ovviamente fu ignorato da tutti, in particolare dai due litiganti. «Ma vuoi mettere con i due dischi dei Pearl Jam? Al confronto i Nirvana sono sdolcinati, commerciali..».
Gli rispose un urlo di sdegno che riempì la taverna. Poi, colpito dalla nefandezza dell'affermazione, il fan dei Nirvana si accasciò al suolo strappandosi i capelli. Ma l'altro, impietoso, continuava. «..E poi sono solo dei montati.».
Frattanto una ragazzina di dodici anni, sbadigliando e caracollando per il sonno, s'era avvicinata al tavolo dove sedevano i due amici e il soldato. Si appoggiò al tavolo sforzandosi di non cadere addormentata.
«Stranieri, voi (sbadiglio) mi eccitate. Veramente».
Il fan dei Nirvana s'era ripreso. «Se non era per i Nirvana tu Seattle non sapresti manco cos'è!».
«Balle! Guarda che i Pearl Jam, come i Mudhoney, si sono formati dalle ceneri dei Green River, un gruppo che suonava prima ancora dei Nirvana».
In quel mentre, sbucando dal nulla, un tipo allampanato e avvolto in una tunica scura s'avvicinò al tavolo. «Mi perdonino, signori, ma volevo informarvi che i pretoriani hanno deposto l'Imperatore e ne hanno acclamato un altro».
«Ma davvero? Ma questa è una gravissima crisi istituzionale».
«Buonanotte, signori» li salutò l'allampanato uscendo nell'oscurità della notte.
«Stranieri, veramente, muoio dalla voglia (sbadiglio) di far l'amore con voi».
Improvvisamente tutti tacquero. La porta s'era aperta e, circondato da uno sciame di mosche, aveva fatto il suo ingresso il vecchiardo estremista del Circo. Arrivato al centro della locanda, solenne, con gli occhi di tutti puntati addosso, alzò minaccioso l'indice verso il cielo. «La decadenza avanza!» proclamò continuando il suo cammino con passi malfermi alternati a rutti.
La fanciulla s'era intanto seduta al tavolo appoggiando la testa sulle braccia e già cominciava a ronfare quando passò la Lupa e le rivolse un orrido sorriso «Una demonietta. Sempre affamata, lei. Provatela, provatela.».
«La varietà, la varietà dei Pearl Jam. Canzoni diverse, inventiva, creatività. Ritmi aspri, duri, ballate, percussioni fiammanti. Come puoi fare un confronto con i Nirvana?».
«Ma allora vuoi morire!».
Il soldato aveva finito la sua coppa. Se ne riempì un'altra (doveva essere la vigesima) «A Cesare, camerati, chiunque sia!».
«All'Impero! Che durerà duemila anni!» rispose Eutropio momentaneamente infervorato di amor patrio.
Un boato esplose nella strada. Su per il Vico Patricius storme di esultanti schiamazzavano inneggiando per tutta la Suburra.
«Festeggiano la mitica vittoria sui Daci» sorrise il soldato.
«Ma domani proprio nessuno deve lavorare?».
Dalle strade il frastuono si avvicinava, un'onda, una fiumana.
«All'Impero!» brindò il soldato levando la coppa, ma la porta si aprì ed entrarono due ragazzetti seminudi «I Verdi! I verdi hanno battuto gli azzurri. Giù, al Circo Massimo». Esultante, Gitone balzò in piedi, e, afferrata l'anfora, la vuotò in un sorso mentre alto si levava il coro degli schiavi «..bibit ille bibit illa ho ho ho..»
La mattina dopo, ancora memori del vinaccio della Locanda, Gitone ed Eutropio cominciarono la loro giornata ciondolando nei pressi del Foro. Poi, non paghi, si ritirarono alle Terme, e poi ancora decisero di fare un salto a perlustrare un altro mercato. E quando arrivò la sera, capitati nei pressi della Porta Latina, si sedettero a riposare al riparo delle mura.
Passato qualche minuto: «Non c'è un sepolcro accogliente qui sull'Appia?» s'informò Eutropio.
La tramontana spirava implacabile dalla sera precedente, e il loro stoicismo cominciava ad affievolirsi.
«Fammece penza' - Gitone si portò l'indice al naso, in profonda meditazione - Ce sta quello de Quintilo» propose dopo lungo silenzio.
«Quintilo? Ma quando è morto?».
«Vediamo...Me pare l'anno scorso».
«Troppo poco: olet».
«Alora quello de Lentulo: è schiattato cinquant'anni fa.».
«Ma è interrato?».
«Me sa de no: ce sta 'na stele...d'estate fa ombra, però. ».
«Infecundus».
Immersi nella discussione, Eutropio e Gitone non si erano accorti di una muta e infreddolita processione che, lentamente, passava accanto a loro.
«Fratelli!» esclamò l'uomo che la guidava.
«Cioè, a chi?» gli chiese Gitone dopo aver controllato, alle sue spalle, che non si rivolgesse a qualcun altro.
«Ma a voi, cari fratelli. Vi riconosco: siete coloro che incontrai al Foro quel giorno!».
(Frattanto, da coloro che componevano la processione «Oh che bello! Che piacere! Ma che gioia!»).
«Ditemi, fratelli, siete affamati?».
«Effettivamente».
«E magari assetati?».
«A dire il vero...».
L'uomo cominciò a sorridere sempre più gaudioso: «E ditemi (non oso sperarlo) siete anche ammalati, carcerati o poveri di spirito?».
Avvolgendosi nella tunica, rammentandosi quel poco che aveva appreso nella scuola di retorica, Eutropio si levò in piedi «Non nego, cittadini, che le attuali condizioni testimoniano di un fato avverso..».
«...è la mano del Signore, la riconosco. Ma che bello: proprio come Giobbe.».
«..ma come disse Cicerone: 'finché c'è vita c'è speranza'».
Un silenzio ammirato avvolse Gitone e la processione.
«Cioè - chiese infine Gitone - ma puro questo ha detto Cicerone?».
«Egli disse tutto».
«Cioè, puro rosso de sera ber tempo se spera?».
«Forse, nelle Verrine».
«Fratelli, a nome della Comunità, perché non vi unite a noi?» (e il resto della processione «Ma sì, ma certo, oh che bello!»).
«Ma se magna?».
«Pane e vino.».
«E poi?».
«Vedrete, vedrete. Seguiteci.».
E già Gitone s'immaginava un sontuoso e affollato banchetto con pernici, cinghiali ripieni, schiave egizie e siriache, giovinetti imberbi della Dalmazia e della Germania quando, seguendo la processione, si trovò a entrare in una cava umida e discosta, spoglia di tutto. Percorsero in silenzio lunghi e bui cunicoli e, mano a mano che si addentravano, le pareti si affollavano di loculi sormontati, di tanto in tanto, da un'iscrizione o un affresco.
«Guardate, guardate - l'uomo che li guidava s'era fermato davanti ad una nicchia - Qui è sepolto il beato Domitillo (Ma davvero? Ma che emozione! commentò la processione). Egli fu portato nel Circo, fatto sedere su una sedia rovente e, (Oh!) morì scarnificato, pregando il Signore. (Ma che bello! Ma che letizia!)».
Seguì un breve momento di estatica riflessione, e poi si rimisero in cammino percorrendo altri cunicoli sempre più oscuri, rischiarati solo dalle fiammelle delle lucerne.
Giunsero infine in una sala più grande delle altre, con i soffitti interamenti affrescati e, alle pareti, decine di loculi traboccanti di ossa. E mentre la guida, guardandole amorevolmente, ne raccontava la storia a Eutropio e Gitone, gli altri fedeli s'erano seduti su certi rozzi sedili di pietra e uno di loro, da un grosso sacco, cominciò a tirar fuori pani e anfore.
Gitone stava già avventandosi sul cibo quando una fedele lo interruppe con un sorriso: «Fratello, prima dobbiamo pregare».
«Che devo fa'?» bisbigliò Gitone ad Eutropio mentre gli altri, chiudendo gli occhi, recitavano preghiere del tutto sconosciute ai due.
«Prega!». gli sussurrò imperioso Eutropio. (Attorno, nessuno sembrava curarsi di loro).
«Sì vabbé, ma chi?».
«Ce l'hai una fede?».
«Li Verdi».
«Chi?».
«Li maggici Verdi» rispose Gitone con un tono di voce un po' più elevato, tanto che qualche fedele si voltò dubbioso.
«Li Verdi» ripeté sussurrando.
«E poi? Non hai un dio, uno qualunque? Ne abbiamo a migliaia!».
Gitone si richiuse in un meditabondo silenzio.
E dopo qualche minuto: «Bé, sì, uno ce sta» mormorò Gitone all'orecchio di Eutropio.
«Ottimo. E chi?».
«Priapo: je so' 'n po' devoto.».
«Benissimo: pregalo».
«Ma così, davanti a tutti?».
«Perché no? Loro fanno lo stesso».
Gitone, pervaso di devozione mistica, si alzò compito in mezzo alla sala. Si arrotolò la tunica fino ai fianchi e, scoprendo il ventre nudo, rese grazie a Priapo del suo dono. Dopodiché, interpretando l'attonito silenzio dei presenti come un riconoscimento della sua pietas, «Alora, se magna?» chiese speranzoso ad alta voce.
Quella sera era lì tra loro uno schiavo, un certo Lesego Rampolokeng. Africano. Anzi, Sudafricano. Aveva composto un certo numero di liriche, in realtà molto belle, che recitava accompagnato dalle musiche di un gruppo sonoro formato da cittadini romani. Quelle poesie, e quei versi erano di livello sicuramente elevato: parlavano di apocalissi, di decadenze, di catastrofi. A parte qualche marginale dettaglio, degne d'un Lucano.
I fedeli, che per causa di Gitone avevano terminato un po' bruscamente la preghiera, si erano disposti in circolo attorno a Lesego e ascoltavano, con rapita devozione, i suoi versi. Erano canzoni mistiche, a modo loro, e tanta era la partecipazione spirituale che Gitone, lentamente e inesorabilmente, si trovò sul punto di tradire Priapo per Morfeo.
«Che meraviglia, fratelli!» esclamò la guida quando Lesego terminò. (È vero, che bello, che meraviglia).
La guida si levò in piedi, raggiante di fede. «Fratelli, il Signore non ci abbandona! (no, mai, Egli è con noi, che letizia) Egli mantiene sempre le promesse fatte al Suo popolo (ma certo, ma come no, speriamo). Ringraziamo il Signore: Egli ci ha promesso l'Apocalisse (Che meraviglia!).».
E, riconoscenti, si prostrarono immediatamente in preghiera, con grande disappunto di Gitone che sentiva crescere la sua fame a livelli insostenibili.
Passati molti minuti, e terminata anche questa preghiera, Gitone riteneva che finalmente nulla si frapponesse tra lui e i pani, ma i fedeli, ritornati ai loro posti, dopo aver superato un breve momento di imbarazzo, iniziarono a confessarsi, convivialmente, le loro colpe. E uno confessava peccati della carne, un altro superbia, un altro ancora (suscitando le invidie di Gitone) peccati di gola, fino a quando, terminato il giro, la parola ritornò alla guida che ne approfittò per ringraziare il Signore per avergli fatto vedere la Luce. A lui, che fino a qualche tempo prima si abbandonava alle futilità.
«..per esempio - confessava la guida - mi davo ai piaceri del Circo».
Silenzio rispettoso nella Comunità anche se, impercettibilmente, Gitone socchiuse un occhio.
«.. scommettevo le mie fortune, incurante dello Spirito. Sprecavo la mia vita, dietro le futilità delle corse, nei circoli degli Azzurri..».
Gitone aprì anche l'altro occhio. E, interrompendo la confessione della guida, «Ah, cioè, te sei n'azzuro.» gli chiese glaciale.
Tacquero tutti, sorpresi. E la guida, sorridendo, «Cose di tanto tempo fa...La Luce».
«Cioè, te sei n'azzuro» continuò implacabile Gitone.
«Ma cosa vuoi che importi, oramai che la Luce... ».
«Cioè, te ce stavi quanno Popilio fregò quela corsa perché c'avevate pagato er mossiere?».
«Ma cosa vuoi che importi...Certo: io c'ero. Grande corsa. E non è vero, sai fratello?, che avevamo pagato il mossiere. Ma cosa importa, ormai? La Luce...».
«Granne vittoria? Raccontala a tu' nonna.».
«Fratello, altro è il mio mondo, ora. Certo, Popilio vinse. Meritatamente. Ma, oramai...».
«Eutro', namosene».
«Fratelli...».
«Fratelli un corno: io nun so' fratello de 'n'azzuro. Mai. Eutro', namosene: a' Fede nun se compra co' 'n pezzo de pane».
E Gitone, col volto segnato da quella fierezza che fece dire a Camillo «Non con l'oro, ma con il ferro...», afferrato Eutropio per il braccio, lo spinse lungo i bui corridoi, verso l'uscita, verso la fredda notte dell'Appia.
«O li morté, che freddo» esclamò uscendo all'aperto.
Eutropio, che lo seguiva di qualche passo si strinse nella tunica, rabbrividendo. Guardò l'amico con astio, e con voce rotta dal battere di denti, «Tu e le tue maledette corse!».
Gitone, risentito «Che voresti di'?».
«Dico che io me ne torno giù, al caldo. E non me ne frega niente se quello è un Azzurro! Chiaro?».
Gitone reagì dignitosamente: senza profferir verbo gli volse le spalle e s'incamminò, per una trentina di passi, verso i sepolcri dell'Appia.
«Gitone» lo chiamò Eutropio.
Ma lui, senza voltarsi, «Dica».
«Fermati!».
«Nun posso. Er signore m'ha detto che preferisce 'a compagnia de n'azzuro a la mia. A rivederla: capace che n'anno de questi se rincontramo. Forse.».
Dopo un'ora, quando le Mura erano ormai lontane centinaia di passi e non avevano trovato nemmeno un sepolcro confortevole, Eutropio si accasciò esanime ai piedi di un cippo con la faccia a terra e le braccia in croce gemendo «Io muoio qui». Inutili furono le preghiere dell'amico: Eutropio sembrava ben fermo nel suo proposito.
Gitone cominciava già a disperare di convincere Eutropio quando, provvidenzialmente, si udì la voce di Giove. Un potente fulmine, infatti, si abbatté su un albero poco distante rischiarando una torretta che sorgeva solitaria sulla cima di una collina un po' distante dalla strada. Per un attimo furono presi da pio timore, ma poi, rincuorati, ripresero il cammino e, barcollando, riuscirono a raggiungere a fatica la torretta. Da molti anni, se non decenni, era in stato d'abbandono: le rampicanti l'avevano ormai avvolta e il terreno d'intorno era seminato di mattoni e calcinacci. Alla base v'era un'apertura oltre la quale si distingueva solo l'inizio di un corridoio che pareva volesse terminare nell'Ade. Timorosi, si addentrarono all'interno solo per pochi passi ed Eutropio, spossato dalla fatica, crollò a terra coricandosi sul fianco. Gitone, invece, si guardava intorno, inquieto. Il buio in fondo al corridoio lo metteva a disagio.
Come se non bastasse, dopo qualche minuto, alzando distrattamente gli occhi ormai abituati all'oscurità, vide due teschi che sghignazzavano gioviali dall'interno di una nicchia, dietro una lapide sfondata.
«Eutro' - chiese Gitone con voce incerta - te penzi che tocca chiede er permesso a li Mani?».
«Perché no? Anzi, fallo anche a nome mio» gli rispose Eutropio senza nemmeno voltarsi.
Gitone, allora, si prostrò a terra, ma, «Eutro'!» sussurrò.
«Che c'è?».
«Orme».
«Rassicurati: saranno vagabondi».
«Dici?». E, per nulla rassicurato, dopo pochissimi minuti, «Eutro'».
«Che c'è?».
«Cioè, qui è macabro».
«Un po'..».
«Cioè, me pare darke».
Eutropio si limitò ad annuire, sperando di indurre Gitone al silenzio.
Invano. «Cioè, ma te conosci i Neuròsise?».
«No».
«No? Peccato. Sai, me ce li vedo bene, qui».
«Ah sì?».
«Sì. Cioè, sai: so' proprio darke. Cioè, co' quei due là - indicando i teschi -. E poi, co' ste arcate, sti muri. Cioè, me ce li vedrei bene. ».
Eutropio annuì.
«Cioè, so' darke , ma nun come Siouxsie.».
«Mi fai dormire?».
Eppure Gitone avrebbe voluto continuare a parlare: quei teschi là davanti, per quanto sorridenti, un po' lo intimorivano. Inoltre gli pareva proprio di sentire degli strani rumoretti, che lo scrosciare della pioggia impediva di distinguere con chiarezza.
«Eutro', ma te ce credi a li spiriti?».
«Vuoi star zitto?».
Ma dopo circa un'ora la pioggia cessò, e quei rumoretti ora sembravano a Gitone dei veri e propri mormorii, quasi dei lamenti. Come se non bastasse gli pareva di scorgere un debole chiarore provenire dal fondo del corridoio. Era troppo, anche per il figlio di un gladiatore.
«Eutro': basta! Nun je la faccio più: namosene. - scrollando Eutropio a dovere - Eutro', sveja!».
«.... Lasciami dormire...».
«Eutro', movite: ce so' li spiriti!».
«Gli spiriti non esistono...e lasciami.. ».
Ma in quel momento, dal fondo del corridoio, una voce grave e profonda: «Entrate: vi stavo aspettando».
Gitone si sentì il sangue raggelare, quasi avesse assistito ad una sconfitta dei Verdi, ed Eutropio si ridestò dal suo torpore, pur non osando aprire gli occhi.
«Entrate!» ripeté la voce.
«Eutro', me sa che se ce tocca anna': li Mani se so' 'ncacchiati».
«Ma gli spiriti non dovrebbero esistere... ».
«'Namo a ricordajelo» balbettò Gitone mentre, sotto lo sguardo divertito dei teschi, si incamminavano senza troppa convinzione nel corridoio.
E mano a mano che avanzavano il chiarore aumentava, e si udivano più distintamente delle strane litanie in una lingua indecifrabile, qualcosa che suonava come «arenna succadà funtomone pontesos re penna». Arrivarono infine in una grande sala illuminata da un antico candelabro. Alle pareti, e alle volte, gli affreschi, un tempo splendidi, cadevano a brandelli e le statue nelle nicchie erano quasi tutte mutilate. Nessuna traccia degli ori che un tempo adornavano gli altari. Al centro della sala, inginocchiato davanti ad una candela e con un'ampolla al fianco, il vecchio matto del Circo e della Locanda recitava assorto le litanie.
«Vi attendevo. - disse senza distogliere lo sguardo dalla candela - Ma siete arrivati troppo tardi. - prese in mano l'ampolla vuota - Cicuta.».
Vinto il timore, «Ma di cosa parla?» chiese Eutropio rispettoso.
«Non cercate di ingannarmi - sorrise amaro il vecchio - Io so chi siete, e cosa volete. Ma non l'avrete!» e, senza attendere risposta, ricominciò le sue litanie.
Ma dopo pochi secondi s'irrigidì e urlò «Fa effetto, la sento!» e il suo urlo echeggiò a lungo nelle volte. Col volto contratto si sdraiò accanto alla candela. Sudava un sudore gelido, e i suoi occhi di bragia roteavano febbrili.
«Avvicinatevi» ordinò con un filo di voce.
E quando Eutropio e Gitone gli s'inginocchiarono accanto «Critone, sei tu?». chiese bisbigliando.
«Critone? Te sbaji, nonno: io me chiamo Gitone».
«Critone, ti ringrazio, ma non accetterò i tuoi propositi di fuga...»
«A nonno, io so' Gitone!»
«Critone, comprendo il tuo punto di vista, ma sarebbe inutile. Vedi, qui non si tratta delle leggi ingiuste di una città, ma di un intero Impero...».
«Aridaje! T'ho detto che so' Gitone! - e, volgendosi ad Eutropio - Poraccio, me sa che è partito der tutto.»
«...Un Impero che si estende per tutto il mondo. E dove potrei mai fuggire, allora? Dimmi, Critone, dove?»
«Gnente: oramai s'è bevuto er cervello...».
E, respirando a fatica, «Grazie, comunque, Critone. È stato un bel gesto da parte tua» e il vecchio riprese nel delirio le sue litanie fino a che, come accade in questi casi, per un momento sembrò risvegliarsi e riacquistare la lucidità.
Guardò con rancore Eutropio e Gitone . «Non ve la darò mai, sgherri dell'Imperatore» mormorò.
«Sgherri? - sussurrò dolcemente Eutropio - Nonno, forse t'inganni: noi non siamo soldati.»
Il vecchio pareva dubbioso, ma un trambusto si levò dal fondo del corridoio. Uomini a cavallo, rumore di armature, gladi, urla di soldati. Il vecchio volgeva lo sguardo dal corridoio ai due amici, sempre più incerto e combattuto. Le voci si avvicinavano.
«Non siete soldati, voi?» chiese infine, posando i suoi occhi su quelli di Eutropio.
«No, padre, te lo giuro».
Il vecchio respirò profondamente. Poi, vinte le ultime esitazioni: «E sia: nella locanda della Lupa, ho lasciato un sacco. Lì troverete tutto...il futuro dell'Impero. Andate!».
Le voci dei soldati erano ormai prossime.
«Ma non da quella parte. - indicò una statua - Là dietro c'è un passaggio che vi porterà fuori. Presto!».
Eutropio e Gitone fecero appena in tempo a nascondersi dietro la statua che un gruppo di soldati irruppe nella sala. Erano comandati da un giovane nerboruto e con la faccia antipatica.
«Lucilio» mormorò Eutropio con stizza. Il soldato si avvicinò al vecchio che, ormai, era ripiombato nel delirio: rantolò ancora qualche frase sconnessa e poi cadde nel silenzio. E prima che i soldati cominciassero la perlustrazione della sala, alla chetichella, Gitone ed Eutropio sgattaiolarono in un lungo e oscuro budello.
Il giorno dopo, all'ora del mercato, il pescivendolo chiese, speranzoso e insinuante: «Ma di', ma lo vuoi un bel pesce? Eh?».
«Nun c'avemo fame» rispose brusco Gitone, mascherando con la bugia la grave crisi finanziaria.
«Un bel pesciotto, una triglietta. Tre sesterzi. Solo tre sesterzi.. Eh? Bel giovane...».
«Nun me piaciono li pesci.» .
«Ma forse al tuo amico sì, non è vero? A te sì che piacciono i pesci: te lo leggo in faccia. Guarda questa aguglia: di' ne hai mai vista una più lunga? E più carnosa? Toccala, toccala..».
«No grazie» rispose Eutropio.
Il pescivendolo ripose offeso il pesce. «E allora cosa vi piace?».
Eutropio e Gitone si strinsero nelle spalle, con l'intenzione di proseguire oltre, ma il pescivendolo non si dava per vinto: «Lo so io cosa vi piace. La nuova cucina raffinata. Ah, lo so, uova di storione, vulva di scrofa: ecco cosa vi piace. Ma il buon vecchio pesce no. Vulva di scrofa sì, il pesce di Ostia no. Come Sardanapalo: e poi qualcuno si stupisce che decadiamo!».
Eutropio e Gitone continuarono il loro cammino tra le botteghe del mercato di Traiano. Ma il pescivendolo ancora urlava «Gente come voi dovrebbe essere arrestata. Le tradizioni, le tradizioni! Signora mia, che fine faremo» si lamentò con la venditrice di panni che annuiva comprensiva.
«Gitone - chiese Eutropio quando, lasciati i Mercati, entrarono nella Suburra - quanti soldi abbiamo?».
«Du' assi».
«E quanto dobbiamo alla Lupa?».
«Un casino: tra la cena e 'r tavolaccio armeno cinquanta sesterzi».
Eutropio scosse la testa pensoso.
«Forse ci farà ancora credito».
«Forse, ma però m'hano deto che 'a Lupa accetta pagamenti 'n natura..».
«Natura?».
«Cioè, natura».
Nel frattempo avevano imboccato il vicus Patricius e lentamente, salivano verso il Viminale.
«In che senso "in natura"?» domandò nuovamente Eutropio.
«Cioè, me dicono che 'a Lupa c'ha 'n debbole per i gioveni intelettuali».
«Ma sei sicuro? Ma guarda: a me avevano detto che, invece, ella avrebbe condonato chissà cosa ad un giovane forte, nerboruto e sincero. Uno, più o meno, come te..».
«Me sa che te sbaji: io la conosco mejo de te. Pe' 'n'intellettuale farebbe questo mondo e quell'artro. Cioè, pe' uno che circa t'assomiglia.» Avevano, intanto, imboccato un vicolo ombroso e ammuffito.
«Bè, cioè, la porta è questa».
«Bussa tu, ti prego».
«Ma nun potrei mai, prima te».
Ma i loro convenevoli furono interrotti dal fragore dei cardini. Si affacciò il barbaro fetente di stallatico. Li squadrò a lungo, «Mica avete visto mio cugino, un settentrionale?» chiese con un residuo di speranza nel cuore.
«Noi? No, cioè, avemo incrociato solo 'n pescivendolo di Ostia».
«Ostia, non è lui» e, deluso, il barbaro, rientrò nella locanda lasciando la porta spalancata.
Un insolito affollamento animava quel giorno la Locanda. Come sempre c'era il gruppo di barbari che, in un angolo, cantava da alcuni anni la stessa canzone. E, come al solito, si aggiravano le schiavette mocciosette e assonnate che difettavano di pudore ma non dei denti da latte. In un altro angolo, i due dialettici, con la barba lunga e gli occhi pesti dalla fatica, proseguivano l'interminabile discussione: «Mettiamola così - diceva uno - tu di rock non capisci niente.»
Il suo interlocutore gridò sdegnato portandosi le mani ai capelli, ma il primo, per nulla intimorito: «Non solo, i tuoi gusti sono volgari».
E mentre il suo interlocutore, lentamente, tirava fuori un coltello, in mezzo alla sala, imponente, un candidato tesseva le lodi di sé medesimo. (Nella Roma antica, oltre ai giochi dei gladiatori, vigeva il sistema maggioritario).
Entrati in silenzio nella Locanda, Eutropio e Gitone furono avvicinanti dalla Lupa. La bocca senza denti consentiva lo sfiato non catalizzato del suo stomaco. A pranzo aveva mangiato zuppa d'aglio e peperoni. Si accostò a Eutropio. «Shh» intimò. Eutropio scostò il capo.
«È Spurio Letulio: si presenta come Edile».
Eutropio colse il momento propizio. Trattenendo il respiro, le sussurrò all'orecchio
«Lupa, hai un posto per riposare qualche ora?».
«Da solo?» chiese speranzosa la Lupa.
«Solissimo».
«Vai nel corridoio» mormorò delusa.
«Ma non mi farai mica andare nella stanza di quel pazzo ubriaco, vero?».
«Quello dorme nella terza del corridoio di destra: vai pure in un'altra».
«Lupa: un giorno di questi ti darò un bacio».
«Cerca di ricordartene prima del mio funerale» e, altera e dignitosa, prese la via della cucina.
Spurio Letulio comiziava.
«Cittadini! Possiamo noi tollerare il degrado di Roma?».
«Per Ercole: no!» esclamarono sdegnati i presenti.
«Vogliamo una gestione autoritaria o democratica di Roma?».
«Ovviamente democratica!».
«Bene! Allora votate per me» esclamò trionfante Spurio Letulio.
«Questo candidato quasi quasi mi eccita» mormorò una schiavetta al suo accompagnatore.
«Sì', vabbé - chiese a bassa voce un plebeo rotto a tutte le clientele - ma tu che ci dai?».
E mentre Gitone si univa alla calca del comizio, Eutropio, di soppiatto, si avvicinò al corridoio, vicino a quella parte del bancone dov'erano appostati i due dialettici.
«..Vorresti dire che non conosci Greg Sage e i Wipers? Ma allora sei proprio volgare... Ma come, non conosci uno dei gruppi più importanti del rock di oggi? Un gruppo di culto, che suona da sedici anni ed è adorato dai critici e dai migliori musicisti dell'Impero. Ma è inaudito, inaudito. Signore - rivolgendosi ad Eutropio - Lei mi è testimone: ha dichiarato pubblicamente che non conosce i Wipers.»
«Deplorevole, decisamente deplorevole» si scandalizzò Eutropio cercando di dissimulare la sua profonda ignoranza sui Wipers.
«Lo vedi, lo dice persino lui - indicò Eutropio - che hai gusti volgari e che sei un ignorante».
La lama dell'interlocutore scintillava nell'oscurità ed Eutropio, con un sorriso, si congedò dai due avventori e s'incamminò nel buio corridoio. Schivò una schiavetta che gli rivolgeva proposte invereconde nonché costose e, dopo aver rischiato di inciampare nel pavimento sconnesso, finalmente arrivò alla terza stanza. Un puzzo di muffa l'assalì: in un angolo, ammonticchiati fin quasi al soffitto, stracci e rifiuti di ogni genere. Il vecchio pazzo era un collezionista.
Frattanto, in sala, superato il momento di profondo imbarazzo, «In che senso "cosa ci dai"? - domandò stupito Spurio Letulio - Vi darò democrazia, libertà, equità, giustizia...».
Fu interrotto dal plebeo che, alzatosi in piedi, gli chiese «Hai presente Caio Volupto?».
«Certo, il patrizio mio concorrente. Lo conoscete: egli è un autoritario, dispotico, antidemocratico, ricco, amico dei ricchi, corrotto e...».
«...e ci da' sei moggi di grano a testa. Gratis...».
Oltre la sala, nell'angusta terza camera che s'affacciava sul corridoio, Eutropio rovistava per la quarta volta nel mucchio di stracci quando, con la coda dell'occhio, scorse un'ombra alla porta. Lentamente l'ombra entrò nella camera, accompagnata dalle voci che provenivano dalla sala «Vediamo - stava intanto pensando ad alta voce Spurio Lentulo, mentre, nella sua testa, roteavano le quotazioni del grano - Sei moggi di grano, hai detto?».
«Eh già!» confermarono tutti. L'ombra si avvicinò ad Eutropio.
Era il barbaro. «La mi scusi - chiese - ma l'è proprio ben sicuro di non aver visto mio cugino?».
Eutropio scosse muto la testa e il barbaro, sconsolato, uscì dalla camera. E, seguendolo con lo sguardo, Eutropio si accorse di un'anfora per l'olio appoggiata in un angolo. La speranza si riaccese.
«Ebbene - proclamò Spurio Letulio - vi prometto anch'io sei moggi se mi sosterrete alle elezioni.»
Era una vecchia anfora di olio di Cadice, ormai impolverata e inservibile. Eutropio si avvicinò emozionato e, pregando una mezza dozzina di dei, vi infilò la mano. Il cuore gli balzò nel petto: non c'era olio, ma un rotolo. Lo prese avidamente e, senza nemmeno sbirciarne la rubrica, rientrò trafelato in sala.
«...Tu pensa che Greg Sage è uno dei pochi musicisti viventi che ha avuto l'onore di un tributo tutto per lui (Un trionfo? chiese l'altro) No, un tributo: e lui - indicando ad Eutropio l'interlocutore - nemmeno li conosce. Ma si rende conto?».
«Gravissimo, certamente» commentò Eutropio mentre cercava di richiamare l'attenzione di Gitone che, seduto nella parte opposta della Locanda, a furia di insistenze cominciava a sospettare di essere eccitato. Quando, infine, borbottando e recriminando, Gitone lo raggiunse, silenzio e ignorati da tutti, uscirono da una porticina secondaria mentre un avventore chiedeva a Spurio Letulio «E perché non sette?»
Avevano appena lasciato la Locanda della Lupa quando un frastuono si levò alle loro spalle.
«Guarda, Gitone, guarda: i vigili. Dev'essere scoppiato un incendio.».
«No: nun so' li viggili. So' sordati.».
«Soldati? E che vogliono?».
«E te dirò de più: so' queli de Lucilio. ».
«Pretoriani?».
«Già. - Gitone guardò Eutropio negli occhi - Eutro', nun so' che c'hai in quer rotolo, ma è mejo dasse.».
Eutropio non se lo fece ripetere e, insieme, si diressero verso il Tevere, cercando di camminare il più normalmente possibile per non destare sospetti.
Il giorno successivo, dopo aver trascorso la notte in un ricovero di fortuna al riparo di una tettoia dei magazzini fluviali, si ritrovarono non lontani dall'Isola Tiberina. Non era ancora l'ora del mercato e, per fortuna, il Portico di Ottavia, non era molto affollato. Si sedettero su una panca di marmo, cercando di intrpretare la parte di due qualunque studenti di retorica che ripassano la lezione.
«Leggi, leggi - mormorò Gitone - che ce sta' scritto?».
Fingendo indifferenza, Eutropio cominciò a svolgere il rotolo. Ma dopo pochi centimetri «Non capisco...» bisbigliò.
«Ma nun hai detto che sai legge e scrive?» ribatté accigliato Gitone.
«Sì, ma questo non è latino».
«E che d'è? Greco?».
«Nemmeno: lo conosco».
«Egizziano?».
«Neppure. Temo che sia etrusco».
«Etrùsco?».
Ma prima che Eutropio potesse continuare, la loro attenzione fu attirata dal suono lento e costante di un tamburo: dall'ingresso verso il Teatro, infatti, una piccola processione era entrata nel portico. Era composta da solo tre persone che, arrivati al centro dello spiazzo, si disposero in fila e: Bum.
«Nuntio vobis gaudium magnum (Bum) E' uscito un disco dei Jethro Tull. (Bum) Un disco perduto, mai inciso prima d'ora (Bum). Un disco dell'epoca migliore, tra Thick as a brick (Bum) e Passion Play. Esso (il disco) è tra i migliori dei Jethro Tull. (Bum). Polvere eravate e polvere sarete (Bum). E quindi, se mai amaste i Jethro Tull, compratelo con lacrime di commozione (Bum). »
Dopodiché, impassibili com'erano entrati, uscirono dalla parte opposta del portico.
«Eutro', ma te li conosci 'sti Getro Tall?».
Eutropio era immerso nella lettura del rotolo: «... C'è qualcosa tradotto in latino... un verso: "Il primo sarà Pan"... Ma cosa vuol dire?».
«Pan? Nun è quer dio che abbita ner tempio sulla via pe' Ostia?».
«C'è un tempio di Pan, qui a Roma?».
«Me pare. Ma nun è 'n tempio serio: è 'na mezza catapecchia.».
«Andiamoci» e già Eutropio, riavvolto il rotolo, si avviava risolutamente verso l'uscita quando la loro solerzia fu rallentata da un ingorgo: Spurio Letulio, uscito dalla Locanda, proseguiva indefesso la sua campagna elettorale.
«Con me Edile l'onestà ritornerà nella città di Roma. Fine delle tangenti, fine di ogni favoritismo..» proclamava ai cittadini.
«Ma sarà vero?» gli chiese un liberto famoso perché in due anni di libertà aveva accumulato il doppio delle ricchezze del suo ex padrone.
«Certamente» sorrise sicuro Spurio Letulio.
«Cosa vorresti dire? - continuò il liberto - Che se domani qualcuno venisse a chiederti un favore tu lo rifiuteresti?».
«Non solo: lo caccerei a pedate giù nel Foro!».
«Ho capito: voto l'altro».
Fu solo con gran fatica, chiedendo innumerevoli «permesso?», e raccogliendo innumerevoli gomitate, che Eutropio e Gitone riuscirono a fendere la folla ad incamminarsi verso la Piramide di Caio Cestio.
Usciti dalla Porta Ostiense, fatte alcune centinaia di passi verso la campagna, superati gli squallidi edifici degli importatori di olio, si ritrovarono, tra un marmista e un barbiere, all'ingresso di un tempio così mal ridotto che solo la buona volontà poteva identificarlo come luogo di fede.
«Vi fa male un dente, magari quello del giudizio?» chiese speranzoso il barbiere.
«No grazie».
«Peccato» e, mentre il barbiere rientrava nella bottegaccia lurida, Eutropio e Gitone salirono gli sconnessi scalini di legno.
Una porta chiudeva il tempio, una porta ormai corrosa e tarlata, che stava lì solo per abitudine. Tra l'altro, quel tempio non aveva proprio l'aria di contenere qualcosa che potesse interessare un ladro.
Era buio, e le travi del soffitto pareva dovessero cadere da un momento all'altro
«C'è nessuno» chiese educatamente Eutropio. Ma, a parte una rozza statua di Pan in legno di cipresso, non si vedeva proprio nulla.
«C'è nessuno?» chiese ancora a voce più alta. Finalmente, dal fondo si udì uno scalpiccio. Apparve un sacerdotonzolo bonario e paffuto, con una lunga tunica lisa e, qua e là, persino strappata.
«Turisti?» chiese avvicinandosi.
«Non esattamente.» rispose deferente Eutropio.
«Oh, cari figlioli, ma allora siete dei fedeli!».
«Bé, ecco...». Ma non riuscì a terminare la frase. Dall'esterno, dalla Via Ostiense «Quid novum sub soli? (Bum) Un antico disco dei Jethro Tull (Bum)». E, riprendendo il cammino, con voce che andava affievolendosi, «Nuntio vobis gaudium magnum (bum)...».
«Allora siete fedeli?» riprese speranzoso il sacerdote quando la processione si fu allontanata a sufficienza.
«Bè, ecco, non esattamente... Veda... Insomma... Padre, cioè, cosa può voler dire la frase "Il primo sarà Pan"?».
«Chi fu quel saggio che la enunciò?» chiese il sacerdote inorgoglito.
«Mi consenta il riserbo... Può forse illuminarmi, padre? Cosa può voler dire?».
«Oh bè, oh bè, cari giovani... Mi sembra evidente...Il primo sarà Pan, il primo tra gli Dei. Mi pare chiaro...Ma che bravi ragazzi, a modo, educati, ancora rispettosi della Religione e della tradizione. Sapete? Teniamo dei corsi di iniziazione, bisettimanali e serali...Avete dei figli?».
«Noi? No». («Nun credo» rispose Gitone).
«Peccato. Bè, abbiamo anche corsi trisettimanali per fanciulli. Ma se volete seguirmi...venite, venite! Vi illustrerò i primi rudimenti misterici. Oh che bello, oh che bravi giovani con la testa a posto. Ragazzi puliti, che non perdono il tempo dietro le mode, le religioni orientali: Mitra, Iside, quel Geova. Venite, venite.».
E già li stava conducendo in uno dei locali annessi al tempio, che, dall'ingresso, si udì: «Cneo! Vecchio satiro, sei lì?». Imbarazzatissimo, il sacerdote di Pan rispose con tono distaccato:
«Sì, desidera?».
«Desidera? Cneo: sono io!» e si fece avanti, con portamento maestoso, avvolto in una ricca tunica ricamata di porpora e fregi d'oro, un sacerdote egiziano di Iside.
«Oh, ma hai ospiti. Chiedo scusa... Ripasserò... Porcaccione...».
Dignitosissimo, il sacerdote di Pan: «Conversavo con questi cari giovani. E mi dicevano, vero?, che Pan è il primo degli dei. Forza, forza, diteglielo anche voi».
«Veramente...».
«Dicevate, vero?, che Pan è il primo. Vero?».
«A esser sinceri, volevamo sapere cosa può significare la frase "Il primo sarà Pan"...».
«Hai visto? - esclamò trionfante il sacerdote di Pan - Il primo. Sarà il primo! Pan!».
L'egiziano fece spallucce «Bè certo, Pan è un dio abbastanza potente... ».
«Abbastanza? Il primo!» si scandalizzò il sacerdotonzolo.
«...sì, certo, se ancora è vivo..».
Nel tempio scese improvviso un silenzio sepolcrale, rotto solo dal le urla dei rivenditori di anfore.
«Vivo?» chiese Eutropio.
«Non badategli, non badategli» s'intromise il sacerdotonzolo.
«C'è una leggenda - riprese sornione il sacerdote di Iside - dell'epoca di Tiberio, Si dice che un giorno un marinaio udì provenire dalla costa una voce divina che annunciava "Il dio Pan è morto!" E si dice anche.. («notizie false e tendenziose»)... si dice che il marinaio dapprima non vi prestò fede. Ma poi, le notti successive, le voci continuarono, in altri luoghi, in altre coste. Non solo: gli ordinarono anche di riferire la cosa all'Imperatore... («voci prive di ogni fondamento»)...E allora il marinaio venne a Roma e riferì a Tiberio, che ordinò un'inchiesta. Mah...- il sacerdote di Iside allargò comprensivo le braccia - Chi può dire con certezza come stanno le cose? («io lo dico!») Forse si tratta solo di una leggenda... Certo - riprese con aria conciliante - sarebbe un buon dio, Pan, se fosse ancora vivo. Iside, invece... ».
«Ma, cioè, gli dei possono mori'?» chiese Gitone.
«A volte: proprio oggi è morto Frank Zappa, ed era un grande. Può essere successo anche a Pan..».
«Non è vero niente. Pan è vivo e suona il flauto in mezzo a noi!» gridò il sacerdote di Pan.
«Mah, chissà, forse... Certo ora sento solo questo tamburo... Ma cos'è?».
La processione, nel frattempo, ritornava verso la Porta Ostiense.
«(Bum) ..magnum. È uscito un disco dei Jethro Tull (Bum). Se mai li amaste correte ad acquistarlo (Bum)»..
«Giovinastri senza dio.» mormorò acido il sacerdote di Pan.
«Eh già, eh già... Il primo sarà Pan...» mormorò tra sé e sé il Sacerdote di Iside. E poi, quasi risvegliandosi dalle sue meditazioni «Temo che si sia fatto tardi, Cneo. E poi non ti voglio disturbare: ripasserò un altro giorno. Forse domani stesso.» e s' incamminò verso l'uscita. Ma, prima di varcare la soglia, rivoltandosi, «Porcaccione...» gli disse da ultimo, scuotendo ammiccante la mano.
Rimasti soli con il sacerdotonzolo, «Bè, ecco...» cominciò Eutropio.
«Cioè, infatti...» confermò Gitone.
«Ecco, Padre, temo che si sia fatto tardi anche per noi...».
«Cioè, infatti».
«La ringraziamo di tutto, Padre: ci è stato di molto aiuto.».
«Cioè, se nun c'era lei..»
«Grazie ancora, grazie.».
Il sacerdote di Pan abbassò lo sguardo, timido: «Ma ritornerete, vero? Ritornerete?» chiese speranzoso.
«Ma certo, padre, senz'altro» mentì Eutropio.
«Dicono tutti così - sospirò il sacerdotonzolo - ma poi, quando diventano grandi, non si fanno più vedere...».
«Ma no, padre, ma no - tentò di rincuorarlo Eutropio - è solo un momento di crisi, vedrà... Passerà».
«Lo volesse il cielo ma non ci credo più, ragazzi miei. Non c'è più religione».
«Ma nun è vero - s'intromise Gitone - ce ne stanno 'n casino: quela de Iside, e quela de Mitra, e poi Geova, pe' nun parla' de Cibbele. E so' solo le urtime. Poi ce sta' Giove, Giunone, Priapo (grande, Priapo) er Pantheon... Elagabbalo... 'Nsomma, cioè...».
Ma il sacerdotonzolo non sembrava convinto, e, mentre Eutropio e Gitone già scendevano gli scalini «Ragazzi!» li richiamò.
«Dica, padre».
Sussurrando imbarazzato, «Sentite, ragazzi, non avreste sottomano una verginella?».
«È 'na parola».
«Vedete - riprese il sacerdotonzolo - tra qualche settimana ci sarà il rito della deflorazione...ci vorrebbe una vergine... non è che ne conoscereste una disposta a servire il dio?».
Eutropio si stropicciò il mento, pensieroso.
«Forse quella della locanda?» chiese a Gitone.
«Vergine quela?».
«Ma avrà dodici anni..».
«Bastano, bastano».
Eutropio, scrollando la testa: «Ci informeremo, padre, ci informeremo...le faremo sapere..» e, salutandolo con un cenno della mano, discesero, finalmente, le scale.
«Forse, allora, avete un dente cariato?» chiese speranzoso il barbiere che li aspettava al varco.
«No, no. Grazie».
«Peccato» e rientrò nella bottega.
Eutropio e Gitone si incamminarono sulla via Ostiense, diretti alla Piramide e poi, da lì, alle Terme di Caracalla (Caracalla: il cugino del luminoso Eliogabalo). Ma erano ancora in anticipo sull'apertura e, quindi, allargarono il giro passando nei pressi della Porta Capena. Era giorno di mercato.
Una miriade di commercianti era lì convenuta per esporre e (possibilmente) vendere mercanzie di ogni genere: tessuti, spezie, schiavi e schiave, montoni, vacche, porpore, cocci. Gitone passeggiava distratto, pensando al rotolo misterioso degli Etruschi.
«Eutro' - riprese dopo lunga riflessione - da quer sacerdote nun c'avemo cavato 'n ragno dar buco».
«Eh già» annuì Eutropio. Un capuano si fece avanti interrompendoli: «Signurì, vulisse giuca' 'na partita a dadi? Eh?».
«A dadi? Co' te? Ma se so' truccati!».
«Truccati? Eccellenza, me potesse sckiantare no fulmine se sono truccati!». Gitone alzò gli occhi al cielo: era stranamente sereno.
«Giuocate, signurì, giuocate. Oggi me siento che tiengo sckalogna.. ».
Ma prima che Gitone potesse rispondere, un cupo e lontano boato si levò dalla Porta. Dapprima confuso, mano a mano che si avvicinava lasciava distinguere, tra le urla selvagge, «Eccolo! Sangue! Sventratelo!».
Il capuano, signorilmente, chiese silenzio a Gitone ad Eutropio protendendo l'orecchio. Dopo qualche secondo: «Cortesemente, Eccellenze, sckusassero: tiengo n'impegno».
«Ma come? Nun volevi gioca' a dadi».
«Un altro giorno, Eccellenze, sarà un onore» e quel "onore" fu detto mentre già correva a gambe levate. Il boato s'avvicinava.
«È lui: il capuano! Prendetelo! Ammazzatelo! Ad belvas!», e una torma inferocita e rombante quasi li travolse e li superò lasciando alle spalle solo qualche nugolo di polvere vagante nell'aria e le proteste di qualche venditore di montoni che si ritrovò a inseguire le sue bestie per tutto il mercato.
Allontanatasi la fiumana, ristabilitasi la quiete, (o meglio: ciò che in un mercato di second'ordine di Roma Imperiale poteva definirsi quiete), Eutropio e Gitone proseguirono verso la Porta. Un crocchio di gente, proprio sotto l'Arco, testimoniava di una coscienza politica diffusa e sentita.
«Commercianti! - proclamava Spurio Letulio - Se mi eleggerete Edile, vi prometto che farò pagare i tributi a tutti! Cancellerò le ingiustizie! Ristabilirò l'equità!».
«Bello!» commentava la Gente.
«Ripianerò il deficit!».
«Giusto!» si accalorava la Gente.
«Cittadini, Quiriti! Non voglio ricorrere a finanziamenti occulti! Ecco un sacco vuoto: riempitelo con le vostre libere sottoscrizioni! Sostente l'equità! Sostenete la giustizia!».
Lasciata la Porta, Eutropio e Gitone erano ormai nei pressi delle Terme. Svoltando l'angolo di un palazzo, una figura trafelata che proveniva dall'altro lato dell'edificio si abbatté con furia angelica su Eutropio.
«Oh, pardon. Excusez moi» si scusò desolata.
«Ma nun fa nulla, nun fa nulla» rispose sovrappensiero Gitone. E poi, prendendo il suo amico per il bavero della tunica «'Namo Eutro' che c'avemo da fa'... 'Namo Eutro'... Eutro'?».
Eutropio era in estasi. Muto, contemplava la Visione con lo stesso sguardo che, dicono, ebbe Enea quando vide sua madre accorrere in aiuto.
«Excusez-moi, excusez-moi» ripeté, sempre costernata, la Venere con voce argentina. Eutropio, riprendendo a respirare, «Mais...mais vous parlez grec!» esclamò emozionato.
«Oui un peu..un petit peu».
Gitone tossicchiò.
«Tu non parli greco?» gli chiese Eutropio.
«No, ma so' 'n capo 'n latino».
«Mi scusi - chiese dolcemente la Venere ad Eutropio - ma sono così inesperta di questa città...Temo di perdermi..».
«Ma non sia mai!» proclamò fieramente Eutropio.
La Venere sorrise pudicamente abbassando lo sguardo. Un tenue e verecondo rossore le comparve sul viso. Cupido saettava quanto un battaglione di cavalieri Parti.
«Posso...posso accompagnarla?» balbettò Eutropio. La Venere alzò i suoi occhi, più micidiali di una sagitta, e, ancora sorridendo, «Très gentil..» gli rispose.
Gitone tossicchiò.
«Gitone, mio caro - Eutropio assunse un'aria superiore - vai pure alle Terme. Ci troveremo questa sera alla Locanda. Ah, dimenticavo, puoi tenere tu il rotolo?» e gli porse il papiro etrusco.
Impassibile, Gitone prese il rotolo in silenzio. Seguì con lo sguardo il suo amico e la Venere che, cinguettando come due passerotti, s'incamminavano verso il Circo fino a quando, girato un angolo, non scomparvero alla vista. Allora, con il rotolo in mano ed espressioni irripetibili in cuore, s'avviò alle Terme.
Era quasi sera quando, lavato e ripulito, Gitone arrivò alla Locanda.
«Bibit ille, bibit illa, ho ho ho». Il solito gruppo di schiavi cantava le solite canzoni. Gitone si sdraiò davanti ad un tavolaccio e subito si fece avanti la solita fanciulla di dodici anni. Parlava trattenendo a stento gli sbadigli.
«Straniero tu mi ecciti. Veramente».
«Nun è aria» l'accolse brusco Gitone. La fanciulla senza batter ciglio già stava andando ad eccitarsi presso un bavoso gallo quando «Ehi tu» la richiamò Gitone.
La fanciulla fece dietro front. «Straniero, tu mi ecciti».
Gitone, dopo averla squadrata a lungo, «Cioè, ma tu sei vergine?» le chiese.
Ridestatasi di soprassalto: «Che cosa?» esclamò scandalizzata la fanciulla.
«Nun ce penza', nun ce penza'» la congedò svogliato Gitone. L'aspettava una lunga attesa.
Infatti: aveva già bevuto (a credito) due anforette di vinaccio ed erano passate alcune ore quando la porta si aprì e, volteggiando, entrò Eutropio. Sorridendo beato si sdraiò vicino all'amico.
Silenzio: Gitone studiava Eutropio e si sentiva impreparato.
«Eutro'?».
«Eh?».
«Ma stai bbene?».
«Benissimo». Eutropio continuava a sorridere.
«Eutro' - ritentò Gitone - Che famo domani?». Eutropio spandeva letizia spirituale.
«Temo di essere impegnato».
«Ma ce sta 'n concerto harde».
«Amico mio, lo lascio a te l'hard rock. Voglio solo udire cinguettii di passeri, di usignoli, canzoni di Kate Bush.. È uscito un suo nuovo disco, sai?».
«E com'è?». Eutropio sospirò.
«Come al solito: bello ».
«Belo come i primi?».
«Più maturo, forse, (panta rei), meno aggressivo. Ma bello, Gitone, mio, bello.».
«Mejo dell'urtimo?».
«Ma che ne so? Sono tutti belli. Ma forse sì, forse è uno dei migliori. Lei è una Musa discesa in terra a miracol mostrare. ».
«Sei propprio sicuro de sta' bbene?».
«Ella è una creatura del Cielo, la Dea della dolcezza e dell'amore..».
«Ma chi, 'a Bushe?».
«Anche» bisbigliò Eutropio levandosi estasiato.
«Ma, cioè, ma che ce devo fa' der rotolo etrusco?» tentò di trattenerlo Gitone.
«Quello che desideri, amico mio, quello che desideri» e uscì dalla Locanda passeggiando su una nuvoletta.
Rimasto solo, Gitone s'attaccò all'anforetta. E quando l'ebbe terminata, con sguardo risoluto (era figlio d'un gladiatore, in fondo), s'incamminò verso la porta.
Imbronciato percorreva i vicoli bui e malfamati della Suburra quando «Cittadino!» si sentì chiamare.
Era Spurio Letulio, il candidato Edile, seduto al riparo di un portone col volto affamato e scavato. Un sacco floscio e vuoto giaceva ai suoi piedi.
«Cittadino! Mi anticiperesti un sesterzio per comprare una focaccia?».
«Lassa perde: nun è aria. C'ho da fa'» e, deciso, s'incamminò verso la Via Appia, verso il sepolcro etrusco.
Il teschio all'entrata, a giudicare dal sorriso, sembrava molto contento di rivederlo. Gitone molto meno. Si prostrò deferente chiedendo scusa e permesso agli innumerevoli dei del luogo e, solo alla fine, osò alzarsi e avventurarsi nei lunghi e oscuri cunicoli che conducevano alla gran sala.
Tutto era rimasto come pochi giorni prima, salvo il fatto che ora il sacerdote non declamava più in etrusco. Anzi: non respirava nemmeno e giaceva, freddo e rattrappito, al centro della sala. I suoi occhi, ardenti da vivo, sembravano aver trovato quella pace che deriva dal constatare che all'imbecillità degli uomini non c'è proprio nessun rimedio.
Cercando di ignorarlo, Gitone costeggiò il muro tastando affannosamente le pareti alla ricerca di una nicchia nascosta. Trovatala, vi cacciò dentro a forza il rotolo e, alla rinfusa, lo coprì di mattoni e calcinacci. Poi, afferrata la torcia, si lanciò verso l'uscita.
Per fortuna quella era una notte tiepida. Lasciatosi il sepolcro alle spalle, proseguito il cammino verso la città, si fermò a riposare al riparo di una stele.
Alle prime luci dell'alba, destato dai carri che, lentamente si dirigevano a Roma per portare ai mercati i prodotti delle terre della Provincia, Gitone si rialzò e riprese il cammino. Rientrò in città per la porta Appia. Era un giorno importante: folle plaudenti e oranti si riversavano ai lati delle strade incoraggiando la Dea Iside che cercava i pezzi sparsi dello squartato Osiride. Testa di Cane Anubi conduceva la processione seguito da un un nutrito gruppo di gran sacerdoti e fedeli, e i Mandragora, dall'alto del carro bardato a festa, avanzavano maestosi e solenni, ipnotizzando gli astanti con le loro musiche psichedeliche.
«A me mi fanno scattare l'afflato mistico» commentava un fedele del Sannio.
«A chi lo dici - rincarava un altro - io li sento e vedo la Dea..».
«Ipnotici, ipnotici..vero. E oggi suonano le canzoni dell'ultimo disco. La summa.. ».
«Vero.. vero. E anche un po' prog..».
«In effetti, non sono poi così tetragoni come gli Ozric o gli Oroonies».
«Concordo, concordo, ma a me l'afflato scatta lo stesso..».
«Bè certo, sono mistici, psichedelici. E poi hanno quel non so cosa di orientale..».
«Bè, è normale: è una processione di Iside..».
«Iside? Ma non è Giunone?».
«Ma no..».
«Oh, cacchio, ma allora ho pregato la dea sbagliata...»
Gitone, frattanto, era arrivato in prima fila e, durante una pausa della sfilata, il suo sguardo cadde sulla folla ferma di fronte a lui, dall'altra parte della strada.
C'era un gruppo di giovani ben vestiti e raffinati che scherzavano e ridevano tra loro, con l'aria di chi si sente padrone del tempo, e quindi del mondo. Al centro, in una nuova tunica fiammante, Eutropio e, al suo braccio, Venere. Quel giorno aveva una tunica bianca con fibbie d'oro che l'avvolgeva stretta e i suoi capelli sciolti le davano un'aria di pura e onnipotente bellezza. Parlavano tra loro in greco.
Istintivamente Gitone alzò la mano e chiamò ad alta voce il suo amico. Per un attimo, i loro sguardi si incontrarono ma subito Eutropio, arrossendo, distolse il suo e ritornò a parlare in greco.
Testa di Cane Anubi avanzava seguito dai Sacerdoti vestiti a festa. Annusando dappertutto, Anubi cercava di trovare la traccia che gli facesse ritrovare i resti di Osiride. Iside, dall'alto del carro, piangeva sconsolata, pur nutrendola fiducia che, guarda caso, proprio alla fine della giornata, in coincidenza con il termine dei festeggiamenti, avrebbe ritrovato le spoglie sparse del suo sposo.
In effetti anche i sacerdoti, per quanto cercassero di assumere un'espressione quanto mai afflitta sembravano nutrire la stessa convinzione. L'unico che proprio ci metteva tutto il suo impegno era proprio Anubi: con il il suo lungo muso da levriero s'incuneava ovunque cercando disperatamente, e più d'una volta erano dovuti intervenire i sacerdoti per ricordargli che nei sacri papiri non era scritto con certezza che i resti di Osiride si trovassero proprio nel seno delle più avvenenti fedeli che assistevano alla processione. Ricevuto il saggio consiglio, per qualche tempo Testa di Cane estendeva il raggio delle sue ricerche, ma poi, allentatasi la sorveglianza, riprendeva a infilare la testa nei luoghi a suo parere più promettenti.
Passò quindi Anubi, passò quindi un'afflitta Iside emanante un curioso sentore di cipolla, passarono altri sacerdoti ancora frapponendosi senza soluzione di continuità tra Eutropio e Gitone. Finalmente, quando la processione terminò e la strada ritornò deserta, Eutropio e i suoi amici non c'erano più. Lentamente la folla si disperse e Gitone, mesto e solitario, s'incamminò verso la Suburra, verso la Locanda della Lupa.
Ripercorse a capo chino i vicoli che salivano al Viminale. Sentiva una gran tristezza opprimergli l'animo e, per quanto cercasse di scacciarli, affioravano i ricordi dei tanti momenti passati con Eutropio: i sogni in comune, i giuramenti di fedeltà prestati sull'altare dell'Amicizia.
Quasi non si accorse di essere giunto davanti alla porta della Locanda: animazione particolare, quella sera, si teneva una festa dell'affrancamento. Al centro della sala un gladiatore brandiva una spada di legno, il rudis, appena ricevuta dalle mani dell'Imperatore. Era il simbolo della libertà: chi lo riceveva veniva esentato dall'obbligo di combattere ancora nell'Anfiteatro.
«Bibit ille, bibit illa, ho ho». Si festeggiava con entusiasmo: era in programma una serata di bevute gratis.
Il Gladiatore si accorse del nuovo venuto.
«Ehi tu, straniero! unisciti alla compagnia! Vieni, io sono Flamma, il mirmillone. Vieni, vieni, qual è il tuo nome?».
Una voce, dalle sue spalle «Ma come, Flamma, non lo riconosci? È Gitone, il figlio di Restituto».
«Cosa dici? - urlò Flamma con quanto fiato aveva in corpo - Il figlio di Restituto? Il mitico Restituto?». Lasciò il bancone e si precipitò verso Gitone.
«Dimmi, è vero ciò che odo?». Gitone assentì con un lievissimo cenno del capo.
«Lupa! - urlò Flamma - Il figlio di Restituto ha sete! Porta un...ma che dico! Due otri!» («Bibit ille, bibit illa, ho ho»)
«Sarai il mio Ospite, il mio Ospite d'onore. Lupa! Sbrigati!».
Ma Gitone, triste, scosse il capo. «Grazzie, Flamma, ma stasera nun so' 'n vena».
Una catastrofe s'abbaté sul volto di Flamma. «Ti hanno fatto qualcosa? Qualcuno? Chi?». Brandì minaccioso il rudis «Il nome! Ti prego, Gitone, solo il nome! Domani sarà tutto passato. Promesso. Lupa! Tre otri! Il figlio di Restituto è triste!» All'udir ciò un urlo sdegnato si levò per la Locanda.
«Una donna, vero? Una donna? Dimmelo: domani non sarà un problema.» Flamma si guardò attorno, roteando frenetico gli occhi. Acciuffò per i capelli una prostituta mocciosetta che passava da quelle parti «Ma per stanotte consolati. Non ti preoccupare! Paga Flamma! È il minimo per il figlio di Restituto!».
«Straniero, effettivamente mi ecciti».
Ma Gitone scrollò la testa, sconsolato. Forse per il freddo, forse per il vento, forse per altro, una lacrima gli inumidì le guance. La Locanda ammutolì.
«Nun è 'na donna, Flamma. È 'n'amico..» Flamma cadde in ginocchio, con le mani tra i capelli, i muscoli del collo tesi nello sforzo «Il nome! Dimmi il nome! Solo il nome!» Poi si alzò di scatto, si guardò attorno e acchiappò un pidocchioso marmocchio.
«Eccotelo! È tuo! Te lo compro! Paga Flamma!», nonostante il pidocchioso mormorasse «Veramente passavo di qui per caso».
Ma Gitone, sempre più triste, si nascose la faccia tra le mani. Conticuere omnes.
«Vojo...vojo solo 'n po' de pace...Cioè».
Flamma si alzò in piedi: si dice che Diomede fosse meno imponente.
«Sentito? - urlò - Vuole pace! Fuori dalle palle! Tutti! Festa rimandata a domani! Fuori!».
Infervorati, gli avventori raccattarono i mantelli sparsi qua e là e si affrettarono verso la porta con un trambusto di boccali e anfore rovesciate «A domani, vero? a domani? Bibet ille, bibet illa, ho ho, Sù, Gitone, passa. A domani, stessa ora».
E per la prima volta dai tempi di Anco Marzio, la Locanda restò silenziosa. Solo Flamma e Gitone e la Lupa e una mezza dozzina di eccitate ragazzine. Un fuoco scoppiettante nel camino.
«Siediti, Gitone, siediti qui davanti al fuoco. Racconta tutto allo zio Flamma.»
«Flamma, è che ho sbajato tutto. Cioè...».
«Giusto, giusto. Lupa! Un otre! Bisogna cambiar vita. Si può..».
«Se deve..».
«Si deve! Giusto...giustissimo! Lupa! Vedi me: ieri ero un gladiatore: allenamenti, pericoli, ferite... E stasera? - impugnò il rudis - Un uomo libero! Sissignori! Un podere in campagna, due vacche e una moglie... Cosa di meglio?».
«Regolare. Cioè, vedi Flamma, forse me ne dovevo d'annà coi miei 'n Gallia. 'N'orticello, 'na vita sana, cioè, salubbre. Così..».
«Giusto, giustissimo. Ma dimmi, i tuoi stanno sempre nella Narbonese?».
«Credo.. ».
«E tuo papà vive sempre con tua madre, con Sestilia?».
«Me sa de sì».
«Gran donna, tua madre, gran donna. L'ho conosciuta, sai? Esercitava in quel bordello sulla Labicana. Gran donna, veramente, l'ho sempre stimata. - Flamma sospirò e lo guardò profondamente negli occhi - Gitone, io ne ho conosciute di prostitute, ma, credimi, nessuna era come tua madre...». Gitone assentì gravemente col capo, riconoscente.
Osservarono a lungo il fuoco, silenziosi, poi Flamma ricominciò a meditare ad alta voce: «Hai ragione, hai proprio ragione! Bisogna andarsene, lasciare per sempre questa città. Perché stare qui? Perché rischiare la vita per la folla dell'Anfiteatro? Che me ne faccio io degli applausi dell'Imperatore?». Il fuoco scoppiettava e le prostitute, eccitate, ronfavano appoggiate al bancone.
E si consumò il primo ceppo con Flamma che ripeteva «.. La campagna, la campagna.. »
«Ti ho raccontato - riprese il gladiatore dopo qualche tempo - di quella volta che un reziario stava per accopparmi? No?». Flamma si alzò in piedi, mimando le fasi del combattimento. Alla fine, risedendosi «Un trionfo! Manco per Cesare. Ah sì...ah, sì».
«Fico... Doveva esse propprio 'na ficata... Sai? me sembra quela vorta che Filostrago vinse pe' li Verdi. Cioè, fino all'urtima curva je stava dietro, ma poi... » si alzò, a sua volta, Gitone, descrivendo con ampi gesti il sorpasso. «Mitico» concluse ritornando davanti al fuoco. Flamma aggiunse un altro ceppo e cominciò un nuovo otre.
«Bè, certo, la campagna...»
Ancora un lungo silenzio.
«Comunque non è obbligatorio andarci proprio domani».
«No, pe' gnente».
«Appunto».
Terminò anche il secondo ceppo.
«In effetti andarci adesso, così, di che sa? Magari fra qualche anno, con un bel gruzzoletto, allora...».
«Bè, è 'n'artra cosa».
«Ecco, vedi..». Il fuoco cominciava a languire.
«Me sa che nun ce sta più legna». Flamma si guardò attorno.
«Non ti preoccupare», prese il rudis e lo gettò nel camino. Il fuoco si ravvivò d'incanto.
«Lupa! Un altro otre. Effettivamente, c'è tempo per la campagna. Non scappa mica.».
«E 'ndo va?».
«Appunto: c'è sempre tempo. Lupa!».
«Anche a sposasse, der resto.»
«Figurati: il mondo è pieno di donne.»
«Pure troppe.»
«Lupa! Allora? Ecco: la volta che ti serve una donna non arriva mai. Lupa!».
«Ah, pecché, te consideri a'Lupa 'na dona?».
«Si fa per dire. Lupa!».
Con quattro balzi degni d'un rospo goffo, finalmente arrivò, imprecando, la Lupa.
«Quanta fretta!»
«Ti stiamo chiamando da due ore!»
«E un po' di pazienza, diamine! Non posso far tutto da sola! Qui non c'è nessuno che mi dia una mano!».
«A Lupa, che, te serve 'n cameriere?»
CAPITOLO II
«Ancora!» gridò il cliente esaltato.
«Ancòra?» chiese stupito Gitone.
«Certo! Ancora: tutti quelli che avete!».
«Cioè, funghi?».
«Certo, funghi! Tutti!». Annuendo perplesso, Gitone gli voltò le spalle e si diresse verso le cucine. Da quando lavorava in pianta stabile nella Locanda, ed era ormai una settimana, quello era senz'altro il cliente più strano che gli fosse capitato.
Varcò la porta annunciando «Lupa: ne vole ancora» ma il gatto della Locanda, un felino imperiale rotto a tutti i combattimenti, gli schizzò tra le gambe con gli occhi sbarrati dal terrore. In cucina si stava tenendo una battuta di caccia grossa: la Lupa saltellava come un rospo da un angolo all'altro menando fendenti con un cucchiaione di legno. L'ultimo colpo andò a segno, s'udì un rumore di ossa fracassate e l'urlo giulivo della Lupa :«Preso!».
Si chinò goffamente, raccolse da terra un ratto maximus e lo rimirò trionfante «Bello, bello sodo.. guarda, Gitone, guarda».
«Bè..cioè.. ».
«Bello, bello..».
«Lupa..».
«Proprio bello...sì?».
«Lupa, quelo vole artri funghi».
«Ancora? Ma sono finiti...chiedigli se non vuole uno stufato misto di cacciagione..uno stufato bello sodo..».
«Vole solo funghi...Me sa che è matto».
La Lupa prorubbe in svariate bestemmie, coinvolgendo mezzo Pantheon, e poi chiamò a malincuore un ragazzino pidocchioso spedendolo a far compere al Foro. Sfregandosi le mani «Oh ma li pagherà, li pagherà cari..».
«Bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla, ho ho..». Il gruppo di schiavi ubriaconi, come al solito, cantava in un angolo appartato. Al centro della sala, Spurio Letulio cercava di creare un fronte progressista.
«Cittadini, è ora di finirla con i soprusi dei ricchi».
«Esatto, esatto» assentivano ubriachi plebei tra un rutto e l'altro quando una folata di aria gelida entrò nella Locanda. Gitone si voltò verso la porta e vide colui che sperava di non rivedere mai.
«Gitone - esultò Eutropio - Amico mio!». E con un fruscio di sete gli corse incontro per abbracciarlo. Ma Gitone, irremovibile come una roccia, «Desidera?».
«Ah ah, Gitone, vuoi scherzare? Ma come, sono Eutropio, non mi riconosci».
«Me sa de no...».
«Ah ah». Ma Gitone non sorrise. Eutropio abbassò gli occhi arrossendo,
«Gitone - sussurrò - ti dovrei parlare..».
«Adesso nun posso. C'ho da lavora'. Io.».
Eutropio rialzò la testa, con un accenno di sfrontatezza «E allora aspetterò come un cliente normale. È un posto pubblico, vero?». Gitone non fece in tempo a rispondergli che un'altra folata gelida spifferò nella Locanda.
Si era fatto avanti un omino mansueto e piccolino.
«Ariecco l'azzuro» mormorò Gitone a denti stretti voltandosi da un'altra parte per non farsi riconoscere.
«Fratelli - annunciò l'omino con quanta voce poteva, e non poteva granché - Vi rivelo l'evanghelion del Cristo Risorto!».
«Bibit ille, bibit illa ho ho».
«Garçon - gridò l'avventore pazzo - E allora?».
«Arivano!».
Approfittando della confusione, Eutropio s'era seduto al bancone.
«Allora, Gitone, cosa c'è di buono stasera?».
«Stasera..cioè..nun saprei...».
«Bè? Sono un cliente, giusto? Allora, cosa c'è?» chiese altezzoso.
Gitone sprofondò i suoi occhi in quelli di Eutropio: «Stasera c'avemo stufato de cacciaggione mista» rispose con voce distaccata.
«Ebbene, vada per lo stufato!» ordinò Eutropio.
Tornato in cucina, Gitone trovò, già pronta, un'insalata di funghi condita con olio distillato dalle lucerne dei sepolcri. Rientrò in sala proprio mentre l'omino declamava
«..Pace e Letizia per tutti.. ».
«Bibit ille bibit illa».
«Allora, arrivano?» sbraitò l'avventore pazzo.
«Ecchili, ecchili» lo tranquillizzò trafelato Gitone poggiandogli il piatto davanti.
«Ah, bene, speriamo che siano quelli buoni.»
«Pecché? - si finse risentito Gitone - Forse ar signore l'artri nun je sconfinferavano?».
«No, no - prendendolo per una manica - siediti, siediti ché ti racconto tutto..»
«Ma veramente c'avrei da fa'.» .
«Siediti: il cliente ha sempre ragione, giusto?».
«Spesso».
«Appunto, siediti - e lo trascinò vicino a lui - Tu devi sapere che a me i funghi fanno schifo..».
«Schìfo?».
«Esatto! Ma tu ti chiederai 'ma allora perché ne mangia così tanti'? Vero?».
«Cioè.. ».
«Hai visto? L'avevo capito! Sono un genio, me lo diceva sempre mia madre! Adesso ti spiego. Allora, ero ad Eleusi, davanti al santuario. Si celebravano i misteri, ed ero con un Punico, un mercante che s'era spinto fino all'Indo e oltre....ma tu sai dov'è l'Indo?».
«Che sta? Dopo Preneste?» domandò Gitone con tono consapevole.
«Di più, molto di più: oltre i Parti..».
«I Parti?».
«Oltre».
«'Mazza».
«Bè, stavo ad Eleusi con questo tipo e stavamo ascoltando le musiche di un gruppo, i Treatment. Un gruppo tutto strano, molto mistico. Conosci i Gong?».
«Li...Gonghe?».
«Non importa, non importa. Comunque sono un po' i loro discendenti. Gente pazza, gente visionaria, psichedelica. Bè, stavo ascoltando questo gruppo e dicevo al mio amico punico 'accidenti: a momenti ho le visioni'. E lui 'visioni? Mangia questo e ascolta la musica. Poi sì che ne vedrai delle belle'. E mi porse una cosa strana, un fungo, diceva lui. Bè, lo mangio e Bum!» e l'avventore pazzo allargò le braccia come descrivesse un'immensità.
«Bumme?».
«Bum! Visioni, colori, mondi strani. E da allora, capisci, mangio tutti i funghi che trovo sperando di ritrovarlo...Ma niente, capisci, niente! E mi fanno pure schifo!...»
«Bibit ille bibit illa».
«Fratelli! - predicava il mansueto - Molti di noi sono stati perseguitati perché annunciavano la Luce, (bibit ille, bibit illa), la Libertà (bibit..) per (ille..) tutti, (bib..) schiavi e servi..». Il coro tacque.
«La mi scusi - chiese un gallo - Libertà per gli schiavi, ha detto?» .
«Ma certo!» sorrise il mansueto rinfrancato dall'attenzione.
«Continui, continui: la cosa, essa, c'interessa».
«Ebbene - proseguì trionfante - quando verrà il Regno dei Cieli... ».
«Il che?».
«Il regno dei Cieli» confermò più timidamente.
«E dov'è ora?».
«Lassù».
«Dove? Al piano di sopra?».
«Ma no! Verrà dopo la morte.».
«La morte di chi?».
«Di tutti».
«Anche la nostra?» chiesero in coro gli schiavi.
«Ma è evidente!».
«E allora sai che ci frega... Bibit ille, bibit illa».
«Ma chi è quelo?» chiese Gitone all'esaltato.
«Un cristiano: vanno forte in Oriente».
«Ah, cioè so' Giudei..».
«Non proprio: Giudei secessionisti».
«Penza te..».
«Io questi estremisti non li capirò mai: - sbottò l'esaltato - son quattro gatti e si dividono pure.» E, accorgendosi che Gitone si allontanava «Garçon! - gli gridò - Ancora, ne voglio ancora!».
Gitone andò in cucina, lasciò l'ordinazione e ritornò da Eutropio con lo stufato.
«Bene, bene» esclamò Eutropio. E, trattenendolo: «Gitone, amico mio: ho un favore da chiederti..».
«Dica... ce vole er vino?».
«No Gitone, non fare così.».
«La prego, signore..».
«Gitone, dove hai messo il manoscritto etrusco? La mia amica... quando gliene ho parlato... Dov'è?».
Gitone rimase impassibile.
«Allora, Gitone, dov'è?».
Il figlio del Gladiatore si schiarì la voce.
«Nun so de che parla, signore. Quer coso l'avevo trovato co' 'n mio amico che m'aveva detto a me de nascondelo. E quer mio amico poi disparse. Cioè, nun so che fine ha fatto...».
«Ma Gitone, scherzi? Ma sono io, Eutropio!».
«Me spiace, signore, ma nun la riconosco. E mo' me scusi, ma c'ho da fa'. Io.» e gli voltò le spalle.
Rientrò in cucina e trovò ad attenderlo un'altra insalataccia di funghi condita con un olio peggiore del precedente.
«Ma so' boni, armeno?» domandò alla Lupa indaffarata sul fuoco.
«E che ne so? Il gatto è scappato!».
Rientrato in sala, Gitone si accorse con sollievo che Eutropio era sparito. Al suo posto era, nel frattempo, arrivata un pattuglia di mercenari barbari.
Lasciò i funghi davanti all'esaltato proprio quando Spurio Letulio, in mezzo alla sala, comiziava sui diritti civili.
«Sentito, cittadini? Perseguitati per la loro religione! Scandaloso!» e poggiava paternamente il braccio sulle spalle del mansueto.
«Ma io vi prometto che se sarò eletto Edile questo non succederà più! Mai più!». Sorrise magnanimo al cristiano. «È un impegno solenne! Se sarò eletto decreterò che una statua del vostro Jahvé sia collocata nel Pantheon, tra Zeus e Cibele. Contenti?».
Il mansueto nicchiava.
«Non ci credi? - tuonò Spurio Letulio - È un impegno solenne!».
«Non è per questo: è che non vogliamo..».
«Non volete?».
«No, grazie..»
«E perché?» urlò esasperato Spurio Letulio.
Educatamente, ma fieramente, il cristiano: « Noi non vogliamo che il vero Dio sia mescolato agli idoli pagani» . Spurio Letulio si accasciò affranto su una panca.
«Questo è massimalismo...massimalismo bello e buono..- farfugliò - così non lo costruiremo mai il fronte progressista..». Ma le sue lamentele furono interrotte dall'urlo dell'avventore esaltato.
«È lui! È lui! Fa effetto! - si alzò in piedi trionfante - Vedo! Vedo! Ve..» e crollò esanimne a terra trascinando nella caduta l'insalata di velenosissime amanite falloidi.
Alcuni clienti che aspettavano da molti minuti che si liberasse un tavolo si precipitarono sul cadavere e lo trascinarono fuori. Lo gettarono da qualche parte in attesa che, il giorno dopo, gli schiavi addetti alla pulizia delle strade ne rimuovessero il cadavere per gettarlo in qualche fossa comune e rientrarono prima che qualcun altro potesse scippar loro il posto.
La serata era entrata nel vivo, e Gitone girava frenetico tra gli avventori.
«Che c'è stasera?» chiese un cliente entrato da poco, un vecchio rugoso e malvissuto.
«Er signore preferisce carne o pesce?» chiese compito Gitone.
«Non ho fame!» ringhiò il vecchiaccio.
«Alora der vino? - Gitone si baciò le dita con sguardo sognante - C'avemo der falerno d'anata che nun.. ».
«M'avevano detto che questo era un bordello..» lo interruppe stizzito il malvissuto.
«Regolare! - confermò Gitone con foga - Uno dei mejo de l'Impero! - riprese l'aria compita - Er signore preferisce done o rigazzini? C'avemo 'na quasi principessa daccica, 'n 'espertissima lazziale praticamente vergine, 'n Patroclo....».
«Com'è questo Patroclo?».
«'No sballo» ammiccò Gitone mulinando la mano.
«Portami il Patroclo».
Ma non si era allontanato di due passi che un braccio muscoloso e foderato di peluria biondastra lo prese per la spalla.
«Oste! - gridò il proprietario del braccio - Uno otre ancora vino. Capito tu?». Era un mercenario barbaro, un tipo col quale non era il caso di polemizzare. Gitone annuì e si precipitò in cantina dove trovò il Patroclo che dormiva utilizzando un'anfora vuota per cuscino. Risalì velocemente per le scale, depositò l'otre davanti ai barbari e trascinò il marmocchio malaticcio e foruncoloso al cospetto del vecchiaccio.
«Patroclo?» chiese questi con disgusto.
In quel mentre si aprì la porta e, insieme all'aria gelida, entrò una grassa e ciabattosa matrona. Si piantò sulla soglia, troneggiando su un ubriaco che dormiva per terra proprio davanti all'entrata, starnazzando con voce imperiosa
«C'è qualcuno che si chiama Gitone?».
L'ubriaco si svegliò terrorizzato «Le oche! Le oche! I Galli sono alle porte!».
Ma, dalla cucina, «Quintilia!» gracidò la Lupa attraversando con balzi rospeschi la Locanda.
«Lupa! Quanto tempo!».
«Da via Labicana..».
«Eh già, eh già! Bei tempi! Quello sì era un bordello come si deve.. ».
«A chi lo dici Quintilia mia, non come quelli di oggi..».
«Che, me cercava?».
«Sei tu Gitone? - chiese indispettita dall'interruzione e, ricevuto un segno d'assenso, - Ho una cosa per te da parte di Flamma, il gladiatore..».
«Flamma?».
«M'aveva detto di consegnarti questo se gli fosse successo qualcosa..».
«Che j'è successo?» chiese sottovoce Gitone presagendo la sciagura.
«Stamattina...al Circo...c'era una sportula - starnazzò Quintilia - Bè, insomma, mi ha detto di darti di questo e di portarlo con te quando andrai in campagna.» Gli porse con malagrazia un sacchetto e, considerata esaurita la scocciante incombenza, «Allora, Lupa, come te la passi?».
Sorreggendo delicatemente il sacchetto con entrambe le mani, quasi avesse paura di romperlo, Gitone si sedette su uno sgabello e l'aprì: era un palma di vittoria, conquistata da Flamma chissà quanto tempo prima.
«Ragazzo! - lo chiamò il vecchiaccio - Ci ho ripensato: portami la Dacica! Ragazzo! Ehi, ragazzo, mi senti?»
Gitone ripose dolcemente la palma in una tasca interna della tunica e, muto e con un gran peso dentro, andò a raccattare una ragazzina (nata a Tuscolo) che dormiva in un angolo e la portò dal vecchio. La quasi principessa non aveva terminato di sbadigliare «Straniero, tu mi ecciti. Veramente» che «Ragazzo! Tu venire qua! Subito!» gridò uno dei mercenari, ormai alticci.
«Ragazzo, tu conoscere Zeni Geva, sì?».
«Chi?».
«Zeni Geva, conoscere tu?».
Gitone scrollò il capo.
«Sentito voi? - urlò il barbaro ai suoi commilitoni - Nemmeno lui conoscere Zeni Geva!».
«Cosa significare ciò? - rimbeccò un altro barbaro - Lui non conosce perché lui romano. Lui ascoltare musica raffinata («Bè, cioè..circa..») lui non soldato, lui non assediare, distruggere, stuprare...niente. Lui vita cittadina, tranquilla, beata. Lui non piacere musica violenta come Zeni Geva. Ma tu dovere conoscere: Zeni Geva ti piace se tu sentire. Io sicuro: è musica potente, un poco grind, sì, un poco grunge un poco noise..».
«Ma essi essere britannici?».
«Ma no, essi venire da Giappone».
«Da Giappone?».
«Oh sì.».
«Ed essi fare questa musica?».
«Oh sì».
Il primo barbaro levò il boccale
«Impero essere grande!».
«Oh sì!».
Ma la loro discussione, e anche il brusio che regnava sovrano nella locanda, s'interruppero di colpo: persino il solito gruppo di schiavi arrestò per un attimo il perenne «Bibit ille bibit illa». Gli sguardi di tutti si volsero verso la porta.
Una dea, non una donna, era entrata a miracol mostrare. Un'attillata tunica, candida e preziosa, l'avvolgeva stretta e la luce che diffondeva oscurava i ricchi monili che le pendevano sul seno. Accanto a lei, nella penombra, Eutropio inciampò sull'ubriaco che si alzò gridando «Alle armi! Cleopatra ha invaso Roma!» prima di ricadere a terra. Impassibile, fendendo la muta venerazione dei presenti, la dea si avvicinò al bancone.
«Gitone!» chiamò Eutropio. Il figlio del gladiatore s'avvicinò esitando, parendogli, ad ogni passo, che il pavimento divenisse sempre più malfermo.
«Gitone, amico mio, tu conosci Gellia?».
La Venere sorrise, e il sole di mezzogiorno entrò nella Locanda.
«Cioè, piacere..».
«Eutropio mi ha tanto parlato di te...» cinguettò.
«Cioè..».
«È la prima volta che ti vedo, eppure mi sembra di conoscerti da sempre» e si alzò, scostando di quel tanto la tunica da permettere una rapida ma indimenticabile visione. Gli avventori più vicini erano arrivati al terzo minuto di apnea e il vecchiaccio, ammutolito, passava mesto lo sguardo da Venere alla mocciosetta al suo fianco. Alla fine si sciolse in lacrime e, barcollando, si diresse verso la porta farfugliando tra i singhiozzi che aveva deciso di farsi stoico. Ovviamente inciampò sull'ubriaco che gridò «Annibale! Annibale e i suoi elefanti hanno conquistato Roma!» prima di crollare nuovamente a terra. Venere, intanto, avvicinatasi a Gitone, lo abbracciò delicatamente e gli accostò le labbra sulle guance ruvide e ispide.
«Bè..cioè..».
«Gitone, amico mio, festeggiamo! - esultò Eutropio porgendogli un boccale - Versa, versa!».
Ma un'ombra di malinconia offuscò il Volto di Venere: «Mio caro Gitone - si afflisse - è così bello stare insieme...».
«Bè, cioè, la Locanda apre tutte le sere.. ».
«... Ed è una sofferenza saperti qua.. un uomo nobile come te... in questa - si guardò attorno - Locanda.. («Bè? Che ha da dire?» gracidò offesa la Lupa)...Come sarebbe bello, invece, poter vivere insieme...Ho una grande casa...».
«È vero! È vero - confermò Eutropio - Una villa, sull'Esquilino».
«La conosco quella villa!» starnazzò Quintilia, ma un mercenario le saltò addosso tappandole la bocca. Venere continuò sorridendo «Ci sono molte stanze vuote... e molte ancelle... ».
Il mercenario riuscì a fatica a trascinare Quintilia in cucina, nell'indifferenza generale di un pubblico abituato a ben altro. Gitone , però, si fece più cauto: «Morte stanze?» chiese sospettoso.
«Sì, e molte ancelle» rincarò la Venere.
«Sai - s'intromise entusiaticamente Eutropio - Gellia è un'appassionata di cose antiche...».
«È vero» confermò Venere. Gitone cominciava a sentir puzza di bruciato. Infatti:
«Sai, Gitone - riprese Eutropio con naturalezza - Gellia vorrebbe vedere il manoscritto etrusco...Te lo ricordi?».
«Ah, eco...» bofonchiò Gitone.
«Eutropio ha ragione - sorrise Venere - Vorrei tanto studiare quel rotolo...».
Gitone, con fermezza e dignità, indietreggiò di un paio di passi.
«Me spiace, sora dea - disse con voce grave e profonda, portandosi la mano al petto e accarezzando la palma di Flamma - ma quer rotolo è 'n pegno...cioè...d'amicizzia».
«Ma Gitone! Sono io il tuo amico!» protestò Eutropio.
«Me spiace - rispose Gitone - ma li amici so' 'na cosa e l'amicizzia n'artra» e, con fierezza, voltò loro le spalle.
Ma dalla cucina si levò, strozzato, lo starnazzo di Quintilia: «Io la conosco, quella! È una donna di Lucilio: lavora per i soldati..». Un sonoro ceffone la interruppe e un silenzio carico di muta tensione calò per qualche minuto nella Locanda.
Al termine, gli avventori ebbero il privilegio di assistere alla trasfigurazione della Venere in Furia. Abbandonato il bancone, con lo sguardo duro e incollerito «Adesso basta! - urlò la Furia - Questa farsa è durata fin troppo! Soldati! - e chiamò con un gesto i mercenari barbari che, evidentemente, si trovavano lì a quello scopo - Portate via questi buffoni!».
«Ma... Gellia...amore» balbettò Eutropio.
«Ma quale amore, stupido! Ho già perso troppo tempo con te». I mercenari li trascinarono con forza verso la porta travolgendo l'ubriaco.
«Ma allora non mi ami..» singhiozzò ancora Eutropio.
«No - sbraitò l'ubriaco - lei ama me» e crollò nuovamente a terra.
L'unico chiarore che si riusciva a distinguere scendeva pigro dall'angusto foro che metteva in comunicazione la caverna del carcere con la sala sovrastante. Dal piano superiore proveniva un lento e cadenzato rumore di passi militari, ma giù, in un angolo della prigione, lento e incessante, gocciolava un rivolo.
Cic. Cic. Cic: così per ore, per giorni, anni.
«Basta! Non ne posso più! - urlò un crudele assassino numida - Non bastano le tenaglie, le torture, il vitto schifoso e le catene: ora ci si mette pure quella dannata goccia! Fatela smettere! È inumana!».
«Ha ragione! - rincarò un britanno - Cosa fa l'amministrazione carceraria?».
«È uno scandalo!».
«Piantatela! - strillò un ruffiano di incerta etnia - Lasciateci dormire».
«E sai cosa ci frega di dormire! Domani saremo crocefissi!».
«E fanno bene! Almeno riusciremo a dormire in pace.».
«La volete smettere? - gemette una voce da un angolo - Abbiamo ospiti, questa sera. Un po' d'educazione, parbleu!»
I due ospiti erano Eutropio e Gitone, rinchiusi in quella caverna dalla notte precedente. Da allora Eutropio non aveva mai smesso di singhiozzare «Ma perché non sono rimasto ad Augusta Praetoria? Perché sono venuto qui a Roma? Cosa ho concluso?».
«Ma no, Eutro', nun di' così». cercava di consolarlo Gitone.
«E perché no? Sono un fallito, ecco cosa sono!».
«Ma no, Eutro', nun di' così. Te hai studiato, c'hai 'na cultura, c'hai l'avvenire..».
«Ma quale? La prigione?».
«Non è detto - s'intromise un germano - potrebbero destinarvi alle belve».
Eutropio scoppiò in un pianto dirotto.
«Ma taci - gemette ancora la voce autorevole - non vedi che l'hai spaventato? Sono nuovi, devono abituarsi..».
«Appunto: cosa meglio di una terapia d'urto? - protestò il germano - Anzi: quasi quasi descrivo il duro interrogatorio di Fortunius».
«No! L'interrogatorio di Fortunius no!» implorò il crudele assassino.
«Allora - continuò imperterrito il germano - cominciò con le tenaglie roventi...». Eutropio svenne.
Si risvegliò, di lì a poco, in un silenzio di tomba, cioè adatto al luogo.
«Si è risvegliato! Si è risvegliato! - esultò il germano - Posso continuare la terapia! Dunque, dopo le tenaglie..».
«Piantala» gemette la voce, evidentemente rispettata perché di lì a poco ritornò il silenzio.
«Tacete tutti - riprese a fatica la voce - Avrà tempo, avrà tempo...».
E dopo un po', da un angolo buio, si levarono dei canti. Tristi, forse, sicuramente riflessivi e intimi.
«Eutro', Eutro' - lo rincuorò Gitone - Te le ricordi 'ste canzoni?».
«Eh?» singhiozzò Eutropio.
«Ma sì, Marke Lanegane, er cantante deli Scrimin Triis!».
«Gli Screaming Trees?».
«Ma sì. Te ricordi che quarc'anno fa era sortito er primo disco de lui da solo e che t'era piaciuto e c'avevi puro detto "'mazza: questo è fico proprio" e che me dicevi che manco c'assomigliava ali Scrimin Triis perché ce faceva tutte canzoni, cioè, che ce pareva 'n cantautore?».
«Sì.. - rispose esile Eutropio - e allora?».
«E alora è sortito 'n novo disco der Lanegane. Puro mejo der primo, cioè, proprio bello. A te te piacerebbe, c'ha der poetico, veramente..».
«E allora?».
«E allora? Ma come: nun sei felice che è sortito?».
«Insomma...» ed Eutropio ritornò ai suoi singhiozzi.
Per molte volte, nel corso della notte, Gitone tentò di rincuorare l'amico senza successo. Sino a che, dopo molte ore, «Gitone..» si lamentò Eutropio.
«So' qua, so' qua. Che c'è?».
«Gitone, amico mio, volevo dirti che sono stato un cretino con Gellia. Credevo...credevo di uscire dal mio fallimento, di riuscire finalmente a combinare qualcosa di buono nella mia vita... capisci?».
Gitone tacque, annuendo comprensivo, ma poi un nodo gli strinse la gola «Eutro', pur'io te devo confessà 'na cosa.».
«Sei perdonato, qualunque cosa tu abbia fatto».
«Ma t'o devo di', Eutro': me sta qua: sur gargarozzo!».
«Dimmi, fratello..».
«Eutro'..te ricordi quelo stufato de cacciaggione dela Lupa? - Gitone non riuscì a trattenere un singhiozzo - Bè, Eutro', nun era cacciaggione: era 'na zoccola der Tevere!».
E, dopo qualche lungo minuto, asciugandosi le lacrime «Gitone, fratello mio, - sussurrò mistico Eutropio - domani forse moriremo, ma moriremo insieme!».
«Gajardo».
La mattina dopo, infatti, venne calata giù una scala e scese un soldato che staccò Gitone ed Eutropio dalle catene. Furono quindi presi in consegna da quattro altri soldati che, illuminando la strada con le torce, li condussero fino ad una soglia. Lì si fermarono e li spinsero dentro.
Inciamparono nello stipite (pessimo augurio!) e rotolarono per terra. Quando si rialzarono si ritrovarono al cospetto di un pacioso e sorridente funzionario che li accolse con un bonario «Benvenuti».
Rialzatosi, e riacquistato un minimo di dignità: «Benvenuti?» - s'indignò Eutropio.
«È evidente» sorrise il funzionario.
Un turbine di nozioni di retorica mal assimilate inondò la mente di Eutropio: «Con quale diritto, Ella ci ha trattenuti senza formale accusa? («'Mazza» commentò Gitone stupito dalla facondia dell'amico ritrovato) Ella forse ignora che nos cives romani sumus? («Vai Eutro' che je le canti!» tifò Gitone). Posto che ad impossibilia nemo tenetur, ergo noi chiediamo l'habeamus corpus (integrum) nostrum. («T'a avevo detto che tenevi 'a curtura: vai Eutro'»). Quia non est delenda Carthago sine ...».
«Un momento - tubò il funzionario - un momento..»
Ottenuto il silenzio: «Una sola domanda - riprese mansueto - Forse voi sapete dove si trova il manoscritto perduto degli etruschi?».
Eutropio, rinfrancato da tanto sfoggio, si rigirò cercando di immaginare come si dovette rigirare sdegnato Appio Claudio all'udir le profferte di pace di Pirro ( e incontrò, peraltro, il solo sguardo ammirato di Gitone). «Patres conscripti, per quanto ancora costui oserà abusare della nostra pazienza?».
«Solo per un momento - lo interruppe il funzionario - Il tempo che voi mi diciate dov'è nascosto quel manoscritto.».
Eutropio guardò fieramente il funzionario «Mai! Non lo diremo mai».
«Regolare!» confermò Gitone.
Il funzionario annuì.
In quel momento si udì uno scalpiccio alla porta. Entrarono due soldati trascinando per i polsi un ammasso di carne sanguinante e gemente.
«Ave, propretore - salutò un soldato - il prigioniero non parla».
«Capisco» mormorò il propretore e, tristemente, si alzò dal suo tavolo. Si diresse verso una mensola, raccolse un sacco di sale e si avvicinò al prigioniero: «Caius Statilius, proprio non mi vuoi dire chi furono i tuoi complici?».
«Mai, lurido bastardo!» rantolò Statilius sputando fiotti di sangue. Il funzionario alzò sconsolato gli occhi al cielo.
«E sia» sospirò, spargendo manciate di sale sulle ferite del prigioniero.
E quando, molti minuti dopo, smise di urlare e di contorcersi, il funzionario ordinò dolcemente «Portatelo via: riproviamo domani».
Rimasti soli (e in attonito silenzio): «Comprendo le vostre argomentazioni. - confermò convinto il propretore - Interessanti dal punto di vista giuridico. Molto, molto interessanti...Ah! Mi ricordano di quand'ero giovane e studiavo diritto...Bei tempi. Ma.. permettetemi, seguitemi» e, facendo da guida, li precedette in un lungo corridoio e li condusse, infine, in un antro umido da cui uscivano fumi e lamenti.
Entrati, videro un signore muscoloso, sudato e borchiato, che rosolava al fuoco alcune tenaglie e, su un tavolaccio, un uomo che si dimenava stretto in pesanti cinghie di cuoio. Quando il signore muscoloso giudicò le tenaglie rosse a sufficienza, si avvicinò al tavolaccio e le accostò al ventre dell'uomo legato provocando, tra l'altro, lo svenimento di Eutropio.
Quando rinvenne, pochi minuti dopo, Eutropio scorse il signore muscoloso allargare le mani e lamentarsi sconsolato «È già morto. Questi giovani d'oggi, incapaci di difendere i loro ideali..»
Il propretore lo corresse gentilmente «Ma non tutti, non tutti, mio caro. Questi due - e indicò Eutropio e Gitone - sono ragazzi a posto, vedrai.».
«Ah, bene, bene: sono contento che ancora vi sia gente in gamba - guardò disgustato il cadavere sul tavolaccio - e non siano tutti come questo qua...» e, fischiettando allegro, attizzò il fuoco sotto le graticole. Il propretore si rivolse ai due amici «Apprezziamo molto i vostri alti ideali - disse gravemente - e siamo certi che preferiate morire piuttosto che rivelare ciò che sapete».
Il fuoco scoppiettava arrossendo i ferri.
Trascorsero pochi secondi e si levò un boato di tuono. Allarmati, due manipoli di armati si precipitarono, gladi sguanati, lungo i corridoi urlando «Una sollevazione! Resisti propretore! Arriviamo!». Correndo affannosamente i soldati arrivarono sulla soglia dell' antro e si precipitarono dentro pronti alla strage. Ma ciò che videro fu il propretore inginocchiato e con le mani sulle orecchie che implorava «Basta! Parlate uno per volta! Capito? Uno per volta».
La mattina successiva una colonna procedeva marziale e silenziosa per la Via Appia. Era un manipolo di vigili armati di tutto punto, quasi dovesse di lì a poco affrontare un battaglione di Marcomanni. Al centro, circondati da tutti i lati e con le braccia avvolte in pesanti catene, stavano Eutropio e Gitone.
Finalmente, superata una curva: «La voi pianta' de tira' così?» protestò Gitone dopo l'ennesimo strattone alle catene che gli legavano i polsi.
«No che non la pianto! - gli urlò di rimando il Vigile - Non abbiamo tutta la giornata da perdere, noi!».
«Esatto! - rincarò un altro - Nel pomeriggio ci sono i Giochi al circo!».
«Appunto!» confermò il primo con un ennesimo strattone.
Era affollata quel giorno la Via Appia: torme di campagnoli e provinciali poco cosmopoliti si recavano a Roma per il Mercato e, passando davanti ai prigionieri, «Delinquenti! - bofonchiavano indignati - La croce ci vorrebbe, la croce!».
«Non dubitate, non dubitate» li rassicurò il Vigile, e poi, «Ti vuoi muovere?» urlò ancora rivolto a Gitone.
«None!».
«Come no?» tuonò il Vigile portando la mano al gladio.
«Semo arivati, lo voi capi'?» gridò a sua volta Gitone riempiendo di voce la campagna (anche gli uccelli smisero di cinguettare).
«Arrivati?» chiese il centurione.
«E da mezz'ora...Là» e Gitone indicò, sulla cima di una collina discosta, il sepolcro etrusco.
Era come Gitone l'aveva lasciato qualche settimana prima: pareva che nessuno, nel frattempo, l'avesse violato. La solita entrata diroccata, i soliti teschi sorridenti e felici di rivederli, i soliti lunghi e bui cunicoli. Ma, arrivati nella sala delle tombe, metà del manipolo fu vittima di violentissime coliche. L'unica cosa che era cambiata, infatti, era il cadavere dell'etrusco: ormai era in avanzato stato di decomposizione. Impassibile e abituato a ben altro, Gitone condusse il centurione sul retro di una tomba, tolse due mattoni dal muro e da una nicchietta tirò fuori un rotolo.
Un signore misterioso, avvolto in un mantello nero che gli copriva il volto, aveva seguito muto la marcia della colonna marziale fino al sepolcro. Al vedere il manoscritto si lanciò avanti e lo afferrò.
«Finalmente, finalmente. - balbettava come uno scolaretto mentre lo srotolava - Il manoscritto perduto degli etruschi...I libri sibillini...Era dai tempi di Tarqui..» ma, improvvisamente, s'interruppe di colpo guardandosi attorno. Passando dall'entusiasmo infantile ad un'adulta sospettosità, si calò ancora il cappuccio sul volto e, senza dir altro, infilò il rotolo in una sacca e si diresse verso l'uscita.
E dopo la lunga camminata di ritorno, arrivati all'altezza della Porta Appia, i Vigili sciolsero i due prigionieri, dopodiché, affrettando il passo, si diressero verso il Circo. Ormai era pomeriggio inoltrato.
«Arieccoce» commentò Gitone quando rimasero soli.
«E adesso?» chiese Eutropio.
«Te va er Circo?» propose Gitone speranzoso.
«No amico mio - si lamentò Eutropio portandosi la mano alla fronte - sono troppo scosso... Preferirei riposare».
«E dove?».
«Quanto vile pecunio possediamo?» domandò superiore Eutropio.
«Gnente».
«Vediamo, dunque, dove mai ci si può recare per riposare, pur se sprovvisti di denaro?».
Si ritrovarono davanti alla Locanda della Lupa quando cominciavano ad arrivare i primi clienti: come al solito si trattava del gruppo di schiavi che procedeva compatto cantando «Bibit ille bibit illa».
All'interno le solite prostitute si aggiravano senza meta dichiarandosi veramente eccitate di fronte a qualunque avventore e la Lupa saltellava da una pentola all'altra emettendo strani grugniti. Gitone ed Eutropio si avvicinarono al bancone e ordinarono (da segnare in conto) un'anfora di vinaccio. Dopo il primo sorso appoggiarono la testa sul bancone e sprofondarono nel regno di Morfeo.
Si risvegliarono qualche ora dopo, nel pieno della serata. Il locale ormai era popolato. Accanto a loro i due ben noti avventori discutevano sui destini del mondo supero in generale e del rock in particolare. In mezzo alla sala Spurio Letulio, il candidato Edile, stava pronunciando un'appassionata arringa.
«È morto, è morto, lasciatelo dire».
«Ma cosa dici?».
«È morto, morto. Tutto muore, il cielo, la terra, Roma. Figurati il rock.».
«Ma deve per forza morire oggi?»
«Bibit ille bibit illa».
«Cittadini! Tra qualche giorno ci saranno le elezioni: un'occasione storica di riscatto per le forze populares. È un epoca di grandi rinnovamenti, l'epoca dell'homo novus».
«Giusto, giusto».
«Bibit ille, bibit illa».
«Dici che il rock è morto, ma cosa ne pensi dei King's X?».
«Che sono morti anche loro. Tutto muore: l'Imperatore, il rock, la terra. Tutto, tranne mia moglie. Anche i King's X sono morti. Avevano fatto quel bel disco, sei anni fa, Out of the silent planet...Ma poi? I successivi? E dire che avevano fatto ben sperare...Un heavy metal intelligente, una volta tanto, tirato, quasi perfetto. E fu il primo disco. E poi? Altri dischi, sempre meno belli. Tutto muore, tutto... Come dici? - chiese alla prostitutella che si era avvicinata - Lo so, lo so che se parlo così ti eccito ancora di più, ma lasciami continuare...»
«Cittadini, do you remember Monte Sacro? («Ovvio!») Quando dai campi e dalle officine pigliando una falce e portando un martello la plebe sempre all'opra china salì sul monte e si oppose ai patrizi? Do you remember?».
«Bibit ille, bibit illa»
«Lo dovresti sentire l'ultimo disco dei King's X, sai? Son d'accordo che il primo è ineguagliabile ma, credimi, Flacco, dopo di quello questo è il migliore. Un ottimo disco.».
«Inutile, inutile tutto perisce.»
«Straniero, sei veramente eccitante».
«Cittadini: tra qualche settimana si voterà. Permetterete voi che vincano ancora i Patrizi? («No, mai!») Che vincano i discendenti di quel Menenio Agrippa che, grazie al suo discorso imbecille da secoli continua a prenderci in giro? («Ma per carità!») Che vinca Caio Velupto? Ma chi è egli? Un uomo di bassa cultura, famoso solo perché finanzia gli Azzurri («Azzuri infami! - urlò Gitone») e allestisce spettacoli al Circo. E voi lo sosterreste?».
«Bibit ille bibit illa».
«Tu dici che è un buon disco? Ammettiamolo. Ma se anche fosse, sarebbe solo l'euforia prima della morte. Tutto muore, tutto perisce....».
«Cittadini, ricordate: secoli di lotte per l'emancipazione vi guardano! Non permettete che i vostri avi abbiano a vergognarsi di voi!».
«Mai!».
«Cit...»
Ma in quel momento si aprì la porta. Zum papa zum. Entrarono quattro splendide fanciulle che, al suono di qualche buccina e di un tamburo cominciarono a danzare tra gli avventori. Erano quattro schiave siriache che, ad onta del freddo, erano ricoperte solo di un velo sottilissimo che permetteva un'osservazione accurata. Nella locanda ammutolirono tutti, filosofi, nichilisti, schiavi e candidato. Zum papa zum. Le fanciulle, ondeggiando abili e frenetiche, si gettarono nella calca degli avventori sfiorando ora l'uno ora l'altro.
«Ma cosa avranno più di noi?» si chiedevano le prostitute con una punta d'invidia.
«Veramente...» tentò di riprendere la parola Spurio Letulio, ma dalla porta entrò un omone nerboruto seguito da otto schiavi che portavano altrettanti canestri ricolmi.
«Cittadini! - tuonò l'omone - tra poco ci saranno le elezioni. E questo è un omaggio di Caio Velupto per tutti voi.»
«E tu chi voterai, ciccino?» chiedevano le quattro ballerine strofinandosi ai clienti. Gli schiavi, frattanto, si mescolavano nella folla spandendo a piene mani salsicce di porco.
«Ricordate - rombava ancora l'omone - Se Caio Velupto sarà eletto vi promette quattro giorni di ludi al Circo!».
Spurio Letulio, già alto per dignità, pensò bene di commisurare ad essa la sua statura fisica. E quindi, salendo su uno sgabello: «Cittadini! Ecco cosa vi promettono i ricchi patrizi: squallido e incolto panem et circenses!».
«Dici? - opinò un cittadino - A me paiono salsicce».
Una ballerina, intanto, s'era trovata a danzare nei pressi di Spurio Letulio.
«E tu ciccino, per chi voterai?». Sprizzando fair play «Non mi abbasserò mai a votare me stesso» le rispose sdegnoso Spurio Letulio.
«Bravo ciccino» cinguettò la ballerina strofinandogli i seni sulla tunica.
Dopodiché, frenetiche com'erano entrate, le ballerine uscirono dalla locanda con l'omone e gli schiavi, lasciando alle spalle sguardi languidi e rumore di mandibole . A poco a poco le discussioni ripresero.
«Cioè, capisci, tutto muore, tutto. Perché dovrei appassionarmi ad un disco dei King's X quando già sappiamo che un giorno moriranno? Perché? Qual è il senso della vita?».
«Dimmi, Flacco, non è che oggi hai perso alle corse?»
«Come l'hai capito?».
Spurio Letulio, nell'indifferenza generale, discese dallo sgabello e si diresse sconsolato al bancone.
«Cittadini, sono depresso». mormorò affranto sollevando l'anfora di vinaccio.
«Cioè, me spiace» tentò di consolarlo Gitone. E poi, porgendogli magnanimo metà della sua salsiccia e dandogli una vigorosa pacca sulle spalle
«Tiè, magna, tirate su»
La mattina dopo, nella Locanda della Lupa, spirava lo stesso entusiasmo che, dicono, aleggiasse nella pianura di Canne il giorno successivo alla battaglia. Prostrato dall'incomprensione, Spurio Letulio aveva singhiozzato per tutta la notte maledicendo il Fato e gli Dei che l'avevano costretto a vivere in quel secolo e non, per esempio, ai tempi dei Gracchi. Si sentiva l'animo populare, Spurio Letulio, si sentiva in grado, anzi: desideroso, di dare la sua vita per la causa plebea, sognava ad occhi aperti il confronto con il Potere iniquo di un Appio Claudio. Ma poi si risvegliava. E cosa vedeva? Una locanda ammuffita, due giovani che dormivano appoggiati al bancone dormendo i sonni inconsapevoli della gioventù, qualche prostituta, e una laida e rosposa locandiera che contava gli assi bisunti che i plebei avevano ricevuto nel corso delle loro questue quotidiane e avevano deposto lì, su quel bancone, in cambio di quattro anfore di aspro vinaccio. Perché erano morti Tiberio e Caio Gracco? A che pro essere saliti sul Monte Sacro e sull'Aventino se poi tutto doveva finire così?
Ma con i primi raggi del sole il senso del dovere illuminava la sua mente oscurata dal dubbio. E allora, senza forse nemmeno sapere perché, si rialzava ed iniziava un'altra giornata di lotta.
«Cittadini - mormorò nella penombra rivolto ad Eutropio e Gitone - Perché non mi accompagnate? Oggi devo tenere numerosi comizi, e temo l'ostilità dei Patrizi..».
«Eh?» sbadigliò Gitone, e furono necessarie almeno quattro ripetizioni prima che riuscisse a comprendere ciò che Spurio Letulio andava dicendo.
Alla fine della quarta volta «Cioè, me sembra giusto - assentì Gitone - Cioè, i comizi, l'ostilità... è giusto. Te che dici, Eutro'?».
«Giustissimo, una causa nobile».
«Sono lieto di sentirvelo dire».
«No perché, in effetti, se semo rotti de li soprusi... Te che dici, Eutro'?».
«La misura è colma.».
«Sono felice di udire ciò».
«No, pecché poi so' azzuri, vero?»
Il primo comizio si sarebbe tenuto non lontano da lì, presso la Porta Collina. C'era uno slargo, un Foro rionale piuttosto frequentato. Durante il tragitto percorsero i vicoli che dalla Suburra salivano al Viminale. Spurio Letulio era indignato (del resto: indignarsi era il suo mestiere).
«È uno scandalo - andava commentando passando davanti ai tuguri più sordidi - È indecente che cittadini del Popolo Re debbano vivere in siffatte condizioni.» Gitone annuiva partecipe.
«Come Edile - declamava - risanerò questi vicoli. Migliorerò la qualità della vita. È qui il seme della violenza..».
«Cioè, violenza?» chiese Gitone.
«Violenza, certo».
«Cioè, a me me parono solo un po' zozze».
Spurio Letulio cominciò a mulinare l'aria «Ma non percepisci questo clima di violenza? Non senti come la violenza t'avvolge, non la odi, non ascolti i suoi suoni?».
Gitone pensò a lungo.
«Bé, cioè - disse alla fine - a me l'harde rock nun me dispiace..».
«Prego?» domandò Spurio Letulio, ma Eutropio «In effetti,l'hard può anche essere esaltante..».
«Esatto, esatto» confermò Gitone.
«Per esempio - riprese Eutropio - hai sentito il disco degli O-Men?».
«De chi?».
«Degli O-Men, vengono dagli Iperborei, dalla Scandia. (Spurio Letulio cercava di riportare il discorso su un terreno più fertile di indignazione ma Eutropio, ignorandolo) Sembrano proprio gli epigoni degli Union Carbide. Stesso hard rock con venature noise qua e là. Non male, gli O-Men, non male. Certo, non raggiungono i maestri, ma, insomma, si possono ascoltare.»
«Te dici?».
«Ma sì, perché no? Certo, non ti aspettare canzoni allegre».
«Figurate..».
«..Un po' catastrofisti, forse..».
«Bè, de sti tempi..».
«Ecco, appunto».
Quando arrivarono alla Porta Collina trovarono lo slargo già occupato da una folla ingente e numerosa. Spurio Letulio si avvicinò al venditore di lattuga, prese un cesto, lo rovesciò, e ci salì sopra.
«Cittadini - tuonò stentoreo - fino a quando tollereremo gli abusi dei Patrizi?». Eutropio e Gitone si posero al suo fianco.
«Fratelli!» udirono da un angolo.
«Cioè, dice a noi?» chiese Gitone.
«Ma certo Fratelli! Non rammentate? Abbiamo consumato un banchetto fraterno assieme!».
«Cioè, tu lo conosci?» chiese Gitone ad un impassibile Eutropio.
«Ma come, nella Catacomba..» insisteva il cristiano.
«Posso continuare?» chiese rispettoso Spurio Letulio.
«Certo, certo» si scusò il cristiano.
«Cittadini! Per quanto ancora subiremo le prepotenze dei ricchi?».
«Ma come - fece il cristiano abbassando la voce - Possibile che non vi ricordiate di me? È stato solo qualche giorno fa. Avevamo discusso, aperto i nostri cuori, ci eravamo confidati...Possibile?».
«Cittadini! È giusto che il potere spetti a chi lavora!» tuonò Spurio Letulio. Fu applaudito, da lontano, da qualche schiavo senza diritto di voto.
«Cioè - disse superiore Gitone rivolto ad Eutropio - me pare che er Signore era n'azzuro..».
«Ma che importanza ha? - protestò il cristiano sommessamente - Di fronte a Lui siamo tutti uguali!».
«Cioè, io eguale a n'azzuro?» urlò sdegnato Gitone.
La piazza ammutolì e gli sguardi di tutti, compreso quello di Spurio Letulio, si posarono su di lui. Gitone, imbarazzato, si strinse la testa nelle spalle.
Placatosi lo stupore, «Cittadini! - riprese Spurio Letulio - Non fatevi ingannare dalla propaganda di Caio Velupto, il mio rivale in queste elezioni. Egli è ricco, famoso solo perché finanzia gli Azzurri!»
«Azzuri bastardi!» gridò Gitone rispondendo ad un riflesso condizionato.
«Eutropio!» s'udì tra la folla.
Si fece avanti un canuto e venerando vegliardo, che portava sottobraccio un pesante rotolo.
«Maestro!» esclamò Eutropio correndogli incontro.
«Eutropio, Eutropio mio - il vegliardo scuoteva l'indice come un rimprovero - È da molto che non ti vedo alle mie lezioni. Perché? Non ami più gli studi? La retorica, la filosofia? Perché, Eutropio? Eri uno dei miei migliori discepoli..». Con un singhiozzo Eutropio crollò a terra stringendogli le ginocchie.
«Oh, maestro - gemeva - Oh, maestro mio... ».
«Scusate - chiese educatamente Spurio Letulio - potrei continuare?».
«Vai, vai - lo incitò Gitone - 'sto comizio m'attizza!».
«Cittadini!» ricominciò rinfrancato Spurio Letulio, ma fu subito interrotto da un rombo. Erano apparsi , da un lato della piazza, venti o più barbari galli addobbati con i colori degli azzurri. Con un latino approssimativo urlavano frasi del genere «Morte a Spurio Letulio! Vuole fare il dittatore, il Re! Morte a lui!».
«Vedete cittadini? - gridò fieramente Spurio Letulio - A quali armi ricorre Caio Velupto per far tacere la voce del popolo?». Gitone fremeva.
Le barbare armi di Caio Velupto avanzavano inesorabili.
«Fratelli - li implorò il cristiano - Perseguite l'amore!». Gli risposero con un grugnito: ormai pochi passi li separavano da Spurio Letulio. Il cristiano cercò di interporsi, ma il vegliardo, arrestandolo con la mano «Amico mio - gli disse ispirato - La cultura fermerà la barbarie.». Divincolandosi dalla stretta di Eutropio si pose dinnanzi a loro. Srotolò il suo papiro, era la Repubblica di Platone.
«My lords - li affrontò con voce ferma - Discutiamone - e mostrava loro il papiro - Parliamone».
Si udì uno scricchiolio di ossa infrante.
«Maestro!» invocò Eutropio quando il primo barbaro gettò a terra il vegliardo calpestandogli il volto. Era un gallo, piuttosto giovane peraltro, e quella camminata fu l'ultimo gesto della sua vita. Come un pantera Gitone si lanciò addosso a lui e, ricordando i saggi insegnamenti del papà, gli balzò alle spalle, gli passò un braccio dietro la schiena e un altro attorno al collo. E con l'uno spinse, e con l'altro tirò, fino a quando uno schianto non segnalò la rottura della spina dorsale. Già gli altri barbari stavano avventandosi su di lui quando, al suono di buccine, irruppe nello slargo un manipolo di Vigili armati fino ai denti. Lo slargo si svuotò di colpo, come un muro percorso da scarafaggi nel momento in cui si acccende una luce.
Preceduti dal cristiano Eutropio, Gitone e Spurio Letulio furono condotti da un vicolo all'altro fin quando, passando per una porticina nascosta, s'infilarono giù per una catacomba.
E dopo molti minuti trascorsi a riprender fiato e ad accendere lucerne.
«Povero Maestro mio - singhiozzò Eutropio - Non possiamo far più nulla per lui».
«Possiamo far molto, invece» suggerì impettito il cristiano.
«E cosa? Cosa?» gridò Eutropio speranzoso.
«Possiamo pregare per la sua anima di peccatore».
Eutropio scoppiò in lacrime, mentre Gitone si limitò ad accarezzarsi il basso ventre.
Passarono molte tristi ore fino a che: «E mo' che famo?» chiese infine Gitone.
«Preghiamo, fratelli» propose ancora il cristiano senza esitazione.
«Ma c'ho fame..»
«Fratello: non di solo pane vive l'uomo».
«Giusto, infatti me andrebbe 'na bella trija arosto..o anche 'n ber cosciotto d'agnello..».
«Fratello, ma come ti vengono questi pensieri!». Gitone indicò, rischiarati da una debole fiammella, gli affreschi alle pareti: «E che ne so? È che a vede tutti st'agnelli, sti pesci, sto pane e 'sto vino m'è venuta 'na fame».
«Ma fratello! Quella e la tomba del Beato Callestato!».
«Poraccio. Che, è morto d'endiggestione?».
E mentre giù nella catacomba si proseguiva la serrata disputa teologica, in un ricco palazzo del Palatino stava per cominciare un'importante riunione. Pochi i convenuti, ma di rango.
«Signori - esordì con tono grave un anziano che dall'aspetto pareva il più ragguardevole - possiamo dare inizio alla lettura.» E, sedendosi, fece un cenno ad un vegliardo dalla lunga barba candida. Ma prima che costui potesse iniziare, nel silenzio generale si udì una risata raggelante:
«Ha (pausa) Ha (pausa) Ha. Ma spicciati, nonno». Il vegliardo, un po' intimorito, si levò in piedi, srotolò un lungo papiro e con voce ferma cominciò a declamare «Il primo sarà Pan, poi Ares e Zeus. Tutti morranno dell'Olimpo gli Dei...».
«Però..» commentò un funzionario.
«..Capisci, Fratello, Il Dio che s'è fatto carne..»
«Nun me parla' de carne!».
«Cittadini - chiese Spurio Letulio - avete idea di che ora sia?».
«Come se fa' co' sto buio?».
«Sarebbe importante, cittadini: domani dovrei essere eletto».
«Io nu je la faccio più. Io esco!».
«Ma cosa fai? - lo trattenne Eutropio - Forse è ancora giorno: ci riconoscerebbero!».
«Ma io me moro de fame!».
«Aspetta, aspetta ancora un po': poi usciremo tutti insieme.».
«Sì Fratello, attendi, attendi con noi. Preghiamo insieme...E allora Egli, prendendo il pane...»
«Nun me parla' de pane!».
Il vegliardo, terminata la lettura del rotolo, si risedette nel silenzio generale. Per lunghi minuti non si udì altro che il passo lontano delle guarnigioni. Alla fine parlò un grasso patrizio
«E così era questo il contenuto dei libri sibillini che Tarquinio credeva distrutti..».
«E già...» commentò amaro un senatore.
«Gli Dei moriranno - riprese il primo quasi parlando tra sé e sé - e vincerà il Dio dell'Oriente...».
«E già...».
«Ma quale Dio dell'Oriente? Ne abbiamo decine..».
«Potremmo provarli tutti...» suggerì un giovane generale.
Il senatore scattò in piedi «Ma vi rendete conto? Questo vuol dire rinunciare alle nostre tradizioni, alla nostra storia!».
«Cosa preferisci? - lo ammonì il più ragguardevole - Rinunciare alle tradizioni dei tuoi avi o al tuo rango?».
Il senatore ricadde pesantemente sulla sedia, reggendosi il capo tra le mani, affranto. E ancora una volta una risata si levò nella sala: «Ha (pausa) Ha (pausa) Ha. Ma che domande, cocco.»
«Adesso basta, mo' esco!».
«Ma sarà sera?» chiese Spurio Letulio.
«N'artro po' è s'è fatta l'artra matina. Io esco!».
E, afferrando la lucerna, Gitone si diresse risoluto verso l'uscita. E pareva così determinato che agli altri non restò altro da fare che seguirlo. Percorsero alcuni corridoi e, finalmente, arrivarono all'apertura.
«Che v'avevo deto?» esultò Gitone: effettivamente era buio pesto.
«Che fortuna fratelli: siamo salvi. Sia lodato il Signore!».
«'Namo, 'namo che c'ho fame».
Canticchiando allegramente, uscirono dalla catacomba. Ma non avevano fatto dieci passi che da un cespuglio uscì un manipolo intero di Vigili.
«Ce ne avete messo del tempo» li salutò, con un pizzico di sarcasmo, il centurione.
«Questo è l'ultimo degli affronti! - tuonò Spurio Letulio - Udite cittadini! Arrestano un candidato il giorno prima delle elezioni! È uno scandalo!». Il centurione, ignorando le proteste, ordinò ad un soldato di stringere in catene i polsi del cristiano e dei due amici.
«È un affronto intollerabile!» protestò Spurio Letulio.
Ma il centurione, terminato l'incatenamento degli altri tre, con molta naturalezza diede l'ordine di marcia.
«È un affronto!» protestò ancora, ma con minor vigore, Spurio Letulio vedendo il manipolo che faceva dietro front. E quando poi si rese conto che si allontanava «Centurione! - gridò ancora ma con qualche perplessità - Non mi arrestate?».
Voltandosi distrattamete «Lei chi è?» gli chiese il Centurione.
«Come? Io sono Spurio Letulio! Il candidato edile!».
«No, no, non abbiamo ordini per lei. Buona sera.».
«Buona sera? - tuonò Spurio Letulio - Esigo l'arresto! Cittadini! questo è un affronto intollerabile!..».
Giunsero al palazzo nel pieno della notte. Le stanze erano ormai deserte, e i Vigili, arrivati in una sala interna, li fecero sedere su una panca in un angolo. Dopodiché, sciolte le catene, li lasciarono soli. Era una sala immensa e spoglia, fredda di marmo e statue immobili.
«Cioè, ma voi ce capite quarcosa?» chiese Gitone massaggiandosi i polsi. Eutropio scrollò la testa, ma il cristiano, rassegnato, si gettò in ginocchio pregando silenziosamente.
«Cioè, ma che sta a succede?» chiese ancora Gitone.
«Non lo so Gitone - gli rispose Eutropio - non capisco più. Troppe cose stanno cambiando, e troppo velocemente. Non so... alle volte ho l'impressione che tutto ciò che ho appreso e studiato non serva più a nulla. Riesco solo a sentire questo silenzio, e nulla più.»
«Te ce vorrebbe 'n ber disco».
«Magari, ma non è detto che riuscirei a capirlo.»
«Cioè, nun riesci a capi' 'n disco rock? Bé, insomma, basta che fa casino e che te tira, no?».
«Fosse così semplice: poi ti capita quello dei Don Caballero.».
«Li Don Caballero?».
«Già.».
«E che c'ha de strano?».
«Strano? Vedi, è una musica un po' ostica, dura. Un po' ti annichilisce, ti perde: è un muro sonoro che sembra respingerti ma che poi, mano a mano che t'avvicini, ti affascina. È qualcosa di originale, una volta tanto... Buffo, vero? Ho passato anni a sperare che sorgesse qualcosa di nuovo: poi il nuovo arriva, e non lo capisco.».
Il cristiano, frattanto, aveva terminato le sue preghiere e s'era rimesso a sedere.
«Fratelli - cominciò con voce profonda - purtroppo io comprendo bene cosa accade..».
«Cioè?».
«È la persecuzione, fratelli.». Si alzò in piedi, allargando le braccia «Moriremo insieme, fratelli, moriremo nel Suo Nome. Saremo beati.».
«Cioè, saremo?».
«È evidente: dopo la morte. Possibilmente tra i tormenti.».
«Ma, cioè, nun è che è possibile ave' quarcosa anche da vivi?».
«È molto difficile, fratelli, molto difficile.».
«Cioè, ma pecché ve persegueno?».
«Ma come perché? Siamo cristiani!».
«Maddài...».
E il cristiano, guardandolo speranzoso: «Vuoi forse convertirti, fratello? Vuoi forse confessare i tuoi peccati?».
«Bè, cioè, nun so. Cioè, che tocca fa' pe esse cristiani?».
«Semplice: ama il prossimo tuo!».
«Cioè, ma io ce vojo bene all'amici mia».
«Non basta: devi amare pure i nemici!».
«Pure gli azzuri?!».
«Anch'essi. E poi non devi fornicare..Tu fornichi, fratello?».
Gitone annuì pensoso.
«Bè, cioè, quarche vorta, alla Locanda dela Lupa..».
«Luogo peccaminoso!».
«Bè, forse, me sa.».
«Hai fornicato di sovente?».
«Mica tanto, purtroppo. L'urtima vorta è stato... fammece penza'..direi 'na settimana fa...».
«Una settimana fa? Dovrai far penitenza..».
«..È che quer giorno 'a Lupa stava distratta mentre se coceva 'n capretto intero. Io entro 'n cucina, guardo che nun me vede nessuno, m'appropinquo ar forno e je stacco 'n pezzo de ciccia.. ».
«Ma Fratello: quello non è un grosso peccato!».
«Lo dici te! Quanno 'a Lupa m'ha sgamato s'è incacchiata come 'na jena!».
«Ma no, fratello, ti ripeto che non è un grosso peccato».
«E allora cosa è peccato?».
«Ascoltami: hai provato piacere a congiungerti con donne e fanciulli?».
«Regolare».
«Fratello, quello è peccato».
«Quello?».
«Sì Fratello.».
«Chi l'avrebe detto? Ma scusa, ma come se riconoscono li peccati dar resto?».
«Non è facile, fratello. Ma se non vuoi sbagliarti comportati così: se c'è una cosa che ti fa piacere fare, non farla... ».
«Te dici?... Semmai... Ce penzerò sù» disse infine Gitone per concludere la discussione. E subito si rituffò a pensare a banchetti imbanditi, a capponi e montoni arrosto, aragoste e crostacei.
Ma dopo qualche ora di meditata e silenziosa riflessione, i suoi pensieri riprecipitarono, da qual suo meraviglioso Iperuranio, alla situazione presente, e quindi, rivolgendosi el pio e orante cristiano: «Te che sei n'esperto - gli chiese - che dici? Ce crocefiggeranno?».
Il cristiano si ridestò dal mistico torpore in cui era caduto.
«Temi di non essere degno, vero?».
«Bè, cioè..».
Il cristiano si levò in piedi e poggiò un mano sull spalla di Gitone.
«Non ti preoccupare, fratello.».
«Ah, no?».
«No, fratello: - lo rassicurò - puoi chiedere di farti crocifiggere a testa in giù».
«Ah, bè..»
Ma, in quel momento, s'aprì il grande e pesante portone che immetteva al salone. Ne uscirono quattro guardie armate che si schierarono, a due a due ai lati della soglia.
«Entrate - si udì da lontano, dall'interno della sala - Entrate fratelli, senza paura».
«Cioè, noi?» .
«Ma certo fratelli. - la voce era fioca e quasi indistinta - Entrate...».
Varcarono timorosi la porta. Furono abbagliati, sulle prime, dai marmi scintillanti di luce mattutina e dagli ori e dalle tinte sgargianti delle statue appoggiate alle pareti. Poi, aguzzando la vista scorsero, ma molto lontano, un tavolo attorno al quale erano sedute sei o sette persone. Si avvicinarono, dapprima esitanti, ma poi rassicurandosi ad ogni passo perché vedevano il sorriso nel volto degli interlocutori.
Si alzò un giovane raffinato, era Accipio Mentula, e venne loro incontro. Si accostò a Gitone. «Ha (pausa) Ha (pausa) Ha. - sorrise mellifluo -. Ci incontriamo dovunque, bel fratellone.» Seduto al centro del tavolo era un uomo grasso e rosso in volto. Aveva l'espressione affaticata. Lunghe meditazioni notturne o stravizi?
«Fratelli - annunciò l'augusto grassone - Ho una grande notizia da comunicarvi!».
«Ci annunci che moriremo martiri?» chiese esultante il cristiano.
«No - lo corresse il grassone - Vorrei annunciarvi che da oggi, per voi, vi è libertà di culto. Siete liberi!».
«Come?» chiese incredulo il pio cristiano.
«Liberi - confermò l'augusto patrizio - Abbiamo avuto qualche incomprensione, ma l'abbiamo superata».
«Incomprensione? - ruggì il cristiano - E i Santi Martiti Pietro, Paolo, Lino, Anacleto, Clemente, Evaristo, Aless..».
«Eh, sì - ammise costernato - C'è stato qualche disguido.. ».
«Disguido? E Sisto, Telesforo, Igino, Pio, Aniceto, Sotero, Eleuterio, Vittore, Zefirino, Call...».
«Effettivamente: è stato disdicevole. - Il grassone si alzò a fatica, sorridendo bonario - Ma perché rivangare queste vecchie storie? Il nuovo avanza, gettiamoci alle spalle il passato!» e stese cordialmente la mano. Accipio Mentula applaudì eccitato.
«Ottima idea! Ottima! Ho grandi progetti! Una processione! In ricordo della crocefissione del vostro Dio (ma come si chiamava?). Una grande processione con crocefissione finale. - rivolto a Gitone - Ma realistica, molto realistica! Ha (pausa) Ha (pausa) Ha.».
«Andate, ora, andate» li esortò il grassone.
«Sì, sì, andate - rincarò Accipio Mentula - Ma non preoccupatevi: ci incontreremo di nuovo. Ha (pausa) Ha (pausa) Ha.».
Increduli uscirono dal Palazzo, esultanti (Gitone ed Eutropio) e pensierosi (il cristiano).
«E ora? » si chiedeva il pio cristiano.
«E ora, cosa?» gli domandò Eutropio.
«E ora che faccio?».
Gitone ed Eutropio lo guardarono perplessi.
«...Roma è cambiata, cambiata...» meditava il cristiano ad alta voce. Si fermò ad un quadrivio, scrollando il capo dubbioso.
«Ho deciso...» disse dapprima tra sé e sé. E poi, continuando a ripetere quel «Ho deciso» con maggior vigore, rialzò la fronte e guardò al cielo.
Sorridendo, guardò a lungo Eutropio e Gitone e poi: «Ho deciso: addio, fratelli miei» li salutò abbracciandoli.
«Ma come, "addio"? Proprio adesso?».
«Addio, fratelli, addio. Domani partirò per la Siria, andrò in eremitaggio. Addio, ci incontreremo nuovamente, un giorno..» e puntò l'indice al cielo.
Lo videro incamminarsi nel mercato, girarsi di tanto in tanto e agitare la mano in segno di saluto fino a che, svoltato un angolo, non sparì dalla vista.
«Cioè, Eutro' - chiese Gitone - ma Roma è cambiata sur serio?».
Eutropio si sentì filosofo. «Roma cambia sempre, ma è sempre la stessa. E durerà per sempre..».
«Cioè, ma dici davvèro».
«Sì: Roma è eterna. Come gli Hawkwind..».
«Cioè, pure queli?».
«Anche loro. Lo sai che è uscito l'ultimo disco?».
«Sempre quell'harde rocke spazziale che facevano venticinque anni fa?».
«Più o meno. Qualcosa cambia, ma sono sfumature in fondo: gli Hawkwind mutano sempre, un po' ogni giorno, ma sono sempre gli stessi. E dureranno per sempre..».
«Ma, armeno, è 'n ber disco?».
«Certo che lo è, anche se non è uno dei loro migliori in assoluto... ».
Frattanto, i due amici, camminando lentamente e discorrendo erano giunti ad un bivio angusto, situato tra due alti palazzi che impedivano al sole, per quasi tutte le stagioni, di illuminare la strada.
«Cittadini!» si udirono chiamare.
Si voltarono verso una nicchia oscura: «Spurio Letulio? Sei tu?» domandò Eutropio.
«Sì, cittadini.».
«Ma... Spurio Letulio... non era giorno di elezioni?».
«Infatti, cittadini».
«E come sono andate?».
Spurio Letulio abbassò lo sguardo «Cittadini - cominciò con voce sommessa - viviamo in una fase complessa...».
«Lo sappiamo. Ma tu: quanti voti hai avuto?».
«Non molti, in effetti. Ma, cittadini, si tratta solo di una battaglia: la guerra...».
«Quanti?».
«...Ecco, vi è stata una campagna orchestrata che mirava al mio discredito e quindi non sono riuscito a stabilire un dial..».
«Quanti?».
Lieve esitazione. «Nemmeno uno, cittadini.».
Eutropio e Gitone lo guardarono stupiti e delusi.
«E sapete perché, cittadini?».
«No, perché?».
«Perché io non mi sono abbassato a votarmi!».
«Bè, è giusto, cioè questa sì che è stata una paraculata...».
«Ho perso, ebbene sì, ma dignitosamente!».
«Cioè, te hai perso..».
«...Ma dignitosamente!».
«Ma certo: co' dignità... Tanto...».
«Cittadini!».
«Sì?».
«Ove siete diretti?».
«Nun lo sapemo..Da la Lupa, forse? C'avemo n' po' de fame..».
«Ma sì... andiamo alla Locanda» confermò Eutropio rassegnato.
«Cittadini, ecco, per questa campagna ho contratto qualche debito e sono rimasto un po' a corto di liquido...Non è che potrei..».
E mentre i tre si dirigevano verso la malfamata Locanda della Suburra, al Palazzo del Palatino, la riunione stava giungendo a conclusione.
«Preferivo gli Dei dell'Olimpo» si lamentava un senatore.
«È inutile recriminare - lo riprese l'augusto grassone - La storia cambia, mutano le condizioni e il nuovo avanza.».
«Preferivo il vecchio».
«Non sta a noi scegliere in quale epoca vivere. - sentenziò ancora l'augusto - È il Fato che ci prende e ci getta nella vita, chi di qua, chi di là, chi prima e chi dopo. Noi siamo qui, oggi, ed è inutile protestare. Ci piaccia o no dobbiamo vivere, e svolgere il compito che ci è stato affidato dal Fato.».
«E quale sarebbe questo compito?».
«Credo che sia quello di garantire una sana transizione al Medio Evo... ».
«Bella soddisfazione..» grugnì il senatore.
«Non è tempo di Alessandri o Cesari, - lo interruppe il grassone - non è il tempo di costruire Imperi più durevoli del bronzo. Sarebbe già tanto se riuscissimo a conservare la memoria... ».
«Ah (pausa) Ah (pausa) Ah. E anche le tue terre di Sicilia, vero Prefettone mio? Ah (pausa) Ah (pausa) Ah.».
«Anche» sogghignò l'augusto grassone.
«Ma cosa ne facciamo di questi libri sibillini?» chiese il senatore.
«Avrei un'idea. - gli rispose il grassone - Qui a Roma non possiamo tenerli: rischierebbero di cadere in mani troppo curiose. Suggerirei di mandarli, nascosti in un'anfora d'olio, in Britannia, dal Pretore della Rocca del Toro: è un uomo fidato. Siete d'accordo?». Il progetto fu approvato all'unanimità.
E in effetti il giorno successivo partì un mercantile dal porto di Ostia. Ma, dopo una settimana fu assalito da pirati galli che ne rapirono il carico. Poi arrivarono, nei secoli successivi, un po' di barbari qua e là per l'Europa. Il pretore della Rocca del Toro, però, conosceva la storia dei libri sibillini e la tramandò ai suoi discendenti. Col passare degli anni la vicenda venne ricordata in maniera sempre più confusa e, del resto, anche i nomi cambiarono: il Pretore della Rocca del Toro (Arx Tauri) divenne, nei suoi discendenti, Arcturi, poi Arcturus e, infine, Artù. E fu proprio questo Artù, lontano dicendente di quel pretore, che un giorno riunì i suoi cavalieri e parlò loro di un calice: l'anfora, in origine, che nel frattempo era diventata nientemeno che un Graal. Ma questa, come si dice, è un'altra storia.
Per terminare la nostra, i tre s'incamminarono ancora lungo il Vico Patricius diretti alla Suburra.
«Certo che stavolta tocca pagalla, a la Lupa» osservò Gitone.
«Quanti soldi abbiamo amico mio?» domandò Eutropio con aria superiore.
«Lo sai mejo de me: gnente».
«Nulla? E come faremo a onorare i nostri debiti?» chiese ancora Eutropio, con un punta di retorica.
«Forse ar candidato - azzardò Gitone - j'è rimasto quarcosa...»
«Mi duole disilludervi, cittadini.»
«E allora?»
«Bè, se dice che la Lupa acetta puro li pagamenti 'n natura...»
«In natura?» s'informò Eutropio.
«Già - confermò Gitone - me dicono che c'ha 'na predilezzione per l'intelettuali...»
«Oh che strano - si stupì Eutropio - m'era giunta invece novella ch'ella prediligesse i giovani nerboruti. O, in subordine, i politici provati dalla sconfitta.»
«Anche a me, o cittadini, pareva d'aver udito qualcosa a proposito dei giovani nerboruti»
«No, cioè, forse pe' l'intelettuali me so' toppato, ma pe' li politici ce metto 'a mano sur foco.»
«Eppure, eppure, mi pareva proprio, o cittadino, che per i giovani nerboruti ella avesse un debole...».
Così parlando si ritrovarono all'entrata della Locanda della Lupa. Cominciava la serata, e già si avvicinavano i primi clienti e, come al solito, si trattava del gruppo di schiavi che, procedendo in fila, cantavano in coro
Dies irae dies illa
bibet ille bibet illa
bibet servus cum ancilla
teste David cum Sibilla
ho ho ho.
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mercoledì 23 febbraio 1994
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